Su Mafia Capitale è già stato detto tutto. Si sono espressi magistrati, studiosi, giornalisti, politici. Il lavoro culturale aveva dedicato al tema già due contributi. L’autore riprende le sue riflessioni alla luce dei fatti emersi dall’indagine della Procura di Roma.
Lo scorso maggio, su queste pagine, abbiamo affrontato il tema delle mafie di Roma provando a ricostruirne le svariate definizioni che di volta in volta venivano evocate nel dibattito pubblico capitolino (qui la prima e la seconda uscita). Così come altri contributi sul tema – citati in maggio – davamo per scontata la presenza delle mafie nella Capitale – sia autoctone, come quella recentemente ipotizzata dagli inquirenti, sia tradizionali. Questa terza uscita non ha lo scopo di celebrare un irritante “noi lo avevamo detto”, né di richiamare ancora una volta i dettagli dell’impianto accusatorio che coinvolge i Carminati e i Buzzi nell’organizzazione di Mafia Capitale. Per quelli sono state scritte centinaia di pagine su quotidiani, riviste, magazine e newsletter, italiani e stranieri, e decine di talk show hanno infranto le nostre prime serate, fino all’asfissia. Lo scopo di queste righe è quello di partire da quanto emerso dall’Operazione Mondo di mezzo per tornare su alcune dimensioni relative alle immagini delle mafie romane e riflettere su alcuni aspetti: il risalto mediatico di cui ha goduto quest’azione antimafia; la debolezza euristica di alcuni concetti in uso, quali “quinta mafia” e “mafia silente”; il riconoscimento del metodo mafioso a un gruppo autoctono romano; la definizione giudiziaria della mafiosità in un’area considerata non tradizionale.
La straordinaria enfasi mediatica dedicata a Mafia Capitale conferma quanto un’etichetta socialmente condivisa per riferirsi a un fenomeno assuma una funzione fortemente performativa, mutandone la consistenza. Consistenza in questo caso misurata eloquentemente dal grado di notiziabilità assunto dal crimine organizzato romano nei media. Un crimine radicato in città dagli anni Settanta, capace di incancrenirsi in molti affari illeciti e leciti, ma che fino al momento in cui non lo si è chiamato “mafia” non è sembrato degno d’esser dibattuto in prima pagina. Salvo i resoconti e le relazioni dei soggetti dell’antimafia civile e dei cronisti tradizionalmente dediti al fenomeno,[1] il crimine romano restava inspiegabilmente recluso nell’alveo della cronaca locale, cronaca nera se non addirittura gossippara. Poi, nel dicembre 2014, la Direzione distrettuale di Roma, con l’Operazione Mondo di Mezzo, ha proposto di qualificare quel crimine “mafia”, e gli opinionisti dei più importanti quotidiani del Paese si sono riscoperti mafiologi.
Mafiologi disattenti, per di più. A ben vedere, la vera e propria svolta nel contrasto alle mafie romane, che suggellava il cambio di marcia proposto dalla nuova gestione della locale Dda dai procuratori Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, andava fatta risalire all’operazione Nuova Alba del luglio 2013. In quell’occasione, senza precedenti, prendeva avvio l’operazione che contestava il reato di associazione mafiosa al cartello di clan operanti da decenni a Ostia. In quel caso erano coinvolti, oltre ai nomi storici del crimine capitolino (i Fasciani e gli Spada) anche esponenti di Cosa nostra (Triassi e D’Agati), il che poteva apparire meno eclatante nella misura in cui la mafiosità restava relegata in un approccio culturalista: pur con molteplici significati, la presenza delle mafie “meridionali” a Ostia era largamente accolta nel dibattito, ma proprio l’origine meridionale degli affiliati a quella mafia non le forniva alcun carattere di novità. Insomma, salvo rare eccezioni,[2] a Ostia non c’era nulla da dare in pasto al pubblico delle grandi occasioni: so’ solo siculi.
A rendere ancora più appetibile la mafia capitale rispetto alla mafia ostiense non è esclusivamente l’assenza di affiliati meridionali, ma anche il coinvolgimento di un vasto tessuto esterno, che comprende amministratori pubblici e politici romani, faccendieri e imprenditori, anche del terzo settore. Il gruppo capeggiato da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi operava in una varietà di attività illecite, ma era attorno agli appalti che costruiva il suo capitale economico e sociale. Ricorrono allora i nomi di Alemanno & Co. e di Odevaine & Co., accanto a dichiarazioni perentorie su un Paese decaduto nella corruttela diffusa e trasversale rispetto agli schieramenti politici, in cui nulla sembra più salvabile. Mafia, politica, appalti: la triade che rende il tutto finalmente notiziabile ma che fa slittare il dibattito in quel meccanismo di coazione a ripetere, oramai fermo alla struttura narrativa di Mani pulite. «Sono preoccupato della generalizzazione nel considerare tutta la politica corrotta» ha affermato Raffaele Cantone in un’intervista lapalissiana ma condivisibile.[3]
Perché oggi come allora all’azione giudiziaria segue un dibattito che ripropone la celebrazione delle debolezze italiche, che disprezziamo ma che in fondo ci rispecchiano e riscoprirle sembra darci sicurezza in una sorta di funzione identificante. Troviamo allora, da un lato, il lavorio dell’intellighenzia nel narrare la caduta dei costi morali, ritraendosi – chissà come – nella schiera delle vittime di una coltre grigia di illegalità diffusa; dall’altro lato, le cadute verso il feticismo dell’antipolitica che, intriso di un complicatissimo substrato ideologico-culturalista, ci ricorda la veemenza miope delle monetine anni Novanta, quelle scagliate senza discernimento che hanno consegnato il Paese a un ventennio berlusconiano di deregolazione e decadimento etico, non liberandoci tuttavia delle trame di corruttela.
L’approccio tautologico del vendittiamo mondo di ladri paga lo stesso difetto delle letture che avevamo definito allarmiste e panmafiose, espressioni del movimento antimafia che ricorrono al concetto di quinta mafia per indicare un’organizzazione che ricomprenderebbe tutti i gruppi, tradizionali, autoctoni e stranieri. L’operazione Mondo di Mezzo dimostra che questa complessa realtà, almeno secondo gli inquirenti, non esiste. Così come sono sostanzialmente sconfessate le tesi di chi parlava di mafie silenti, come sarebbero quelle laziali, caratterizzate da una presenza non opprimente, incapaci di intraprendere efficaci forme organizzative e di controllo territoriale, sia esso presidio degli spazi o gestione e regolazione degli affari illeciti e/o leciti (il caso, quest’ultimo, del clan Carminati). Ma la tesi che viene decisamente rimessa in discussione da Mafia Capitale è senza dubbio quella di chi, anche dopo l’esecuzione degli arresti del primo dicembre, sul fronte opposto, si adagia nella perdurante tendenza alla negazione del fenomeno.
È il caso della campagna iniziata da Giuliano Ferrara attraverso le pagine del suo «Foglio»: sarebbe l’estraneità degli inquirenti rispetto alla romanità corrotta e rubaiola a far loro sembrare mafia ciò che è solo normalità nella «piccola e media criminalità che si avvale di complicità dei bassifondi politici o di alcuni pesci piccoli che vi nuotano». Gli stimoli fuori dal coro sono sempre interessanti, e senza dubbio la tesi di Ferrara ha tutte le probabilità di essere più vicina al futuro giudizio della Cassazione. Ma il direttore dovrebbe sganciarsi dal tipo ideale del mafioso tradizionale: anche Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, specie quando espandono il loro raggio d’azione in aree non tradizionali, tendono ad assumere logiche imprenditoriali e a ibridare la propria forma organizzativa fino ai confini della natura mafiosa propriamente intesa, quella che per Ferrara vorrebbe «i morti sul selciato».[4]
Veniamo allora all’ultimo punto, relativo al riconoscimento giudiziario di Mafia Capitale. Riflettendo sulle origini dell’organizzazione capitolina da un punto di vista storico, Salvatore Lupo ha sostenuto che «quello che storicamente fa la differenza tra la mafia e altre forme di criminalità è il più che secolare radicamento in certi territori, la loro vasta legittimazione sociale e culturale. […] Può darsi che la mafia prodotta in loco […] non rientri nei parametri miei e in quelli di molti altri studiosi del fenomeno. È probabile però che essa rientri nei parametri stabiliti dalla legge»[5]. Riconoscere il metodo mafioso a un’organizzazione romana, secondo Giovanni Fiandaca, «dimostrerebbe che esistono fenomeni mafiosi diversi da quelli tradizionali. Il 416bis delinea un paradigma di mafiosità che non è necessariamente delimitato alle originarie matrici meridionali delle organizzazioni […]. È possibile che esistano gruppi criminali capaci di esercitare intimidazione fuori dai confini geografici consueti della criminalità organizzata. Certo, sul piano probatorio si deve dimostrare che il potere intimidatorio di questa mafia era effettivamente esercitato».[6]
Sulle stesse posizioni altri importanti giuristi come Costantino Visconti ed Enzo Musco, i quali mettono tuttavia l’accento rispettivamente sui «rapporti corruttivi e di cointeressenza»[7] funzionali alla «accentuata e moderna caratterizzazione imprenditoriale del gruppo criminale di Carminati e soci».[8] Affrontiamo quest’ultimo aspetto approfondendo pertanto il ruolo dell’intimidazione, dei reticoli esterni e dell’impresa mafiosa. Anche la mafia romana, così come le mafie tradizionali, ha una profondità storica e un’eredità in termini di accumulazione originaria criminale avvenuta nel passato. Essa risulta «il punto d’arrivo di organizzazioni che hanno preso le mosse dall’eversione nera, anche nei suoi collegamenti con apparati istituzionali, che si sono evolute, in alcune loro componenti, nel fenomeno criminale della Banda della Magliana, definitivamente trasformate in Mafia Capitale» (Tribunale di Roma 2014, p. 31).
È dunque ancora nel mancato riconoscimento della mafiosità della Magliana che si paga l’assenza di una storica tradizione antimafiosa nel Lazio. Chi nega tende ancora a replicare quella sottovalutazione del criminale romano, pesce piccolo e fascista, spavaldo e individualista, incapace di edificare organizzazioni complesse e dunque propriamente (o giudiziariamente) mafiose. Leggendo la configurazione del clan Carminati proprio questo vocabolario si inverte: è il vincolo solidaristico tra camerati, consolidatosi negli anni Settanta e Ottanta, a consentire di cementare «un legame persistente anche dopo trent’anni, che rendeva più facile chiedere e ottenere un “favore”, in qualità di “vecchio camerata”, in quanto “tra camerati non ci si tradisce”» (ivi, p. 261). Ma, nonostante il suo legame con la Banda storica (che ne segnala l’originarietà in un territorio altro rispetto alle “aree tradizionali”: si legga Mezzogiorno), la mafia della capitale presenta tratti di originalità in quanto alla capacità di infiltrarsi nella cosiddetta area grigia (ivi, p. 809).
Facendo ampio riferimento a una recente ricerca nell’ambito delle scienze sociali,[9] alle quali gli inquirenti palesemente si ispirano, l’ordinanza propone un passaggio analitico di straordinaria importanza per il riconoscimento della mafiosità in aree non tradizionali. La forza del clan risiederebbe nella capacità di accumulare e impiegare capitale sociale e stabilire accordi di cooperazione attiva che coinvolgono soggetti con ruoli diversi: imprenditori, politici, professionisti, funzionari pubblici.[1] Non manca il possesso di armi e di affiliati dediti specificatamente al recupero crediti, ma investendo in attività lecite e in reticoli relazionali variegati, il metodo mafioso del clan Carminati non implica il ricorso sistematico all’intimidazione e alla violenza per creare le condizioni di assoggettamento e di omertà nella società locale. La capacità di assoggettamento risiede piuttosto in una nebulosa di relazioni fiduciarie e di scambio, consolidata in quarant’anni di militanza criminale, che rappresenta lo specifico tessuto connettivo della mafia capitale e ne esprime il grado di radicamento in pezzi della società locale.
Note
[1] Tra i primi vanno ricordati, tra gli altri, l’associazione daSud, l’associazione Antonino Caponnetto Lazio e l’associazione Cittadini contro le mafie e la corruzione. Tra i secondi, basti pensare ai lavori di Lirio Abbate, di Floriana Bulfon e Piero Orsatti – il loro Grande Raccordo Criminale (Imprimatur 2014) contiene importanti spunti informativi sul clan Carminati – e di Angela Camuso (appena pubblicato Mai ci fu pietà. La banda della Magliana dal 1977 a Mafia Capitale, Castelvecchi, Roma 2014).
[2] Si pensi a L. Abbate, Così funziona la mafia di Ostia, «l’Espresso», 11 giugno 2014; a P. Mondani, Ammazza che mafia, Report del 21 ottobre 2013.
[3] L. Milella, Cantone: in Italia un clima da ’93, la gente mi chiede di mandarli tutti in carcere, «la Repubblica», 8 dicembre 2014.
[4] Si veda G. Ferrara, La Corleone dei cravattari, «Il Foglio», 4 dicembre 2014.
[5] S. Lupo, “Una nuova mafia nella capitale”, in Contrappunti, 15 dicembre 2014.
[6] N. Mirenzi, Fiandaca spiega perché anche a Roma si può parlare di mafia, «Europa quotidiano», 5 dicembre 2014.
[7] N. Amadore, Un’interpretazione corretta del 416bis, «Il Sole 24 Ore», 9 dicembre 2014.
[8] M. Ludovico, Un’impresa mafiosa con tutti i requisiti,«Il Sole 24 Ore», 10 dicembre 2014.
[9] Il riferimento è al volume curato da R. Sciarrone, Alleanze nell’ombra. Mafia ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma 2011.
[10] Ivi, p. 6. Anche l’ordinanza, a pag. 809 e successive, cita testualmente questi e altri passaggi della sezione “Il capitale sociale delle mafie”. Lo scopo è definire la funzione del capitale sociale del clan Carminati, basato su legami forti (che assicurano lealtà e senso di appartenenza) e legami deboli (ovvero flessibili e aperti verso soggetti esterni all’organizzazione). Da sottolineare che anche la Procura di Milano, e in particolare Ilda Boccassini, ha fatto ampio ricorso al concetto di “zona grigia” e di “capitale sociale” per definire i reticoli esterni funzionali all’infiltrazione della ‘Ndrangheta negli appalti di Expo 2015 (si veda Redazione, Infiltrazioni ‘Ndrangheta nell’Expo 2015, blitz dei carabinieri all’alba: 13 arresti, «Il Messaggero», 18 ottobre 2014).