Il quarto racconto di Simone Ghelli, dedicato ai frammenti di biografia di uomini e donne che furono ricoverate al S. Niccolò, l’ex manicomio di Siena. La serie #storiedaunexmanicomio è ospitata da MILLEUNA e REPARTO AGITATI.
C.
C. tirava fuori la mia rabbia. Non c’è un altro modo per descrivere l’eredità che mi ha lasciato.
Il suo vocabolario ristretto era la mia tortura. Non faceva che ripetere le stesse cose, per lo più desideri infantili che appartenevano al mondo prima delle mura: i soldatini, la ruspa, le macchinine; oppure il caffè, che con le sigarette era la droga preferita dagli ospiti. C. aveva la particolare caratteristica di non fumare. Che io mi ricordi era l’unico, là dentro.
Un dottore mi disse che era stato catalogato come ebefrènico. Il vocabolario Treccani la definisce come una «varietà di schizofrenia, propria dell’età giovanile e caratterizzata da dissociazione ideativa, apatia, indifferenza affettiva».* Tra le cose che ripeteva c’erano anche ricordi legati alla famiglia, frammenti di discorsi che doveva aver fatto propri. «Dov’è finita la mamma?» chiedeva a se stesso. «Al camposanto,» si rispondeva da solo. «E chi ce l’ha mandata?» continuava. «Io».
Capitava che si trasformasse, solitamente quando non riceveva attenzioni. Gli occhi gli si arrossavano e diventavano lucidi, come febbricitanti, i muscoli facciali gli si irrigidivano in un ghigno. In un attimo sarebbe stato capace di tutto. Sbatteva con forza la testa contro il muro, oppure alzava il braccio e rimaneva trattenuto così, nel gesto di sferrare un colpo. Una volta lo sorpresi alle mie spalle con un coltello in mano. Accadde durante la settimana bianca, sul Monte Amiata. Tra le abitudini dell’istituzione c’era quella di portare in vacanza alcuni “ospiti” per sottrarli alla routine. Oltre a me c’erano l’assistente sociale e un paio di infermieri. Quell’anno C. era stato tra i dieci fortunati che avevano ricevuto in premio la possibilità di camminare e respirare un po’ di aria fresca. Io ero una sorta di tuttofare. Tra le altre cose mi occupavo di preparare i pasti. Quando mi girai stavo sminuzzando la cipolla per il sugo. Fu come un presentimento. C. stava in piedi dietro di me, il coltellaccio da cucina alzato e un sorriso beffardo stampato in faccia. Però ricordo di non aver avuto paura. Credo addirittura di aver riso con lui e dopo anche con l’infermiere che è intervenuto. Quello era un mondo dove le cose andavano in un modo tutto loro. L’unica regola era il tempo. I pasti alla stessa ora, a letto alla stessa ora, i turni per le sigarette. Ma con C. non funzionavano neanche quelle. Credo di non averlo mai sopportato, in certi momenti l’ho persino odiato. Era senz’altro il mio castigo.