[continuano in nostri articoli in vista dei seminari del 16 e 17 maggio; oggi torniamo a seguire le riflessioni su lavoro intellettuale e mondo digitale]
«[…] il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere» Giorgio Agamben
La funzione degli intellettuali e la nozione di autore sono due dei problemi che ho sollevato nel mio ultimo contributo su Lavoro Culturale, il cui commentarium ha aggiunto puntualizzazioni e approfondimenti preziosi, di cui ringrazio gli autori. I due temi sono profondamente legati l’uno all’altro, e un’acuta osservatrice come Luisa Capelli ha sintetizzato nei 140 caratteri di Twitter il mio richiamarmi alla nozione di “intellettuale collettivo” di Bourdieu. Vero: ma se dovessi riconoscere un debito di pensiero, allora sarebbero miei creditori anche Clay Shirky, Richard Sennett e quella malaria del pensiero (perché recidiva) che si chiama dialettica hegeliana.
Per accontentare chi però chiede un abbassamento del livello della discussione ho pensato di dare un titolo che s’ispira a uno dei più celebri rappresentanti della cultura popolare italiana: Alberto Sordi. Perché, in fondo, l’equazione che vorrei dimostrare appare della stessa evidenza bruta: come si fa a dirsi intellettuali senza un elevato grado di alfabetizzazione delle tecnologie digitali?.
Premessa: definisco intellettuale, per usare le parole di Carlo Galli, «l’intellettuale critico – non solitario “chierico” né “organico” – ma non distaccato, anzi coinvolto e impegnato, dialogante e democratico, benché portatore di saperi rigorosi e non superficiali»[L’intellettuale collettivo]. Si può non essere d’accordo con la definizione, ma da essa discende il prosieguo del ragionamento, per cui supplico il lettore di accettarla, seppur con la condizione di mantenerla valida solo per le poche righe che seguono.
A sentire buona parte degli intellettuali nostrani (fatte salve le sempre doverose eccezioni) essi hanno di sé un’immagine di magistratura, nel duplice significato di corpo docente e organo giudicante. A dire il vero, questa nozione non è pubblica, perché una strana e antica vergogna la ricopre; traspare piuttosto come sostrato inespresso e comune alle lamentazioni che si leggono e si ascoltano sui media; oppure, per chi ha la ventura di frequentare certi salotti, si ascolta come un sussurro che sale in crescendo dopo che qualche bicchierino o la stanchezza hanno allentato il mordente dei freni inibitori. Fortunatamente, da qualche tempo – complici la crisi economica, lo smantellamento del welfare, la paralisi della mobilità sociale – molti si stanno accorgendo che il lavoro intellettuale è solo un lavoro come un altro: e cioè, che come ogni altra professione esso ha (avrebbe, vien da dire) diritto a un riconoscimento, a delle tutele, a delle regolamentazioni (per esempio per quel che riguarda lo spinoso e sempre poco citato problema del reclutamento universitario). E finalmente si diffonde la più corretta definizione di “lavoratori della conoscenza”.
Questa conoscenza – qualsiasi essa sia – oggi si articola, si esprime, si sviluppa, si diffonde, progredisce e influenza la vita delle comunità umane grazie alle tecnologie digitali. A tal punto che senza di esse non vi sarebbe conoscenza alcuna: il digitale, direbbe un filosofo, si configura come un trascendentale kantiano. Potrei generalizzare e citare l’imprescindibilità di complessi hardware e software nelle scienze applicate, ma preferisco limitarmi a quelle che conosco meglio, le scienze sociali. Non solo la conoscenza, infatti, dipende da quelle tecnologie, ma ormai anche la socialità è indissolubilmente legata ad esse in tutte le sue espressioni: dalla semplice convivialità alla politica, dal commercio all’istruzione, dall’intrattenimento all’informazione. O, per dirla con Albertone: se vuoi capire il tuo tempo devi de sta’ su Facebook!
Più in dettaglio: oggi il lavoro culturale non può più fare a meno di una consapevolezza profonda della strumentazione digitale, della sua natura strutturale, dei suoi funzionamenti, del ruolo che essa ricopre nel flusso delle esistenze individuali e collettive. Si tratta di metacompetenze ormai irrinunciabili, la cui necessità si basa sull’incremento incredibile di complessità che riguarda tanti aspetti del vivere civile.
Studiare e capire il digitale – senza il vizio profetico dei futurologi e la puzza conservatrice di chi, spesso appartenendo a un’Istituzione, borbotta nostalgie ed anatemi – implica sobbarcarsi più di una responsabilità, che sono culturali e politiche: la critica dei fondamenti della conoscenza, lo sviluppo delle scienze, la diffusione dei saperi, la cura della polis.