Manoel de Oliveira, Re-trait

Il 2 aprile, una settimana fa, ci lasciava Manoel de Oliveira. Come invito alla lettura e all’incontro con l’opera del maestro portoghese, riportiamo l’incipit del libro Manoel de Oliveira. Il visibile dell’invisibile di Bruno Roberti, pubblicato nel 2012 da Ente dello Spettacolo. 

C’è una ambiguità nel movimento del ritrarsi. Si può intendere il termine come l’atto di procedere a un “autoritratto” e insieme come un sottrarsi al riconoscimento, magari nascondendosi. In questo doppio movimento del ritrarsi possiamo intendere l’“enigma” che riflette la vita nell’opera di Manoel de Oliveira, e viceversa. Un cineasta che nasce quasi con il cinema e che, superati i cento anni suoi e del cinema stesso, è ancora in attività.

Nato a Oporto l’11 dicembre del 1908, Manoel Candido Pinto de Oliveira entra nei centoquattro anni, ed è ancora attivo, anzi nel 2012 è intento a lavorare su ben due film. Ci si può stupire di questo, ma il fatto è che de Oliveira è entrato da maestro nella storia del cinema e continua a darvi il suo contributo realizzando opere che ne confermano la vitalità, la voglia di sperimentare, su una linea tematica e stilistica che gli appartiene in modo inconfondibile.

Quel ritrarsi contiene in sé una cifra segreta del suo lavoro: il nesso visibile/invisibile. Del resto l’intreccio tra la sua vita e la sua opera è posto sotto questa dicotomia: la visibilità di periodi di attività e l’invisibilità delle “eclissi” del suo fare cinema, fino alla piena, ma misteriosa, visibilità dei recenti, attivissimi, trent’anni del suo cinema.

Gira il suo primo film, Douro Faina Fluvial (1931; Douro, lavoro fluviale), poco più che ventenne, inserendosi di diritto nel solco dell’avanguardia cinematografica di quel periodo, arriva alla sua prima opera di finzione dopo dieci anni (costellati da pochi documentari) con Aniki-Bóbó (1942; Id.), film in cui è racchiusa in nuce buona parte della sua poetica e che pone da subito, al di là delle “assonanze” con gli inizi “coevi” del neorealismo, la questione del rapporto tra realtà e sua rappresentazione, sogno e vita, desiderio e sua frustrazione, evidenza visibile del luogo e suo spirito invisibile, genius loci.

Resta poi quasi inattivo per più di un ventennio prima di girare (dopo un’altra breve serie di importanti documentari) uno dei suoi film-chiave, Acto de Primavera (1963; Atto di primavera), fondamentale per tutto il nuovo cinema portoghese degli anni Sessanta (per i registi lusitani di quegli anni de Oliveira rappresentò un po’ quello che fu Jean Renoir per la Nouvelle Vague), sospeso all’interno della riflessione metacinematografica, tra documento e finzionalità, vita (del cinema e del popolo) e rappresentazione della vita (ritualità, celebrazione, teatro), sacro e profano, nessi che saranno ricorrenti per il maestro portoghese.

Attende quasi altri dieci anni prima di avere la possibilità di girare ancora un film di finzione, O Passado e o Presente (1971; Il passato e il presente), tra i suoi più “teorici”, in cui il sarcasmo, il gelo e il delirio si coniugano nella geometria “politica” dell’uso dello spazio.

A partire da quegli anni Settanta, intensifica il suo lavoro chiudendo il cosiddetto ciclo degli “amori frustrati” (con Benilde ou a Virgem Mãe, 1975, Benilde o la vergine madre; Amor de Perdição, 1978, Amor di perdizione e Francisca, 1981, Id.), e inaugurando un ritmo creativo di almeno un film all’anno, spesso capolavori, compresi alcuni film-monstre come Le soulier de satin (1985; Id.), durata: sette ore.

Da questo profilo, che solca un secolo e più di cinema, si evince come l’alternarsi di “visibilità” e “invisibilità” da un lato attiene letteralmente alle periodiche riemersioni della sua opera, dall’altro risponde a un continuo interrogarsi del suo cinema proprio sull’altro lato delle cose, dei luoghi, delle anime, su ciò che di invisibile traluce nel visibile.

Ed è bene rintracciare il modo in cui de Oliveira (il quale fu messo in condizione di non lavorare per lunghi periodi dalla “censura dissimulata” delle condizioni politiche di un Paese sotto la cappa della dittatura fino al 1975) non abbia mai smesso di pensare cinema, di interrogarsi sul cinema, di immaginarlo come una condizione inscindibile dalla vita, dalla sua vita, e dalla sua vita di artista[1] (ne sono testimonianza interessante i numerosi progetti non realizzati durante gli anni di inattività).

Figlio di un importante industriale tessile (pioniere anche dell’industria idroelettrica sul fiume Ave), Francisco José, e cresciuto nell’ambiente dell’alta borghesia cattolica portuense, Manoel è un giovane affascinante, atletico e sportivo, al punto che lo scultore Henrique Moreira lo utilizza come modello per la statua di O Atleta. Ma è anche un dandy colto e raffinato che, dopo aver studiato alla scuola di “dissimulazione onesta” di un collegio galiziano di gesuiti, si immerge nella vita intellettuale dell’epoca, coltiva l’amore per la poesia e per la bellezza femminile, eccelle in acrobazie con il trapezio volante, pratica l’automobilismo e il salto con l’asta conseguendo anche riconoscimenti.

Eppure la terra, le vigne del Douro, il lavoro dei contadini, lo scorrere eterno di una vita di popolo sono fonte di ispirazione continua che immette il senso di un paesaggio anche politico nel suo cinema. Eppure la raffinatezza culturale e le cerimonie della borghesia da un lato, la profonda fede religiosa e la ritualità popolare dall’altro, lo emozionano profondamente nel loro valore etico-estetico. Eppure il sostrato millenario e mitico della civiltà occidentale-mediterranea, l’orizzonte della Storia e dell’Utopia da un lato, e il sogno tutto portoghese di conquista e di espansione, l’ansia di esplorazione, scoperta, sperimentazione unite al senso “fatale” di una misteriosa “nostalgia del futuro” dall’altro, sono per il cineasta radici terrestri e celesti di una visione di cui solo il cinema può attivare l’epifania, fin nel suo enigma invisibile.

Il cinema è il destino di Manoel, al punto che occuparsene diventa per lui come respirare. Quando, ragazzo, vedeva dal balcone affacciato sul giardino della sua velha casa di Oporto (che tornerà a filmare più che novantenne) uscire le operaie dalla fabbrica tessile, come non pensare che solo due decenni prima Aurélio Paz dos Reis filmava l’uscita delle camiciaie dalla Confiança di Rua Santa Caterina, nella stessa città, dando inizio al cinema portoghese. Ventenne, con il fratello Casimiro, segue una scuola di recitazione sotto la guida dell’italiano Rino Lupo, che lo scrittura come attore per Fátima Milagrosa [1928; id.], e nel 1933 ha un ruolo nel primo film sonoro portoghese A Canção de Lisboa (La canzone di Lisbona), di un altro regista, José Cottinelli Telmo. Frequenta i teatri, incontra scrittori e poeti (José Régio e Agustina Bessa-Luís conosciuti negli anni Trenta diventano i due “lari” della sua ispirazione letteraria), ma soprattutto è preso dalle immagini, dal loro mistero, cui Manoel accorderà sempre la stessa devozione che al mistero femminile e a quello filosofico-religioso:

«Con l’aiuto del padre, che gli fa dono di una cinepresa e di alcuni obiettivi, nonché la collaborazione di un fotografo amatore e impiegato di banca, Antonio Mendes, il cineasta in erba comincia a raccogliere materiale per il suo primo film. Ha vent’anni. il garage di casa funziona da laboratorio per lo sviluppo della pellicola, il biliardo è il tavolo di montaggio».[2]

Gira e monta un atto d’amore, da lui ripetuto fino a O Estranho Caso de Angélica (2010; Lo strano caso di Angelica), per la valle del Douro, per il lavoro umano, per l’eterno fluire del tempo, per le potenze del cinema: quel Douro, lavoro fluviale che, presentato al V Congresso Internazionale della Critica a Lisbona, entusiasmerà Pirandello.[3] Da allora la sua vita si intreccerà a filo doppio, fino ad identificarvisi, con l’enigma del cinema, e con la riflessione sul suo mystère: la sua opera ne costituirà uno dei fondamenti di modernità, e insieme di respiro classico.

[Qui il pdf Palingenesi di Manoel de Oliveira, un omaggio di Bruno Roberti a Manoel de Oliveira]

Note

[1] «Per tutta la vita ho riflettuto sul cinema», cfr. J. Bénard da Costa, Il cinema al di là del sipario nero, intervista a m. de oliveira, in r. Turigliatto – S. Fina (a cura di), Manoel de Oliveira, Torino Film Festival/associazione Cinema Giovani, Torino 2000, p. 92.

[2] F.S. Nisio, Manoel de Oliveira. Cinema, parola, politica, Le Mani, Recco (ge)
2010, p. 39.

[3] Cfr. M.J. de Lancastre, Con un sogno nel bagaglio. Un viaggio di Pirandello in Portogallo, Sellerio, Palermo 2006.

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