“MaliNati” o la terra del lamento

MaliNati di Angela Bubba (Bompiani, 2012) è un viaggio in una Calabria maledetta macchiata dal peccato originale, una narrazione che deve più all’immaginario che alla cronaca in cui il vero burattinaio, la ‘ndrangheta, è il grande assente.


Angela Bubba è nata nel 1989 a Mesoraca, un paese di poco più di seimila abitanti in provincia di Crotone, e ha già pubblicato nel 2009 La Casa (Elliot), presentato da Paolo Giordano tra i dodici finalisti del premio Strega l’anno successivo.

MaliNati è uscito nel 2012, ma a me è stato regalato, o meglio ceduto, solo qualche mese fa: “Leggilo tu. Io non riesco…” “Perché?” “Non lo so. Non è per quello che dice. Forse è la sua scrittura…” Una presentazione che mi ha incuriosita e attratta; del resto è facile sentire come elemento di elezione il riuscire ad accedere a un testo che ha allontanato altri lettori. Poi però ho capito a cos’era dovuto quell’ostacolo, quell’incapacità di proseguire oltre: a una sensazione di bulimia atipica che si produceva anche in me mentre proseguivo, come sarebbe il continuare a ingozzarsi di aria, o di qualcosa che non dà nutrimento ma soffoca.

MaliNati, che non è certo un romanzo ma non per questo è un reportage, è diviso in sei capitoli in cui l’autrice passa in rassegna alcuni emblematici casi di Malanascita: Rosarno e quello che ne è stato delle rivolte del 2010, un giovane immigrato in una Crotone inospitale e arida, una fabbrica abbandonata ad altissimo tasso inquinante, la madre di una bambina morta per un caso di malasanità all’ospedale di Vibo Valentia, per poi passare alla vita da emigrante dell’autrice, ovvero la sua vita da giovane studentessa calabrese alla Sapienza.Il libro è un lungo lamento per la disgrazia di una terra maledetta che si dibatte in un’assurda agonia, causata da un peccato originale e irredimibile di cui non è dato sapere di più: l’autrice non ce lo spiega. Semplicemente chi nasce in Calabria è condannato alla partenza, pena la disperazione, o alla partenza e alla disperazione. A dire il vero Angela Bubba non sembra mascherare troppo l’affermazione che chi è nato in Calabria è in realtà un morto, non è mai stato vivo. L’essere vivi in Calabria è essere morti: «Non mi sento libera e non mi sento viva»;  «Perché siamo morti, e la vendetta è dei vivi. A noi rimane solo il ricatto di una cosa che non può più essere chiamata spensieratezza, di una banalità che si chiama abbandono”; «Io non ho niente da concedere, forse sono morta»; «Forse sono morti e non lo sanno»; «Quell’uomo mi aveva appena confessato di essere morto. Meglio andare»; «Rimaniamo fermi così, morti».

È così, è sempre stato così – sembra affermare l’autrice – oh, com’è drammatico e ingiusto che sia così, come mi sento visceralmente legata a questo dolore che è dolore della terra ed è dolore della gente… E, par di capire, sarà così fino a quando qualcuno (chi?) non farà qualcosa.

Forse fra un po’ di anni cambierà tutto o non cambierà nulla magari, e in Calabria continueremo a essere tutti morti. […] In Calabria muori perché tutto rimane invariato ed è tutto vero, e non c’è mai niente di nuovo perché niente cambia, film fermo: il politico che esaurisce il balletto dietro al microfono, gli anziani che rimettono la coppola e si dileguano senza neppure applaudire, la legge che ricomincia. Film sempre più fermo: chiunque tu sia tornatene a casa adesso, il gran dio Abbandono sta infatti alla tua porta e attende i tuoi sacrifici, tornate ognuno per sé (p. 48).

A metà libro mi è tornato in mente un articolo di Christian Raimo su ZeroZeroZero (Feltrinelli, 2013) di Roberto Saviano (uscito in realtà un anno dopo il libro della Bubba), e sono andata a rileggerlo. Raimo definiva “performativa” la scrittura di Saviano: «Chiede al lettore di reagire emotivamente e non fa appello al suo desiderio di capire. Dal punto di vista stilistico, ZeroZeroZero mostra indubbiamente questa omogeneità di una scrittura tutta proiettata a condizionare chi legge, quasi volendo anticiparne le reazioni. Un tono che appunto rischia di scivolare dall’affabulatorio al profetico fino al promozionale». Continua Raimo: «Non ci interessa molto chiedere il perché le cose nel mondo vadano in un certo modo, ci interessa solo che al nostro lettore – speriamo, speriamo – venga la pelle d’oca e non gli vada più via».

In MaliNati ci sono le stesse chiose a effetto, le stesse frasi-slogan, persino la stessa ricorrenza di metafore anatomiche o organiche, a esasperare il senso di partecipazione viscerale, totale, ineluttabile, e poi l’immancabile infarcitura di citazioni di personaggi e miti ellenici: del resto, questa un tempo era la Magna Grecia. Allora sì che qui c’era la cultura, la vita. Oggi, ve l’ho detto!, non si sa bene come e quando, siamo morti.

Il libro manifesta questa intenzione performativa già dal testo in bandella: «Benvenuti in Calabria, paese di Spartani e Africani sfrattati, delle arance di sangue e dei corpi dimenticati. […] Benvenuti nel paese della solitudine. Nel posto della ’ndrangheta e dell’anonimato, delle strade d’arsenico e del passato affondato. Nella terra degli ospedali assassini e dello Stato invisibile […]. Nella più fonda notte d’Italia, in un’oscurità chiamata Calabria. Benvenuti». Subito dopo, in apertura, la citazione di una strofa di Mother dei Pink Floyd.

Il fastidio e la nausea che inizialmente erano indistinti si sono chiarificati andando avanti: il punto è che c’è un che di pornografico in questo tipo di scrittura, nel voler suscitare uno spasmo, un’adesione emotiva incondizionata. Visioni storpiate e allucinate che focalizzano tutto sullo sguardo, a volte materno e benevolo, altre volte giudicante e severo, dell’autrice, uno sguardo che non concede spazio ad altre visioni o informazioni ma costringe a guardare tutto con i suoi occhi, come un filtro fotografico su una Calabria che non esiste se non come fiotto di parole che scivolano sulla carta in un onanismo intellettual-letterario. Metafore forzatamente organiche come «grosso utero verde scuro», «talmente dolce che nelle sue gengive vibra come un diapason» (e stiamo parlando di un’anguria), «sono solo un pus di grasso e fantasia, uno strano olio pieno di fonemi che si cibano nella mia testa, un’elefantiasi che mi gonfia a dismisura il cervello”, «l’inguine stellare di una via cominciata chissà dove», effetti retorici e sinestetici talmente forzati che finiscono con lo scadere nel ridicolo: «Sono nel luogo degli oppressi, non faccio che ripetermi, e io ci sono nata. Nelle cose malate e nel sale attaccato ai capelli, in questa tristezza viola. Ci sono nata». Frasi che non significano perfettamente nulla o che, quando significano qualcosa, è come se aspettassero compiaciute lo stupore del lettore, senza sospettare della loro banalità: «Questa disperazione è reale come la fantasia, ripetei». Interi periodi imbambolanti, perfettamente senza senso, che stordiscono come se si esagerasse con il profumo.
Nella sua orgia di accuse e stigmatizzazioni senza volto e senza nome l’autrice non si rende conto di biasimare il suo stesso atteggiamento: «È la regola, è il modello Sud Italia. Condannare e mai interpretare. Moralizzare, non analizzare. Credere che le deficienze siano fatte solo di tronchi e non di radici, di ritorni» (p. 33). Ennesima dimostrazione del fatto che non c’è struttura, dietro il suo discorso, nessuna visione d’insieme, nessuna teoria. Il “modello Sud Italia”, poi, nel suo appiattimento banalizzante si commenta da sé. Nello stesso tempo, Angela Bubba riesce a scagliarsi contro i giornalisti che si occupano della Calabria solo quando succede qualcosa, e che se la prendono con i disonesti non rammentando mai gli onesti, e a sostenere che «perfino Wikileaks ha avuto l’anima di curarsi di noi, ma non l’Italia». In anni e anni di gin e Campari, al bar del mio paese non si era mai scesi a questo livello.

Non c’è distacco ironico in frasi fataliste come questa «Il Caso. L’unica divinità magnogreca che in Calabria rimane, la sola potenza in cui dobbiamo credere. […] L’intera regione nella quale siamo nate vive nel Caso» (p. 155), tratta da un capitolo, quello dell’intervista alla madre della giovane morta per un’operazione di appendicite a Vibo Valentia, che farebbe invidia a Barbara D’Urso.

La parte finale, quella ambientata a Roma alla Sapienza durante una manifestazione (in realtà nei corridoi dell’università durante la sua organizzazione), e la conclusione con il viaggio in treno da Roma a Crotone è quella che mette più a dura prova il lettore. L’autrice si sbizzarrisce toccando un’accozzaglia di temi sfusi e mischiandoli in un calderone fatto di retorica da vecchi pronunciata dai giovani, qualunquiste rivendicazioni generazionali, saggezza da distributore automatico e colpi assestati qua e là, un po’ al cerchio e un po’ alla botte.

MaliNati, ovvero l’arte di spiegare poco per quasi duecento pagine.

Il livello si è abbassato, N., e in Italia si fa sempre più fatica a distinguere… Perciò se studi Lettere sei uno sfaticato a priori, così come se entri in politica sei un mafioso a priori e se vieni dalla Calabria sei uno ’ndranghetista a priori, mi spiego?.

Sì.

È tutto molto a priori in questo periodo (pp. 288-289).

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