L’urbanità di Calvino: una storia di incontri

Il progetto Ciclomaggio giunge quest’anno alla sua terza edizione, acquisendo, seppur ancora spensierato ed acerbo, una piccola patente di tradizione nel calendario della Biblioteca di Lettere. E dopo aver “ospitato” e “corteggiato” Pasolini e Pavese, quest’anno giunge a visitare l’onorata dimora di Calvino seguendo il filo rosso dell’incontro.

La scelta dell’incontro ha un sicuro meta-significato: potremmo dire, infatti, che tale tema si situa al cuore di questa rassegna. Essa nasce da incontri e propone incontri. Persone che si conoscono fortuitamente e scelgono di organizzare volenterosamente. Organizzare l’incontro di un autore che sia occasione per far incontrare persone che sanno e persone che desiderano sapere. Il Ciclomaggio è un motore di incontri, ideato per popolare spazi, invitare dialoghi, scuotere interessi e creare movimento. In modo tale da provocare, foss’anche solo per fisica inerzia, collisioni, scambi e relazioni… In una parola: incontri.

Se l’incontro appartiene al Ciclomaggio, cosa vi ha mai a che fare Calvino? La scelta non è frutto di pretestuoso arbitrio. Dal momento che la storia di Calvino è, per molti aspetti, una storia d’incontri che riflette un’inclinazione connaturata alla sua personalità e biografia letteraria. Calvino è un incontrista per natura e fiuto, inguaribilmente portato alla socievolezza.

In fondo, egli stesso riconosceva che nel suo spirito saturnino da artista, ovvero nell’introversione e complessità del letterato, si è sempre proteso verso un approdo mercuriale, giovialmente aperto, laborioso e mondano. E la sua letteratura ha rispecchiato questa protensione personale finendo per esserne indelebilmente contraddistinta. Il marchio dell’opera calviniana, se è possibile definirne uno, si riconosce proprio in questa accoglienza, che è generosa disponibilità all’incontro. Distinguendosi tra una contemporaneità letteraria spesso votata a caratteri più scontrosi, meditabondi o sfuggenti per quell’umore “così radioso, così cristallino, così disposto a fare cose belle, resistenti e rallegranti” (tributo dell’amico-nemico Pasolini).

In quanto intellettuale, è un individuo votato all’incontro con il mondo e le cose. Di spirito illuministicamente spalancato all’universo tutto, egli è paziente ed entusiasta contemplatore del reale con cui incessante fantastica rapporti, esplorazioni e conversazioni. Non si nega mai come personalità, nella sua identità culturale, cercando di camuffarsi da altro: si presenta sempre come se stesso, concretamente se stesso, con evidente e coerente onestà. Cosicché il lettore possa esser sicuro del suo autore, dal profilo netto e distinto, e interagirvi con famigliare franchezza.
Di tutti i modi dell’intellettualità, Calvino è prototipo di uno particolarmente raro e prezioso, dall’essenza comprensiva, mite e positiva. Proprio questo gli ha meritato lo statuto di una delle più linde e corali figure del Novecento letterario nazionale, garantendogli un riconoscimento schietto e indisputato. Calvino è un autore dall’incontro facile perché garbato e lealmente rigoroso nel suo lavorare incessantemente per una letteratura sempre comunicante e transitiva. Non ha mai desistito dalla ricerca di forme di trasparenza e di disponibile intersoggettività votandosi al recupero di generi della continuità e della condivisione come la favola. Accettando pienamente la sua contemporaneità (fin troppo talvolta), di essa ha incarnato il lato migliore rappresentando il tentativo di esprimere in forme limpide e lineari una complessità pulviscolare e discontinua. Di comprendere la modernità secondo forme costruttive e collettive.

Come riconosceva Pasolini, in Calvino si testimonia una “cultura sopravvissuta”. Nonostante il maturo superamento di ogni “illusione culturale”, egli preserva e articola un senso del culturale che è poi quello d’una dimensione umana di condivisione, continuità e comunicazione. E perciò s’impegna civilmente a procedere nelle acque perigliose del postmoderno con dignità ed ethos moderni.
In tutti i suoi lavori le singole soggettività, i protagonisti, evadono labirintici psicologismi interiori e agiscono nel mondo (sempre più in meta-mondi modulari), conversano e si relazionano nella comunità. C’è, infatti, un senso costantemente diffuso di collettività laboriosa nelle opere calviniane: la metropolitanità è qualità costante e trasversale delle sue opere. In quanto modalità trascendentale di percezione del mondo. Sembra, in effetti, che Calvino abbia una sensibilità spiccatamente urbana verso la realtà nella misura in cui la sua esperienza del mondo sempre indulga nelle istanze di scambio, relazione, comunità. Lì batte il suo interesse e s’attarda il suo fascino. Per cui la città può essere astratta a modello-chiave per una comprensione generale del modo calviniano di riconoscere e rappresentare la realtà.

Il suo ottimismo, la sua energia riposano proprio nella consapevolezza di questa essenziale e inestinguibile dinamica dell’incontro, della relazione e della socialità che è sottesa al nostro mondo. Il suo nome può ancora rivendicare una speranza eudaimonistica nel cupo presente: “Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile, che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa di esistere”. Calvino vorrebbe essere la coscienza di questa irriconosciuta possibilità.

Di sicuro è stato una storia di incontri. E tuttora continua ad esserlo.

 

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