Manifesta 12, Palermo: considerazioni di un nativo e antropologo

Una riflessione attorno alle possibilità e i rischi di patrimonializzazione territoriale contempoarea attraverso un racconto critico di Manifesta 12, la Biennale nomade europe inaugurata a Palermo.

A Palermo in questi giorni è già cominciato il “Festino”, la festa di Santa Rosalia, festa eminentemente popolare, con lumache, vino, fuochi d’artificio e un po’ di devozione per la “santuzza” che però, si sa, di miracoli ne fa sempre meno rispetto alla vera santa a cui tutti si rivolgono nei casi seri, “Santa Rita”. È da poco finita la prima settimana di Manifesta e a ben vedere tra quella e questi giorni c’è una continuità che potrebbe sembrare cosa buona se non facesse sorgere alcuni interrogativi (solo a chi qui c’è nato e cresciuto). Manifesta, concepita e gestita da una “azienda” culturale olandese vicina a Rem Koolhas e al suo “OMA” è atterrata a Palermo su invito del sindaco Orlando. Ha ricevuto dal Comune di Palermo quattro milioni e seicentomila euro e dalla Sisal (quelli del gioco d’azzardo) altri settecentomila, per dare vita a una kermesse di circa tre mesi centrata sull’arte che doveva e dovrebbe portare qui artisti da tutto il mondo, performance, e attivare nel tessuto della città una febbre di manifestazioni collaterali. Il Comune ha offerto o ha reso disponibili una straordinaria quantità di palazzi storici, alcuni pubblici, alcuni privati e i servizi ad essi connessi. Chi esplori Manifesta e le attività collaterali si stupisce della bellezza di questi luoghi, in parte semiabbandonati, che prendono vita. La qualità media delle opere e degli artisti è modesta, salvo qualche eccezione, ma le locations riscattano tutto. Forse ci sono più cose interessanti nelle manifestazioni collaterali, nate dall’iniziativa di privati e di gallerie che non fanno parte direttamente di Manifesta.

La comunicazione, l’organizzazione e l’offerta gestita da Manifesta sembra anch’essa piuttosto modesta e affetta da una visione colonialista della città e dell’isola. Pompando sulla retorica dello storytelling e della partecipazione, quest’ottica finisce per scimmiottare quello che la città produce da sé, il fare festa a Santa Rosalia, ma con minore o assoluta non autenticità. Vi poteva capitare di essere invitati da chaperon olandesi a fare un giro della Palermo tipica o di assistere a lancio di coriandoli, majorettes, fuochi d’artificio nel tentativo di afferrare l’aspetto “folcloristico” della città. Cadendo in stereotipi, banalità e molta superficialità. Anche artisti di alto livello come ad esempio il catalano Jordi Colomer venivano in fretta e furia invitati a esprimersi su quartieri molto problematici, come Bandita o Romagnolo (sede di tre camere della morte della mafia, dove la gente veniva sciolta nell’acido). Veniva fuori e viene fuori una panoramica da depliant di agenzie di viaggio senza alcuna capacità di lettura e approfondimento. Si ha l’impressione girando per Manifesta che “non c’è stato tempo”, che una grande occasione è stata sprecata e che la complessità della città e della sua storia è stata schiacciata contro uno stereotipo molto nordico e televisivo. E alla fine ci si chiede se i soldi dati a Manifesta siano davvero ben spesi. Visto che la maggior parte dello stupore è dovuto alla magnificenza del patrimonio che la città umilmente ha messo a disposizione degli “stranieri”. Questa è una vecchia storia. Chissà quando Palermo continuerà a pensare che chi si occupa di lei le fa un favore? Da questo punto di vista Manifesta ha ricalcato la minifiera di cattivo gusto organizzata qui da Dolce e Gabbana, che ne ha utilizzato gli spazi storici come se fossero luoghi di una festa privata. Durante Manifesta uno dei luoghi più importanti della città, il museo Salinas, che ospita le rarissime metope di Selinunte e i tesori inestimabili del patrimonio greco-siculo è stato utilizzato per un rave di scarso buon gusto. Come se Antonello sa Messina, Selinunte, la storia stratificata di civiltà che qui è tangibile non bastasse per gli sguardi annoiati dei nord-europei.

Certo, la scommessa del sindaco Leoluca Orlando è stata vinta, la città è piena di attività e di turisti come non mai, c’è una fioritura di locali, di gallerie, di mostre e moltissimo pubblico giovane. È una rinascita dovuta solo in parte a Manifesta. Diciamo che da almeno tre anni il turismo è triplicato, grazie ai problemi della Tunisia, della Turchia e dell’Egitto. E grazie al fascino che questa città esercita sui milanesi che la vedono come alternativa alla oggettiva bruttezza della capitale lombarda. Hotel, b&b, ristoranti, arancine e cannoli sono diventati il simbolo di una città che si offre oramai non più solo a turisti di cultura e a vacanzieri del sole, ma a giovani che vengono qui perché c’è un clima “barcellonese”, vino, notti temperate, atmosfera rilassata e un’intera città da conquistare. Tutto ciò è bene, basta che si abbia in mente cosa ha provocato a Barcellona dopo un po’ di anni. Il turismo è una risorsa straordinaria, ma se non gestito è un boomerang che finisce per devastare il tessuto umano e materiale di una città. Intanto però l’economia ha ricominciato a girare. In questa strana città in cui il “mordi e fuggi” è un sigillo del blocco mafioso che impedisce pensieri più ampi: una qualificazione effettiva del patrimonio monumentale e immobiliare, una riqualificazione dei servizi, dei trasporti pubblici (da poco è fallito il progetto del tram che in questi ultimi dieci anni ha sventrato la città, ne ha abbattuto il verde e ha reso la vita impossibile ). E la famosa questione della nettezza urbana. Come si fa a fare Manifesta e a lasciare la città nella puzza dei cumuli d’immondizia, nel buio di interi quartieri e nella difficoltà effettiva di muoversi? Da questo punto di vista Barcellona è avanti anni luce, perché per prima cosa ha risolto questi problemi . È possibile che non si riesca a trovare una sponsorizzazione per queste cose, nemmeno del gioco d’azzardo? È possibile che solo l’arte sia considerata un beneficio per la città?

E qui viene il discorso di cui Manifesta e Palermo sono il paradigma più interessante. L’arte come volano di vita di una città, l’arte che sostituisce oggi altre operazioni – fino a qualche anno fa i sindaci chiamavano le archistar, oggi chiamano gli artisti con la stessa convinzione che qualunque cosa si faccia è “bene”. L’arte è buona e si autogiustifica. Anche quando è ambigua nei suoi messaggi, anche quando è oggettivamente “fuffa”, anche quando manifesta solo la furbizia del sistema e del mercato dell’arte. A Palermo questo è successo in modo particolare. La retorica dell’accoglienza, la retorica della città aperta e generosa con l’immigrazione, retorica sacrosanta, però ha coperto i vuoti di prospettive più profonde. Non basta essere anti-salviniani per inventare una politica cittadina che dia opportunità di integrazione e che impedisca la lotta tra i poveri. E di retorica si è molto vissuti in questa Manifesta. Ne sia prova per tutti l’operazione di “Incompiuto Siciliano”, che estetizza la piaga dell’abusivismo nell’isola e impedisce di capire come sia importante come non mai oggi la protezione del paesaggio qui. E anche l’operazione “Rotor” che ha messo l’accento sull’abusivismo mafioso sulla montagna sopra Mondello, Pizzo Sella, rischia di avallare operazioni di rabberciamento di una vergogna a cielo aperto. Mi sembra che quello che è mancato molto a Manifesta sia proprio una gelosia del luogo, un progetto di farlo diventare sostenibile, civile, non pervaso di mafia e soprattutto sottratto alle elite baronali e accademica e alle cordate di clan familiari che qui impazzano come non mai. Il problema dell’arte come volano di una città a Palermo si è tradotto nel contrario. Ha dato più Palermo a Manifesta che Manifesta a Palermo.

Sarebbe ora che Manifesta rendesse “manifesto” il bilancio di come ha usato i soldi pubblici e privati che le sono stati affidati. Qui tutto il lavoro svolto da volontari e operatori locali è stato per lo più non pagato e quindi ci si chiede che tipo di volano ha creato nel tessuto giovanile di questa città da cui i giovani locali sono costretti a fuggire. Sono domande legittime, mi sembra, adesso che forse l’arte e il suo sistema sta perdendo per buona parte le foglie di fico che l’hanno ricoperta per anni. L’arte, cerchiamo di capirlo, non è buona di per sé, “anything goes”, come lo si pensava fosse l’architettura fino a qualche anno fa, a scapito di orrendezze alla Fucsass o alla Calatrava e di gentrification conseguente.

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