Dentro la crisi del sistema accademico.
Pubblichiamo la traduzione italiana (a cura di Angela Maiello e Luca Peretti) del post “Higher Education in the Age of COVID-19” uscito sul blog dell’autore.
Quale sarà l’impatto sulle università di questa crisi i cui effetti si cominciano solo lontanamente a vedere? È una domanda che già assilla chi lavora nel settore, ancora di più in quei paesi dove il privato ha un ruolo fondamentale nell’educazione, dove posti di lavoro di insegnanti a vari livelli dipendono dal numero di iscrizioni degli studenti, le quali a loro volta dipendono dalle disponibilità economiche degli stessi e delle loro famiglie. Negli Stati Uniti il passaggio all’educazione online nel corso di questo semestre, avvenuto già da settimane come in molti altri paesi, si accompagna con fosche nubi all’orizzonte. Un orizzonte che è però già presente: decine di concorsi per assunzioni di professori sono già stati annullati o rimandati, per posti di lavoro temporanei ma anche per tenure track (le posizioni che si trasformano in indeterminate dopo alcuni anni), migliaia di programmi estivi all’estero hanno già chiuso, per non parlare di licenziamenti più che probabili per chi lavora in posizioni amministrative, biblioteche, mense dormitori, eccetera.
Questo ha un impatto sulle università statunitensi, ma anche sulle tante e tanti precari accademici che fanno affidamento, in parte o totalmente, su questi programmi: non si contano i corsi estivi di università USA e non, a Roma, Firenze, Siena e in molte altre città. L’Italia infatti ospita ogni anno quasi 37 mila studenti USA, la seconda destinazione dopo il Regno Unito. Ma anche i corsi estivi negli stessi campus, spesso comunque pagati a parte rispetto al resto dell’anno accademico, hanno già subito una drastica riorganizzazione, passando completamente online, o cancellazioni. Tra le tante questioni che pone e sta ponendo il Covid-19 c’è anche questa. Quello che segue è un breve intervento di Richard Grusin, teorico dei media, docente in una grande università pubblica in Wisconsin, la University of Wisconsin–Milwaukee, e direttore del Centre for 21st Century Studies. Per quanto l’analisi di Grusin sia limitata al campo statunitense, ci sembra che non solo queste riflessioni investano direttamente anche molte persone in Italia o italiani che lavorano negli USA, ma che possano anche essere un monito e lanciare un allarme per le università di molti altri paesi [A.M., L. P.].
È difficile pensare che le maggior parte dei college e delle università americane non subirà una drammatica riduzione delle iscrizioni durante l’estate e il prossimo autunno. Difficilmente gli studenti decideranno di immatricolarsi o di ritornare numerosi in quei campus che sono stati chiusi e i cui corsi vengono “erogati” online. E anche se i campus, ipersanificati, dovessero riaprire, con un piano di emergenza pronto all’occorrenza, è difficile immaginare che gli studenti si iscriveranno in massa. Se è vero che questo potrebbe non essere lo scenario a cui vanno incontro le istituzioni universitarie private d’élite o le cosiddette public Ivies [quelle università pubbliche che, pure non essendo Ivy League come Yale o Harvard, offrono un’educazione d’alto livello a prezzi più contenuti, ndt] subiranno perdite drammatiche in termini di iscrizioni tutte le altre università: i community college biennali e i college e le università quadriennali, incluse quelle che rilasciano dottorati, come anche le università private più piccole e tutte le altre. La perdita di iscrizioni significa una perdita nei guadagni ricavati dalle tasse universitarie, che sono il motore dell’università e dei college sia privati sia pubblici. La mia università sta già affrontando un buco di bilancio di 7 milioni di dollari per il prossimo anno accademico, dovuto al mancato raggiungimento delle proiezioni di iscrizioni per l’anno 2019/2020. Quanto diventerà grande questo buco nel secondo anno del nostro budget biennale se i ricavi dalle tasse scenderanno del 10, 20, 30% o più, nell’estate o nell’autunno 2020? Non sarà piacevole, amici miei.
Bisogna fare pressione, ADESSO, perché l’università pubblica ottenga un’assistenza finanziaria analoga a quella data a banche, compagnie aeree, negozi, hotel. ecc. Anche noi, dopo tutto, come ci è stato detto per anni, facciamo business. In assenza di un consistente aiuto finanziario da parte degli stati o dal governo federale, presto vedremo proclamare l’emergenza finanziaria in tutto il settore dell’educazione a partire già dal semestre autunnale. E come molti di voi sanno, proclamare lo stato di emergenza finanziaria è, in molte università, la condizione sufficiente per licenziare addirittura i tenured faculty, cioè i docenti di ruolo, e tutte le altre figure professionali accademiche e non accademiche con una posizione “sicura”. Non verremo pagati se le porte, fisiche o virtuali, dei nostri atenei non rimarranno aperte, o se i nostri dipartimenti e corsi di laurea verranno chiusi per far fronte all’emergenza finanziaria provocata da Covid-19. Una volta che si sarà sgombrato il campo dai costi dei salari che costituiscono una buona parte dei budget delle università, allora vedremo emergere una varietà di forme di università ibride o online. La paura che questa crisi trasformerà l’università in una industria online è più che legittima, ma solo dopo che la maggioranza dei college e delle università pubbliche e private saranno chiuse o verranno talmente e radicalmente ridimensionate, da non essere più riconoscibili. Spero di sbagliarmi completamente, spero che per l’estate avremo superato questo virus e che a settembre gli studenti ritorneranno in classe in massa. Ma non sono ottimista. Prima cominceremo a rivendicare i necessari salvataggi finanziari per l’industria dell’alta formazione, analogamente a ciò che avviene per quelle industrie da cui i repubblicani e i democratici organici alle lobby traggono profitto, prima potremo avere qualche chance di salvare i college e le università da un futuro altrimenti catastrofico.