Maradona e la sua umanità

Sulla sostanza del mito.

Fonte: Flickr

La morte di Maradona ha scosso le coscienze di tutti. Personalmente, quello che mi ha colpito di più è vedere come la notizia abbia segnato in maniera trasversale non solo la sensibilità degli appassionati di calcio – che era scontato – o dell’opinione pubblica – che succede già più di rado – ma anche quella dei miei colleghi antropologi e degli scienziati sociali in generale, che difficilmente si mettono a commentare quello che succede nello sport, anche quando assume portata epocale. Sui social, a partire dal tardo pomeriggio, parole di stima, di affetto, di riconoscenza e di cordoglio rimbalzavano non solo tra i profili individuali di professori, ricercatori e studenti che animano la mia home page di Facebook, ma anche sulle pagine ufficiali delle società e associazioni di antropologia con cui sono in contatto.

Mi sono chiesto perché: di solito, si tratta di un’utenza che non segue le logiche della “viralità” che orientano i like, i post e i repost del grande pubblico. Anzi, cerca spesso di eluderle, in virtù (o a dimostrazione) di un approccio critico, ragionato, informato e meno impulsivo rispetto ai fatti della cronaca. Ho trovato anche molto presto, prima di quanto immaginassi, una risposta che mi soddisfacesse. Una risposta che mi rendo conto essere, come spesso accade a chi lavora nella ricerca, fondata proprio sulle analisi che sono state prodotte sulla risonanza sociale e culturale della figura di Maradona nell’immaginario euro-americano (dove la seconda parte dell’aggettivo si riferisce qui a tutta l’America, e soprattutto a quella del Sud, e non solo agli Stati Uniti). Penso, per esempio, alle considerazioni sulla spettacolarità di “una vita eroica” fatte dall’antropologo argentino Edoardo Archetti più o meno vent’anni fa; penso al racconto dell’“eroe napoletano” che ci ha offerto ancora prima il nostro Vittorio Dini sulle pagine di una importante rivista francese di scienze sociali; penso, in particolare, alla più recente ed esaustiva indagine sulla Sociologia di un mito globale, curata da Luca Bifulco e (di nuovo) Vittorio Dini. Quest’ultimo volume ospita saggi interessantissimi, che ci offrono chiavi di lettura diverse della fenomenologia del campione argentino, che sarebbe interessante rileggere oggi, alla luce del fermento che la sua scomparsa ha suscitato.

Maradona – summa antropologica per eccellenza – ci ha mostrato, in tutta la sua vita e non solo in quella sportiva, che il talento è un dono ambivalente, e non è cosa di tutti. Soprattutto, che non basta volerlo per ottenerlo, come da qualche decennio a questa parte vorrebbe insegnarci la doxa del coaching, della PNL e di tutte le dottrine di derivazione americana volte allo “sviluppo del potenziale”, in una quanto mai riuscita convergenza di intenti coi contenuti del marketing di altissimo livello: “Impossible is nothing”, ci diceva Adidas qualche anno fa, basta farlo – “just do it” – ribadisce, con uno degli slogan più noti ed efficaci della contemporaneità, Nike.

Ecco, Maradona ci ha dimostrato, o forse ce lo ha solo ricordato, che la dedizione è solo uno degli ingredienti che ci permettono di esprimere il talento, nello sport come nel lavoro, nelle relazioni e nella vita in generale. Ma non il solo, e nel caso di Maradona nemmeno uno di quelli più importanti. Maradona frantumava la convinzione che l’esercizio di una volontà razionalista e integralista sulla vita umana (piegare la nostra umanità, fatta di contraddizione e di desiderio, al rigore di una volontà che si esercita, sempre uguale a se stessa, su di noi, e talvolta contro di noi) fosse l’unica via per la realizzazione delle nostre ambizioni e lo sviluppo dei nostri talenti. Il corpo di Maradona, e i suoi eccessi, non potevano essere ricondotti ai canoni razionalistici e normativi dei manuali di biomeccanica del movimento che proprio negli stessi anni stavano piegando lo sport professionistico – e anche il calcio, che è uno di quelli in cui il talento può ancora affermarsi sulla preparazione atletica – alle logiche formali, prevedibili e controllabili della scienza motoria.

Maradona è stato un’eterodossia. Quanto di più distante dal corpo disciplinato che è al cuore di tanta pratica sportiva, e dal «“corretto” profilo valoriale» cui gli atleti sono chiamati ad aderire: quello che Sergio Brancato attribuiva alla figura di Pelé, in quanto conforme (e utile) alla linea del discorso mediatico e federale sul calcio, al cospetto appunto di quella antagonista ed eterodossa del Pibe de Oro. Smarcandosi – letteralmente – da quell’imperativo ascetico e normativo che si è imposto con così tanta efficacia nel mondo dello sport, e di cui Cristiano Ronaldo col suo approccio ossessivo all’allenamento e alla vita sembra la definitiva incarnazione, Maradona ci mostrava quel che intimamente molti di noi sentivano, ma non hanno mai formulato in un pensiero (non per incapacità, ma perché a volte, semplicemente, non ce n’è bisogno).

Vale a dire, che la fede positivista nella volontà individuale come unico strumento per la realizzazione scientifica del potenziale umano non era forse il modo più efficace, e di sicuro non quello più bello, né quello più evocativo, di pensare ed esprimere l’umanità. Maradona si emancipava dal pericoloso imperativo del “tutto è possibile, se solo lo vogliamo” (pericoloso perché nel momento in cui non ci arriviamo non può che essere colpa nostra, che non l’abbiamo voluto abbastanza), per dare libera espressione alla creatività, al pensiero laterale. Così, emancipava anche tutti noi dalla convinzione che la rigida imposizione della volontà sul corpo, sulla vita e sui desideri fosse l’unica strada per la realizzazione, se non dei nostri talenti, almeno delle nostre aspirazioni, delle nostre virtù. Quello che vedevamo nelle traiettorie impossibili delle sue punizioni, nelle sue sfide alla fisica e alla gravità, nel modo in cui faceva accadere, con quella sorprendente naturalezza,«tutto in modo molto rapido, tutto lentissimo», era un mondo meno prevedibile, un mondo di possibilità. Un mondo di poesia, un mondo di metafora, in cui l’umanità ha ancora l’opportunità di trascendere le leggi che la governano, ridisegnandole ogni volta.

Maradona ha sempre riportato l’umanità, poliedrica, contraddittoria, imprevedibile, al centro del discorso pubblico, sottraendola allo stesso tempo a qualsiasi possibilità di raccontarla in maniera univoca, definitiva, coerente. In lui la complessità tornava ogni volta, in ogni ambito della vita, a essere costitutiva dell’esperienza umana. Come, anche, la speranza. In senso assoluto, in senso spirituale, in senso teologico quasi: la speranza che la salvezza sia ancora possibile, sia sempre possibile, al di là di qualsiasi fede (fallace, e senza possibilità di redenzione) nella volontà individuale.

Forse, stavolta, (un) dio è morto davvero.

Bibliografia

Edoardo Archetti, “The Spectacle of a Heroic Life: The Case of Diego Maradona”, in David L. Andrews – Steven J. Jackson (a cura di), Sport Stars: The Cultural Politics of Sporting Celebrity, Routledge, London, 2001.

Luca Bifulco – Vittorio Dini, Maradona. Sociologia di un mito globale, Ipermedium Libri, Santa Maria Capua Vetere, 2014.

Vittorio Dini, Maradona, héros napolitain, «Actes de la Recherche en Sciences Sociales», Année 1994, numero 103, pp. 75-78.

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