Un’autrice (o un gruppo di autori) per ogni voce.
Sguardi e registri diversi sul riconoscimento (pubblico, giuridico, scientifico) delle mafie altrove.
Come è possibile riconoscere un fenomeno mutevole e fortemente ancorato alle interrelazioni con i contesti locali, qual è quello mafioso? Quali caratteristiche dei nuovi contesti possono favorire le attività dei gruppi mafiosi in territori lontani da quelli di origine?
Studiosi, giornalisti, politici, amministratori, esponenti della società civile e magistrati si sono confrontati su questi temi durante il convegno “Fare le Mafie Fuori” (Torino, 29 e 30 ottobre 2015), promosso dalla Fondazione Fondo Ricerca e Talenti e organizzato da Joselle Dagnes, Davide Donatiello, Valentina Moiso e Maria Trapani.
Il lavoro culturale ha seguito l’evento. Ai diversi relatori abbiamo richiesto un breve intervento sui temi discussi. Ne è venuto fuori un glossario delle parole chiave emerse a Torino, curato da Vittorio Martone e Antonio Vesco.
Antimafia: nel nostro Paese la lotta alle mafie ha una lunga tradizione. Al di là degli incerti confini concettuali e definitori, è possibile affermare che essa nasca con la mafia stessa. Se è vero che nel corso del tempo le mafie hanno cambiato pelle, è altrettanto vero che l’attività di contrasto ha assunto forme anche molto diverse tra loro: dai Fasci siciliani della seconda metà dell’Ottocento, alla repressione fascista del Ventennio, all’antimafia della nuova sinistra e del Pci del secondo Dopoguerra, alla più recente antimafia “emergenziale” indotta dalle stragi, prime tra tutte quelle dei primi anni ’80 e dei primi anni ’90.
È utile distinguere tra un’antimafia istituzionale e una movimentista. Della prima fanno parte le azioni che lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, pone in essere per combattere le mafie. Pertanto, rientrano in questa categoria la previsione di uno specifico reato associativo di tipo mafioso, il carcere duro per alcuni condannati per motivi di mafia, la confisca dei beni, la regolamentazione delle forme di collaborazione con la giustizia di ex appartenenti alle organizzazioni criminali, lo scioglimento dei Comuni per presunte infiltrazioni mafiose, l’istituzione di gruppi specializzati delle forze dell’ordine e la creazione di pool di magistrati specificamente addetti alle indagini antimafia ecc.
Sul fronte movimentista, si possono invece citare le associazioni, più o meno strutturate, che si impegnano sul fronte. Nel panorama dei movimenti sociali contemporanei, quello antimafia si distingue per una non trascurabile specificità: anziché dirigere le proprie azioni contro le élite e le istituzioni, il movimento antimafia è spesso a fianco di esse. Ciò implica una fattiva collaborazione tra i due fronti dell’antimafia che, tuttavia, non sempre procedono d’amore e d’accordo.
Vittorio Mete
Antipolitica: comunemente si ricorre a questo termine per indicare una ostentata disaffezione verso la “politica”. Contraddistingue le retoriche antipolitiche la pretesa, di chi le pronuncia, di mettere in campo argomenti e pratiche che, pur contestando la politica, rivendicano di esservi estranei.
Nonostante si tratti di una fascinazione storicamente ricorrente, al centro dell’invettiva antipolitica si trovano, invariabilmente, attori tradizionali della politica: il suo personale, i partiti e le istituzioni che la rappresentano. Della politica si denunciano i costi, la lentezza, l’inefficienza, il potere (sempre nelle mani di chi, avendolo, vuole continuare a conservarlo), fino a derubricare l’operato degli attori politici tradizionali a degenerazione affaristico-corruttiva o affaristico-mafiosa.
Le soluzioni invocate dalle retoriche antipolitiche sono, per definizione, “semplici”. Se mediazione, accordo, compromesso, rappresentano l’alcova dello spreco e della corruttela, un leader dallo stile decisionista, e il supporto zelante di qualche tecnico super partes, vi porranno rimedio. Opponendo la società alla politica (con un pregiudizio favorevole alla prima) e il “vecchio” al “nuovo” (con un pregiudizio favorevole al secondo), i paladini dell’antipolitica promettono la riforma radicale degli equilibri politici vigenti, ovviamente allo scopo di stabilirne di altri.
Lungi dall’essere risorsa esclusiva di qualche attore, le retoriche antipolitiche riscuotono ampio successo. Non vi si sottraggono i politici, né i giornalisti, né gli esponenti del mondo economico, tanto meno la cosiddetta società civile. In realtà, l’antipolitica è un’arma per fare politica con l’obiettivo di rinegoziare le regole del gioco a favore di attori diversi da quelli al momento vincenti.
Maria Trapani
Burocrazia: secondo una definizione accettata e diffusa nelle scienze sociali, con il termine burocrazia si intende il complesso di pubblici uffici e pubblici funzionari cui sono demandati l’esecuzione operativa e il controllo delle funzioni amministrative. Tali funzioni sono eseguite impersonalmente, sulla base di procedure codificate e nel rispetto di norme prefissate. Il processo di burocratizzazione nel settore pubblico – dopo una fase di straordinaria espansione intensificatasi dal secondo dopoguerra – è andato incontro a una progressiva modifica a partire dagli anni ’80. Le inefficienze emerse in molti ambiti e le resistenze ad adattarsi alle trasformazioni socio-economiche hanno infatti favorito l’emergere di un nuovo paradigma basato sui concetti di semplificazione, ammodernamento, decentramento amministrativo, autonomia gestionale.
Le riforme della pubblica amministrazione ispirate a questi principi rispondono a un’idea diversa dal passato di come debba essere gestita la cosa pubblica: all’interno di questo nuovo assetto emergono forti tendenze alla concentrazione del potere, alla soppressione di una serie di livelli di controllo e, in generale, all’aumento della discrezionalità. In questo quadro, diversi attori – funzionari, amministratori, operatori economici, cittadini, politici – hanno a disposizione una serie di strumenti che, se da un lato possono favorire una gestione più snella del processo amministrativo, dall’altro possono essere utilizzati, nelle pratiche concrete, per promuovere interessi particolaristici e agevolare scambi a cavallo tra economia e politica. Si configurano così varchi all’illegalità che possono essere percorsi anche da soggetti criminali riconducibili a organizzazioni mafiose.
Joselle Dagnes, Davide Donatiello, Valentina Moiso, Davide Pellegrino
Camorre: in genere si usa camorra, al singolare, per parlare della mafia di origine campana. Qui preferiamo il plurale, camorre, per sottolineare la coesistenza di una molteplicità di gruppi diversissimi per organizzazione e attività, in conflitto tra loro per il controllo di aree anche molto limitate. Varietà più evidente quando le camorre si spostano altrove. Fuori dalla Campania esse reinvestono nei settori leciti, esaltano il loro profilo imprenditoriale, abbandonano i tratti violenti tipici della mafiosità.
Da qui il problema del loro riconoscimento, fortemente influenzato dalle rappresentazioni che la sovrapproduzione culturale e mediatica dà dei camorristi. Agli albori, teatro, poesia e musica napoletana ritraggono la camorra urbana, dei bassifondi, coincidente prima con le classi pericolose, poi con la vecchia guapparia e infine con le bande più agguerrite e militarizzate dei gangster-trafficanti. Si comincia a parlare di camorra-impresa fuori città, con i clan della provincia di Napoli, forti nell’economia pubblica locale dei grandi appalti legati alla Cassa del Mezzogiorno e alla ricostruzione post-terremoto. Il profilo imprenditoriale si esaspera con i Casalesi, idealtipo evocato per parlare di camorre oggi. Sono i protagonisti di Gomorra, cui la versione romanzata fornisce tratti di invincibilità e violenza, ma anche di strapotenza finanziaria. Businessmen con i contanti in valigetta e un ginepraio di opportunità di reinvestimento e riciclaggio, pronti a conquistare il Centronord. Quello casalese è l’apice del processo di de-urbanizzazione dell’immaginario camorristico in dotazione all’opinione pubblica del Paese, che influenza le dinamiche di riconoscimento giudiziario e sociale delle camorre altrove.
Vittorio Martone
Cultura: i primi antropologi che studiarono le forme di criminalità organizzata diffuse in Sicilia e nel Mezzogiorno furono accusati di aver contribuito all’identificazione del fenomeno mafioso con i contesti culturali che lo esprimevano. In effetti, questa visione fece facilmente breccia nel discorso pubblico, nel quale ancora oggi si pensa alla mafia come all’espressione deteriore di caratteri culturali prettamente meridionali.
Col passare dei decenni, le stesse scienze umane e sociali si opposero con vigore alla “sbornia culturalista” degli anni sessanta e settanta, raccontando le mafie innanzitutto come organizzazioni criminali. Nei principali studi italiani sulle mafie, il concetto (la cultura) ha lasciato il posto alla sua degenerazione (il culturalismo). Con il risultato che servirsi di una prospettiva culturale per interpretare fenomeni che hanno pur sempre a che fare con identità collettive costruite in specifici universi simbolici è stata considerata un’operazione pericolosa, dunque da evitare.
Ma la nozione di cultura che avevano in mente quegli autori non si riferiva a un universo uniforme e immutabile, in grado di per sé di originare comportamenti mafiosi. Le loro ricerche prendevano le mosse, al contrario, dall’idea che il consenso sociale di cui godevano boss e mediatori mafiosi fosse il frutto della loro capacità di manipolare codici culturali condivisi e rifunzionalizzarli.
Oggi, la presenza delle mafie ‘altrove’ svela nuove forme organizzative, legate alle specificità dei diversi contesti, ma anche agli immaginari a cui fanno ricorso gli attori che entrano in contatto con i gruppi mafiosi. Parlare di mafie oggi, significa riconoscere l’importanza di subculture criminali “circolari”, che si producono nell’interazione tra i contesti locali, i gruppi criminali e la loro rappresentazione pubblica.
Antonio Vesco
Diffusione: le ricerche sulla diffusione dei processi sociali hanno accompagnato lo sviluppo della sociologia. Per molto tempo caratterizzati da un orientamento meccanico, attento solo ai grandi aggregati di individui, di recente gli studi sulla diffusione sono diventati più complessi. Ciò è sicuramente un bene: non si può comprendere come si diffonde un fenomeno sociale – sia esso una moda, un’organizzazione o una credenza – trascurando gli attori, le loro preferenze, le reti sociali in cui sono collocati, le opportunità che offre il contesto. È in questo quadro che possiamo inserire anche le indagini sui processi di diffusione delle formazioni mafiose in aree a presenza non originaria.
La persistenza della mafia si deve anche alla sua capacità di espandersi in territori in cui un tempo era del tutto assente. Perché ciò accade? Il quesito non è semplice. Non possiamo certo sostenere che la mafia abbia una sorta di tendenza naturale alla diffusione, ma è altrettanto vero che essa può propagarsi in presenza di determinati fattori: per esempio, perché cerca nuovi territori in quanto messa nell’angolo dall’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura, o perché intenzionata a trovare nuovi mercati per investire, sia in settori illeciti che in quelli leciti.
Nell’un caso e nell’altro, l’agire dei mafiosi, estemporaneo o strategico che sia, è rilevante ma non è l’unico elemento in gioco. I mafiosi necessitano di un contesto che sia disponibile ad accoglierli e che dia loro chance di insediamento. Basso senso della legalità, corruzione diffusa, scarsa fiducia istituzionale rendono un territorio vulnerabile all’insediamento della mafia. Insomma, il pesce mafioso è capace di uscire dal suo habitat di formazione e tendenzialmente si ferma dove trova acque ideali per nuotare.
Luca Storti
Mercati: i mercati sono la sede naturale di formazione dei gruppi mafiosi. Un capo violento può costruire la propria reputazione all’interno dei rapporti comunitari (parentela, vicinato, compagnia dei pari), ma è sempre il mercato il luogo di affermazione dei gruppi criminali. Un gruppo mafioso è essenzialmente strumento di autoaffermazione dei capi attraverso la violenza e richiede risorse per riprodursi. Oltre alla sete di ricchezza che muove i singoli, si presenta dunque l’esigenza di ripagare i sodali con risorse che possono essere ricavate solo attraverso l’accumulazione di profitti.
Non è un caso che i gruppi più potenti si formino in corrispondenza dei territori e dei mercati di maggiore vitalità, siano essi di tipo legale o illegale. Sappiamo che le prime formazioni mafiose moderne originano dalla gestione violenta di un mercato legale, qual è quello della intermediazione dei prodotti agricoli tra le campagne e le città o i mercati di esportazione (la conca d’oro di Palermo, la piana di Gioia Tauro in Calabria, la Campania felix nei dintorni di Napoli). Con l’espansione dell’economia pubblica si affermano poi nel settore degli appalti e delle forniture. Ma come è noto il più importante fattore di moltiplicazione dei proventi è, in epoca contemporanea, il traffico internazionale di droga. Accanto a questi si possono annoverare una serie di mercati che hanno costituito altrettante vie di formazione mafiosa: tra gli altri, il contrabbando di sigarette, le varie forme del gioco d’azzardo e delle scommesse, il mercato della contraffazione.
La prospettiva della formazione dei gruppi di criminalità organizzata all’interno dei mercati (che naturalmente non esaurisce lo spettro dei fattori che ne spiegano la genesi) consente di riequilibrare una impostazione, ampiamente diffusa, che fa perno principalmente sulla loro dimensione antistatuale ed extralegale.
Luciano Brancaccio
Mezzogiorno: cosa è il Mezzogiorno? È un posto come un altro. Che nell’esperienza italiana è però diventato il retrobottega della politica e della società. Quando la storia è cominciata, tra bottega e retrobottega non c’era, economicamente e socialmente, grande differenza. Il problema nacque come problema politico, per divenire problema economico quando l’Italia industriale decollò. A Mezzogiorno non arrivarono burocrazie moderne e rimase intatta la solita classe dirigente, perché turbare gli equilibri politici del Mezzogiorno, preferendone le componenti più dinamiche e moderne, avrebbe destabilizzato gli equilibri nazionali. Così il Mezzogiorno si tenne la mafia, e varie altre forme di crimine organizzato, che seppero benissimo adattarsi ai cambiamenti e prosperare, insieme a tutti i suoi allora modesti ritardi. È iniziata da allora la questione meridionale. Da un lato la denuncia dei ritardi meridionali, dall’altro l’uso del ritardo da parte del Mezzogiorno per reclamare soccorso. Non è mancato chi ha guardato al Mezzogiorno con occhio diverso: capendo che servivano non solo massicci investimenti economici, ma anche politici, amministrativi e culturali. Che in parte ci sono stati, tanto che la società meridionale è col tempo cambiata parecchio, divenendo anch’essa piuttosto moderna. Ma solo fino a un certo punto. Per quanto molto si sia fatto non c’è stato lo scatto decisivo. Finché, verso la fine dello scorso secolo, lo sviluppo del nord, ormai estesosi al centro, non si è imballato, mentre al contempo il moderatismo settentrionale si è reso autosufficiente rispetto al suo retrobottega. A quel punto l’antica complicità tra retrobottega e bottega è stata dismessa e le risorse si sono concentrate a sostegno del nord. Poco importa che la società meridionale fosse riuscita a secernere umori innovativi in gran copia, che hanno animato un vasto movimento di riscossa civile. Ma se il sud ha ottenuto ben più sostegno per contrastare il suo male più evidente, che è il crimine organizzato, non ne ha ottenuto a sufficienza per cancellarne i presupposti. Ovvero il profondo disagio in cui, anzitutto sul piano occupazionale e dei servizi pubblici, versa la società meridionale.
Alfio Mastropaolo
Potenti: il pensiero religioso e quello politico hanno spesso giustificato l’esistenza dei potenti per il presunto ruolo protettivo che esercitano nei confronti degli impotenti. Questa giustificazione si accompagna all’idea che l’élite è in grado di riprodursi principalmente tramite atti di generosità, rinuncia e altruismo. Il pensiero economico ortodosso aggiunge che chi possiede molte risorse perde l’appetito di accumularle e che queste risorse, al contrario, ricadranno verso il basso, distribuendosi tra chi ne è privo. Ecco perché, forse, quando ci troviamo di fronte alla criminalità dei potenti siamo disorientati: le dottrine ufficiali ci hanno sempre insegnato che il crimine è prodotto di povertà, esclusione, deficienze materiali e culturali. I potenti, al contrario, commettono reati il cui ‘fatturato’ supera di migliaia di volte il danno provocato dalla criminalità convenzionale.
Il potere, ovviamente, consiste nel costringere qualcuno, gli piaccia o meno, a fare qualcosa, ma i potenti che commettono reati hanno bisogno di inviare codici, diffondere narrazioni e valori che siano accettabili e riproducibili. Max Weber, a questo proposito distingueva tra potere e dominio, il primo basato sull’uso o sulla minaccia dell’uso della forza, il secondo sul consenso suscitato. Analogamente Antonio Gramsci, parlava di dominazione, che mira a soggiogare o anche a liquidare i gruppi rivali, e di leadership, vale a dire la capacità di creare consenso, diffondere valori che formano un sistema morale e normativo egemone.
Così i potenti, che possono ricorrere alla cospirazione e alla coercizione, alla segretezza e alla falsificazione, ma contemporaneamente, anche nel commettere reati, hanno bisogno di produrre ammirazione e imitazione. In questo senso, devono da un lato nascondersi e dall’altro esibirsi, facendo delle loro malefatte altrettante azioni promozionali: gli spettatori vanno fatti partecipi dell’azione, vanno coinvolti, devono identificarsi.
Vincenzo Ruggiero
Rappresentazioni: le rappresentazioni sociali veicolano visioni della realtà che, parafrasando William Thomas, sono assolutamente “oggettive” nelle ricostruzioni e nelle azioni degli attori. In questa prospettiva, le rappresentazioni della mafia forniscono importanti chiavi di lettura del fenomeno, alla luce della difficoltà di descriverlo “in prima persona”.
In contesti fino a pochi decenni fa ritenuti estranei alla criminalità organizzata, le mafie erano perlopiù considerate “cosa loro”, ovvero problematiche peculiari delle regioni meridionali; a sostegno di questa rappresentazione diffusa, la loro azione sembrava circoscritta a queste aree. Almeno fino a quando, negli anni ’90, “la piovra” non agì visibilmente a livello nazionale, aprendo la stagione stragista. Negli ultimi decenni le indagini della magistratura ha contribuito alla diffusione di una nuova rappresentazione: le organizzazioni criminali sono una questione nazionale, sono visibili e necessitano di un’azione forte da parte delle agenzie di contrasto in tutta la penisola. A questa visione generale è possibile affiancarne un’altra, legata alle specificità dei nuovi contesti nei quali le mafie operano. Anche in questi territori sono presenti fattori di stress che minano la stabilità sociale: fenomeni criminali autoctoni e meccanismi corruttivi diffusi sono in genere più visibili e incidono maggiormente sulla dimensione viscerale collettiva, offuscando le presenze e le azioni delle mafie. Queste dinamiche legittimano la tendenza mimetica delle organizzazioni mafiose “fuori regione”, rendendo problematico il loro riconoscimento, giuridico e sociale.
Graziana Corica e Rosa Di Gioia
Reputazione: la reputazione è una risorsa cruciale per l’esercizio del potere mafioso. È noto che i mafiosi, per essere tali, occultano le loro attività illecite e la loro stessa esistenza ma, nel contempo, hanno necessità di essere in qualche misura riconosciuti sia all’interno che all’esterno del loro gruppo di appartenenza. Ebbene la reputazione, che possiamo qui definire come il punto d’incontro tra l’immagine che i mafiosi promuovono di se stessi e il riconoscimento delle loro competenze specifiche da parte di cerchie sociali più o meno ristrette, rappresenta in quest’ottica la principale fonte di credibilità del mafioso e, insieme, l’orizzonte di aspettative attese nei suoi confronti da parte di soggetti esterni.
Dalla peculiare natura di questa risorsa, che si costruisce e rende disponibile all’interno di relazioni sociali, discendono alcuni suoi tratti caratteristici. Anzitutto la reputazione, seppure strategicamente promossa dai gruppi mafiosi, esiste solo nella stratificazione di valutazioni ed esperienze passate. Da ciò deriva la sua natura di risorsa instabile, che può usurarsi o modificarsi nel tempo. Dalla sua origine intersoggettiva e relazionale discende invece la sua potenziale pluralità: per uno stesso soggetto possono esistere tipi diversi di reputazione, come prodotto di cerchie di riconoscimento distinte. Dalla dimensione valutativa, infine, deriva il possibile trasferimento della reputazione da un soggetto all’altro, come conseguenza del riconoscimento di un legame o dell’appartenenza a un gruppo.
Pur non essendo le uniche, l’uso specializzato della violenza (agita o minacciata), il capitale sociale e l’apparato comunicativo e simbolico, possono essere annoverate tra le principali fonti di reputazione mafiosa.
Elena Ciccarello
Riproduzione: la storia delle mafie italiane impone di interrogarsi sui meccanismi attraverso i quali esse si riproducono nel tempo e nello spazio, ovvero sulle risorse che consentono ai mafiosi il radicamento stabile in un determinato contesto e la diffusione in altri territori . Questi meccanismi e risorse sono da rintracciare nella loro capacità di allacciare relazioni e costruire reti sociali, che si traduce nella possibilità di accumulare e impiegare capitale sociale. Si tratta di un tipo peculiare di risorse collocate nei reticoli sociali: i mafiosi possono essere considerati specialisti di relazioni sociali, competenza che riescono a combinare sapientemente con l’altra che più li caratterizza, l’uso della violenza. Oltre ai legami di appartenenza, che cementano la lealtà interna al gruppo, per i mafiosi sono molto rilevanti le relazioni verso l’esterno. È soprattutto in questo modo che essi acquisiscono capitale sociale, l’uso del quale permette non solo di assumere posizioni di potere nell’ambito di un determinato sistema sociale, ma anche di attivare le sue potenzialità in altre direzioni e di allargare dunque i suoi confini originari.
Un gruppo mafioso ha dunque maggiore capacità riproduttiva ed espansiva se presenta una struttura organizzativa in grado di consentire non solo una maggiore solidarietà interna e una razionalizzazione delle attività svolte, ma anche un’estensione del network verso l’esterno, permettendo così un incremento del capitale sociale disponibile.
In definitiva, la riproduzione della mafia dipende in gran parte dall’abilità di procurarsi all’esterno la cooperazione di altri attori sociali e, in particolare, di instaurare rapporti di scambio – di collusione e complicità – nei circuiti economici, politici e istituzionali.
Rocco Sciarrone
Varchi: i varchi potremmo definirli come le occasioni che un sistema locale offre all’operatività della criminalità organizzata. Possono riguardare le culture, le prassi operative, le normative o le congiunture economiche. Durante il convegno torinese sono stati presi in esame in particolare i cambiamenti nelle pubbliche amministrazioni. Cambiamenti in direzione della de-regolazione, velocizzazione dei procedimenti, indebolimento dei controlli amministrativi. Il tema dei varchi risulta evidente nelle trasformazioni avvenute nella legislazione urbanistica. Quest’ultima, in nome della semplificazione e dell’efficienza, ha introdotto, in particolare in alcune regioni come Lombardia e Veneto, procedure di pianificazione e programmazione sempre più de-regolative. Il nuovo sistema di «pianificazione negoziata» è imperniato su un modello di partnership pubblico-privato che priva le strutture pubbliche degli strumenti non solo di controllo ma anche di guida delle scelte strategiche; non prevede criteri oggettivi e prestazionali che regolino la contrattazione e consente, in questo modo, processi decisionali opachi e criteri di valutazione molto discrezionali. Ragionare sui varchi costringe a porre l’attenzione sui cambiamenti delle società locali più che sull’operatività criminale e induce ad approntare strategie contro le mafie ispirate più alle politiche che a generiche ed ecumeniche prese di posizione.
Gianni Belloni
Violenza: “Al nord non c’è la mafia che spara, ma i colletti bianchi laureati a Oxford che riciclano i soldi nella finanza”. Quante volte abbiamo sentito ripetere questo luogo comune, tanto tranquillizzante quanto fuorviante? Invece le cronache giudiziarie raccontano che la violenza è una risorsa sempre a disposizione delle organizzazioni criminali. Anche quando s’insediano in terre lontane dalle zone d’origine. Anche quando si dedicano ad attività lecite, come l’edilizia o il commercio. Sta a loro dosarla, ben sapendo che troppi morti ammazzati richiamano l’attenzione, mentre l’incendio di una saracinesca finirà in un trafiletto di cronaca, ma sarà ben compreso da tutti.
In realtà le mafie uccidono anche al nord. Nel 2010 l’Espresso contò 25 omicidi di criminalità organizzata in cinque anni tra Lombardia e Piemonte. Tra i casi eclatanti, l’ex testimone di giustizia Lea Garofalo, uccisa e bruciata nel 2009 alla periferia di Monza, e Carmelo Novella, boss “licenziato” delle cosche calabresi a colpi di pistola, a San Vittore Olona nel 2008. In Il Raccolto rosso (Saggiatore 2010), Enrico Deaglio paragona le guerre di mafia italiane degli anni ’70-’80 alle guerre civili irlandese e basca. Le mafie del Duemila combattono invece una guerra a bassa intensità attraverso uno stillicidio di intimidazioni: minacce, sventagliate di proiettili davanti a casa o sull’auto, pestaggi, incendi, danneggiamenti… Agli atti dell’inchiesta Infinito del 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Milano conta nei quattro anni precedenti 130 incendi dolosi «per lo più ai danni di strutture imprenditoriali» e 70 intimidazioni commesse “con armi, munizioni e in alcuni casi esplosivi”. Neppure una delle vittime ha fornito elementi per individuare i responsabili. E allora, a che servirebbe uccidere?
Mario Portanova