È “tutta una mafia”?

Criminalità e corruzione nel caso di Mafia Capitale.

L’ultimo numero della rivista «Meridiana» è dedicato all’inchiesta «Mondo di mezzo», divenuta nota come «Mafia Capitale», che ha portato a ipotizzare l’esistenza a Roma di una mafia autoctona, «originaria» e «originale»: un’organizzazione criminale assimilabile sul piano giudiziario alle associazioni di tipo mafioso, quindi perseguibile attraverso l’articolo 416 bis del Codice Penale. Pubblichiamo alcune riflessioni di Rocco Sciarrone, che lo ha curato insieme a Vittorio Mete.

L’accusa formulata nel 2014 dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma ha avviato una serrata discussione a livello politico e istituzionale, ma anche tra gli addetti ai lavori e gli studiosi che analizzano i fenomeni mafiosi. Il problema non è solo quello di certificare – almeno per via giudiziaria – la presenza della mafia a Roma, quanto piuttosto di individuarne caratteristiche e peculiarità, di valutare cioè se siamo di fronte a una forma di criminalità organizzata che si può definire «di tipo mafioso». La questione è quindi innanzitutto giuridica e giudiziaria, ma chiama in causa anche la ricorrente domanda su «che cos’è la mafia», a cui si risponde da sempre in modo assai differenziato. Per quanto riguarda il versante giuridico-penale, la decisione della Procura di contestare il 416 bis è stata confermata prima dal Giudice delle indagini preliminari, poi dal Tribunale del riesame, nonché da due importanti sentenze della Corte di Cassazione. Del resto, le chiavi analitiche adottate dagli studiosi rispondono inevitabilmente a logiche diverse dalle finalità perseguite dai magistrati, che devono condurre le loro indagini orientati da specifiche fattispecie di reato. Come ha osservato Salvatore Lupo proprio con riferimento al caso di Mafia Capitale:

quello che storicamente fa la differenza tra la mafia e altre forme di criminalità è il più che secolare radicamento in certi territori, la loro vasta legittimazione sociale e culturale. Naturalmente fa la differenza l’esistenza di un’organizzazione capace innanzitutto di erogare violenza come presupposto dell’ingresso in certi mercati dei suoi membri e associati; nonché il ricorso sistematico, su larga scala, alla violenza stessa. Ognuno di noi può dire con qualche ragione «è tutta una mafia» trovandosi di fronte a ogni genere di intrigo, quando un gruppo di pressione o una clientela ci tagliano fuori con metodo truffaldino. Dobbiamo però sapere che così rischiamo di svuotare di significato un termine che di per sé è polisemico. […]  Sta di fatto, peraltro, che la legge italiana definisce il concetto di associazione di tipo mafioso in forma necessariamente generica. […] In questo caso trovo del tutto opportuno che gli inquirenti si valgano della legislazione anti-mafia, e degli strumenti specifici da essa forniti, per combattere patologie sociali che sono gravis.1

Per sostenere sul piano giudiziario che un’associazione è di tipo mafioso essa non deve riprodurre necessariamente e in toto forme e caratteristiche delle organizzazioni mafiose tradizionali, ma è sufficiente che siano riscontrati gli elementi previsti esplicitamente dalla fattispecie di reato, in modo particolare il metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento e omertà. La Corte di Cassazione ha scritto che il 416 bis si può applicare anche a «piccole mafie», in grado di controllare anche solo un territorio limitato o un determinato settore di attività. D’altra parte, al momento della sua approvazione il legislatore aveva chiaro che la fattispecie di reato dovesse essere applicata indipendentemente dal «tipo di autore» e da riferimenti regionali o di altra natura. 2

Un aspetto importante dell’inchiesta riguarda l’aver messo a fuoco un rapporto peculiare tra mafia e corruzione, nel senso che la «capacità di pressione intimidatoria» del gruppo criminale sarebbe scaturita in gran parte da un sistema pervasivo di accordi e scambi corruttivi. Risulta infatti che esso abbia esercitato un controllo su una porzione consistente dell’amministrazione pubblica capitolina attraverso una serie di «intese corruttive» con funzionari e politici. 3

Osservando il nesso tra mafie e corruzione da un punto di vista investigativo e giudiziario, la vicenda di Mafia Capitale appare comunque tutt’altro che «anomala». Essa si inserisce in una tendenza di più lungo periodo che si manifesta in una correlazione sempre più marcata tra reati di corruzione e reati di criminalità organizzata di tipo mafioso. 4 Ne consegue che i fenomeni di corruzione possono risultare inglobati in reati associativi, non solo per effetto di una maggiore presenza di attori criminali strutturati, ma anche in conseguenza di specifiche strategie giudiziarie, che così cercano di perseguire in modo più efficace gli scambi corrotti in ambito economico e politico-amministrativo.

Esistono indubbiamente analogie tra i fenomeni di criminalità organizzata e la cosiddetta corruzione sistemica, ma questo non rende semplice e lineare applicare tecniche di indagine e normative da un ambito all’altro. Il dibattito è aperto, e non mancano proposte che vanno nella direzione di estendere la legislazione antimafia al campo della corruzione. I più critici invitano invitano però alla cautela e ritengono errato «confondere» i due fenomeni.

D’altra parte, la corruzione è sempre stato lo strumento privilegiato per consolidare reti di affari e assetti di potere che trovano punti di raccordo nella connessione tra criminalità economica, criminalità dei colletti bianchi e criminalità mafiosa. Per contro, in molti casi essa segue logiche proprie, non sempre assimilabili a quelle del crimine organizzato, che dovrebbero quindi richiedere interventi differenziati.

Anche per queste ragioni la vicenda di Mafia Capitale appare emblematica. Com’è noto, dall’inchiesta emerge il coinvolgimento di un’ampia rete di imprese e cooperative attive nel campo dei servizi sociali, dell’accoglienza dei rifugiati, della gestione dei campi Rom, della raccolta rifiuti, dell’emergenza abitativa, della gestione del verde pubblico. Sono tutti settori che sono stati interessati negli ultimi anni da intensi processi di esternalizzazione e privatizzazione, che li hanno resi più vulnerabili a pratiche illegali e a forme più o meno organizzate di criminalità. Le mafie trovano spesso varchi e opportunità in assetti di governance ispirate da logiche di mercato, che in realtà danno luogo a relazioni opache tra legale e illegale, assecondando il proliferare di diversi livelli di intermediazione tra amministrazioni pubbliche, imprese private e attori del terzo settore. Quello romano è infatti uno dei tanti casi che mostrano come i processi di deregolamentazione e di privatizzazione del welfare – e, più in generale, dei servizi pubblici – abbiano favorito la diffusione di pratiche illecite, avvantaggiando comitati d’affari e gruppi criminali.5

In quest’ottica, le vicende di Mafia Capitale sono interessanti per esplorare modalità e dinamiche che riguardano l’area grigia delle collusioni e complicità fra mafie, economia e politica, spazio di incontro tra diverse forme di illegalità e criminalità. 6 Il caso in questione è dunque rilevante perché chiama in causa una serie di questioni cruciali che riguardano la connotazione politica del fenomeno mafioso: dai problemi di applicabilità del 416 bis al di fuori delle regioni a tradizionale presenza mafiosa a quelli che riguardano i nessi – come abbiamo visto, tutt’altro che chiari e lineari – tra mafia e corruzione. Al riguardo è importante sottolineare ancora una volta che i due fenomeni, pur essendo spesso correlati, non sono sovrapponibili. Tra le altre cose, com’è noto, essi presentano una differente «omogeneità» interna, che richiede una conseguente diversificazione di strumenti e logiche di azione. Sembra quindi opportuno distinguere e mettere a fuoco, di volta in volta, fenomeni, reati, contesti e attori, evitando generalizzazioni affrettate, non solo sul piano della repressione ma anche su quello della prevenzione e, per quanto riguarda più direttamente gli studiosi, dell’analisi. D’altra parte, diverse ricerche hanno mostrato che un preesistente tessuto di scambi corrotti può costituire un terreno favorevole per l’ingresso di organizzazioni mafiose in attività e territori, come è accaduto in molte aree del centro e nord Italia, ma anche per la genesi di «nuove» mafie.

Il caso Mafia Capitale solleva una serie di questioni che riguardano non solo il fenomeno delle mafie, ma anche le forme e i modi dell’azione antimafia sia sul versante istituzionale e giudiziario sia su quello politico e sociale. Non è peraltro casuale che l’antimafia sia frequentemente al centro di accesi dibattiti pubblici e di vivaci polemiche politiche, oltre che essere oggetto – sempre più di frequente – di studi e ricerche. D’altra parte, mafia e antimafia sono due facce della stessa medaglia, si alimentano a vicenda e prendono forma insieme.

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Note

  1. S. Lupo, Una nuova mafia nella capitale, in «Menabò di Etica ed Economia», www.eticaeconomia.it, 15 dicembre 2014.
  2.  C. Visconti, “La mafia è dappertutto”. Falso!, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 25.
  3. Corte di Cassazione, Sentenza contro l’ordinanza n. 3324 del 17/12/2014, Roma, 9 giugno 2015.
  4.  Cfr. La corruzione politica al Nord e al Sud. I cambiamenti da Tangentopoli a oggi, a cura di R. Sciarrone, Fondazione RES, Rapporto 2016, Palermo 2016. 
  5. Cfr. U. Ascoli e R. Sciarrone, Welfare, corruzione e mafie, in «Politiche sociali», 2, 2015, pp. 219-26. Sul caso romano, si veda in particolare: E. D’Albergo, G. Moini, Il regime dell’Urbe. Politica, economia e potere a Roma, Carocci, Roma 2015. Sul coinvolgimento del terzo settore e della cooperazione sociale in pratiche illegali, cfr. S. Lolli e C. Caizza, Mafia capitale sulla schiavitù del lavoro, Ediesse, Roma 2016. 
  6.  R. Sciarrone (a cura di), Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli, Roma 2011; R. Sciarrone e L. Storti, Complicità trasversali fra mafia ed economia. Servizi, garanzie, regolazione, in «Stato e mercato», 108, pp. 353-90.
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