Terrorismo, mafia e storia d’Italia

A proposito dell’ultimo numero della rivista «Meridiana».

C’è un padre nobile di questo ultimo numero della rivista «Meridiana», dedicato al complesso legame della storia repubblicana che intreccia terrorismo e mafia, ed è Pio La Torre. «La criminalità organizzata sta compiendo un salto di qualità molto preoccupante perché ormai comincia chiaramente a mutare sistemi, metodi e anche taluni obiettivi del terrorismo politico: oggi si verifica una convergenza di obiettivo nell’azione dei due fenomeni». Così scriveva La Torre il 16 novembre del 1978, sul «Rinascita», il settimanale del Partito comunista, in un lungo articolo dal titolo Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche. Era l’anno della tragedia repubblicana della morte di Aldo Moro per mano delle Brigate rosse e la mafia sembrava un problema lontano, poco interessante, senza posto nell’agenda politica, nelle pagine dei giornali e nella coscienza pubblica. Come poteva mai interessare la notizia dell’uccisione, a Cinisi, dalle parti dell’aeroporto di Palermo, di Peppino Impastato, un militante di un partito di estrema sinistra impegnato in una drammatica e solitaria lotto contro il boss mafioso Tano Badalamenti, quando nello stesso giorno veniva ritrovato a Roma il corpo di Moro? La sproporzione tra i due avvenimenti era siderale. Chi poteva vedere nella mafia un pericolo per la Repubblica? Erano i terroristi i loro veri nemici contro cui combattere, figli della moderna violenza del capitalismo, della guerra fredda e dei movimenti armati di decolonizzazione, non certo dei folkloristici mafiosi, padrini con coppole e lupare che giocavano a imitare Marlon Brando, gente appartenente ad usi e costumi ormai fuori dalla storia, dalla politica e dalla finanza.

Quando La Torre pubblicava l’articolo non era ancora iniziata la guerra di mafia, che avrebbe ucciso, da lì a poco, migliaia di persone a Palermo a fronte delle circa cinquecento del terrorismo. Tra questi cui Pier Santi Mattarella, il presidente democristiano della regione, Boris Giuliano, il capo della squadra mobile, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa e lo stesso La Torre, ritornato nel 1981 alla segretaria del partito in Sicilia. Insomma i vertici dello Stato. Tutto questo ancora non era iniziato, ma La Torre capiva che qualcosa era cambiato, che la mafia avrebbe imitato il metodo terrorista e che bisognava combatterla con le stesse armi con cui in quel momento il generale Dalla Chiesa, e con lui giudici come Giancarlo Caselli e Armando Spataro, stavano sconfiggendo i terroristi: prima fra tutte l’identificazione dell’associazione come fattispecie criminale grazie ad un’estensione del reato di banda armata, l’aggravante del favoreggiamento, l’uso di nuclei speciali di investigazione, la nascita di pool di magistrati specializzati e, soprattutto, l’introduzione della figura del collaboratore di giustizia. Era un’intuizione fulminante, straordinaria, frutto della sua esperienza nella Commissione antimafia, vissuta accanto ad un magistrato come Cesare Terranova, convinto da sempre che la mafia si poteva combattere solo contestando il reato associativo, perché, a suo parere, ci si trovava di fronte ad una sanguinaria associazione verticistica. Lo sapeva bene da quando negli anni Sessanta aveva indagato a Palermo sulla mafia dei corleonesi, con a fianco gli uomini diretti da Dalla Chiesa, che proprio negli stessi anni dirigeva il nucleo dei carabinieri di Palermo. Erano riusciti, Terranova e Dalla Chiesa, a portare alla sbarra tutti i vertici della mafia che alla fine venivano assolti per insufficienza di prove: per alcuni magistrati la mafia non era un’associazione, non aveva un vertice, non aveva rapporto con le banche né tanto meno con la politica. I corleonesi alla fine pareggeranno i conti uccidendoli entrambi.

Era una collaborazione importante, quella fra Terranova e La Torre, perché segnava una nuova stagione del rapporto tra il partito comunista, i giudici e le forze di polizia. I comunisti e i sindacalisti avevano conosciuto bene la forza brutale degli apparati di repressione dello Stato, specie negli anni del dopoguerra, durante le lotte contadine. Lo stesso La Torre era stato arrestato durante una manifestazione e sbattuto in carcere per più di un anno senza uno straccio di prova. Per non parlare degli spari sui contadini e l’uccisione di decine di sindacalisti senza che le indagini portassero a niente. Del resto la magistratura era ancora quella fascista e la nuova Costituzione repubblicana stentava a entrare in circolo nel corpo del paese, troppo forte il virus della violenza e dell’autoritarismo ereditato dal passato fascista negli apparati repressivi. E gli uomini della sinistra e del sindacato, quando sentivano parlare di condanna per appartenenza ad un’associazione, alzavano gli scudi; sapevano bene che, com’era già successo, potevano essere condannati per essere simpatizzanti, militanti iscritti ad un partito o ad un sindacato.

Sino agli anni Settanta lo Stato appariva come un Leviatano: occorreva perciò proteggersene con solide garanzie a tutela dei diritti individuali. Da qui le proposte di ridimensionamento dell’intervento penale che hanno contraddistinto quel periodo segnato dall’anti-istituzionalismo. In Italia il consolidamento della giurisprudenza costituzionale e l’entrata in scena di una nuova classe di magistrati, che si erano formati nel periodo repubblicano, davano inizio a una profonda revisione della tradizione ermeneutica positivistica, assumendo la Corte costituzionale come punto di riferimento prioritario nell’interpretazione e applicazione delle norme. Era l’epoca dei «pretori d’assalto», protagonisti di indagini e processi di una nuova realtà industriale e capitalistica: corruzione, lavoro, inquinamento, scandali. La «questione criminale», con la nascita di Magistratura democratica e la lezione di Franco Bricola e altri giovani studiosi, veniva elevata a vera questione politica e civile.

La sfida del terrorismo degli anni Settanta trovava proprio nella magistratura di sinistra più impegnata sul fronte della costituzionalizzazione del penale il suo avversario più temibile. Saranno proprio questi giovani giudici democratici a trovare all’interno del vecchio codice Rocco gli strumenti per poter rispondere ad una sanguinosa, ed inattesa, sfida. Quel codice e quel processo ancora inquisitorio che facevano della difesa dello Stato e della società la propria ragion d’essere. Non quindi il singolo cittadino, ma la collettività. Da qui anche l’iniziativa dei giudici più esposti sul fronte antiterrorista di aprirsi nei confronti della società civile, di farsi protagonisti pubblici del discorso penale, ma anche di quello sociale e politico. L’uccisione a sangue freddo dei giudici li trasformava da distaccati signori del diritto a difensori ed eroi della società civile. Il magistrato non poteva più parlare solo attraverso le sentenze, come nell’idea di un potere astratto e muto, ma aveva il bisogno di confrontarsi in pubblico e con il pubblico.

Il legame tra La Torre e Terranova, eletto come indipendente nelle liste del partito comunista in Sicilia, stava a rappresentare questo inedito e nuovo impegno del partito comunista per la difesa della Repubblica contro i suoi nemici: terroristi e mafiosi. Era la constatazione, la presa d’atto del cambiamento culturale sotteso alla lotta contro il crimine nelle società attuali: da una parte lo Stato appariva, o cercava di apparire, sempre meno un nemico e sempre più un partner privilegiato del cittadino nel regolare la convivenza sociale, dall’altra restava ai giuristi e agli intellettuali il compito di non cadere negli eccessi emergenziali promuovendo un diritto penale formalizzato, ispirato ai principi dello Stato di diritto costituzionale: un composto chimico e politico molto instabile.

Ad esempio, la disciplina della premialità per i «pentiti» di mafia ricalcava la medesima logica eccezionale delle leggi antiterrorismo, cioè la rottura della consequenzialità/proporzione reato-pena, determinando una vistosa e controversa asimmetria del sistema rispetto al principio di eguaglianza di trattamento. Si ponevano le basi di un diritto penale del «nemico» e un diritto penale del cittadino. Di qui, la possibilità di derogare ai principi ordinari di tutela dell’accusato nei confronti del nemico. Il reato politico tornava alla sua origine storica extra ordinem, derogando al diritto penale ordinario. Una logica del doppio binario che accompagnerà le vicende della penalistica, non solo italiana ma anche tedesca, la quale si muoverà sotto le spinte della politica e dell’innovazione processuale, tanto che alla fine non importerà più cercare di dar vita ad un nuovo codice penale repubblicano, ritendendo più importante riscrivere, come è poi avvenuto qualche decennio dopo, quello di procedura penale.

Questo contestato e complicato tessuto normativo, insieme repressivo e premiale, non poteva essere posto in essere senza lo «storico» accordo delle due principali forze politiche del paese, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, impegnate entrambe sul «fronte della fermezza» durante i drammatici giorni del rapimento Moro. Il Pci in particolare, anche sotto la pressione di molti giudici che si candidavano come «esterni» nelle sue liste, assecondava quelle norme che Rocco aveva pensato contro i comunisti stessi, consentendo un ampliamento delle sanzioni incriminatrici ben più severe di quelle precedentemente ipotizzate dal codice. Era un cambio di cultura politica pagato anche al caro prezzo di lasciare scoperto il fronte «garantista», sul quale si piazzavano tanto molti esponenti di sinistra della magistratura e di studiosi del diritto, quanto piccoli partiti come i Radicali e, quello ben più grande e importante dei socialisti, oltre a tanti intellettuali come Leonardo Sciascia. Ma Pio La Torre aveva già capito, più di Sciascia, che la Repubblica non poteva essere sconfitta. Quella democrazia costruita in 30 anni di lotta e di partecipazione politica, nei partiti e nei sindacati, richiedeva una battaglia a viso aperto.

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