Pubblichiamo in anteprima il capitolo su Luigi Bernardi tratto dal volume Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea, a cura di Claudia Boscolo e Stefano Jossa, di prossima pubblicazione presso l’editore Carocci.
Il 16 ottobre è scomparso Luigi Bernardi, fra le mille altre cose fondatore della storica Granata Press, responsabile della collana Noir di Stile Libero, traduttore italiano di Jean-Patrick Manchette, figura versatile e dai molteplici interessi, il cui contributo è stato fondamentale per la conoscenza in Italia di un gran numero di autori nel campo del noir e del fumetto. Inoltre, alcuni dei principali autori di noir italiano sono stati proposti e diffusi da lui, tra questi Carlo Lucarelli e Marcello Fois.
Questo capitolo dedicato a Bernardi è tratto da Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea, a cura di Claudia Boscolo e Stefano Jossa, di prossima pubblicazione con l’editore Carocci. Il libro si configura come una panoramica sulla narrativa italiana contemporanea, trattata per aree tematiche e con un interesse particolare verso opere da cui emerge un contenuto politico. Dal capitolo dedicato al noir, opera di Marco Amici, è tratta la seguente parte che analizza in dettaglio l’opera e il prezioso contributo di Bernardi alla cultura italiana contemporanea.
(Claudia Boscolo)
Luigi Bernardi (Ozzano dell’Emilia, 1953 – Bologna, 2013), prima per l’attività svolta a livello editoriale e successivamente per quella di scrittore, può essere considerato un vero e proprio punto di riferimento per il noir italiano. Bernardi approda alla scrittura dopo l’esperienza di Granata Press, casa editrice da lui fondata insieme a Luca Boschi e Roberto Ghiddi nel 1989 che fino al 1996 pubblicherà autori di assoluto rilievo nel campo della narrativa a tema criminale, oltre ad essere fra le prime in Europa a promuovere e distribuire i fumetti giapponesi o manga[1].
Durante il suo trentennale impegno nell’ambito dell’editoria – iniziato nel 1978 con la casa editrice L’Isola Trovata e chiuso nel 2011 per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura – Bernardi ha riservato un posto di rilievo al noir, genere letterario da lui amato, promosso e studiato ben prima che l’etichetta prendesse piede in Italia. A lui si devono collane focalizzate sul genere come “EuroNoir” per Hobby&Work (dal 1999 al 2002), dedicata specificatamente ad autori europei; “Vox” per DeriveApprodi (dal 1999 al 2002) e “Stile Libero Noir” per Einaudi, da lui fondata nel 2000 e diretta fino al 2005. Bernardi, tra le altre attività riconducibili al genere “nero”, ha inoltre curato l’edizione italiana di molte opere di Léo Malet e tradotto diversi romanzi di Jean-Patrick Manchette.
Nel 2003 Bernardi pubblica Vittima facile (2003), romanzo d’esordio e primo capitolo di una trilogia criminale che verrà raccolta in un unico volume nel 2006, con il titolo Atlante freddo.
Il romanzo sembra rimandare agli stilemi del noir puro, con l’autore che da una parte riprende la lezione dei prediletti maestri – con particolare riferimento al Malét della Trilogie noire – dall’altra si propone come voce originale capace di elaborare gli stilemi del genere.
Vittima facile, ambientato a Bari, segue il sogno criminale – ingenuo e quasi maldestro – di Vincenzino e le sue speranze di essere reclutato da una potente organizzazione criminale locale. Il giovane malavitoso, tuttavia, rimarrà schiacciato dalle sue stesse illusioni che, fra i suoi complici, risparmieranno solo Chiara, il personaggio trait d’union della trilogia che comparirà anche nei due episodi seguenti, Rosa piccola (2004) e Musica finita (2005), tappe ulteriori di un giro d’Italia criminale che, passando per Bologna, si conclude a Torino[2].
Nel primo libro della trilogia sono presenti molti degli aspetti che caratterizzeranno la successiva produzione di Bernardi, innanzitutto la scrittura che procede come per istantanee, organizzata spesso in paragrafi brevi e scene singole in cui alle accelerazioni del racconto criminale fatto di rischi, fughe e rapine si alternano l’attenzione per il dettaglio interiore e per le pause dell’azione: la descrizione di momenti minori o slegati rispetto all’intreccio che contribuiscono alla definizione dei personaggi in senso psicologico. Consideriamo, ad esempio, il seguente passaggio interamente focalizzato su Chiara, il cui contesto è quello di un rapimento compiuto dalla banda di Vincenzino in cui il personaggio svolge il ruolo di carceriera:
Di tanto in tanto, Chiara ha l’impressione che ci sia qualcosa che non le funzioni dentro, che sia come inceppato. Allora si ferma di colpo, qualunque cosa stia facendo, spalanca gli occhi poi li strizza forte, quando li apre vede le cose, non proprio nitide però le vede, quando li chiude si fa buio. Apre e chiude la bocca, prova a parlare, ascolta il suono della propria voce e il silenzio di quando smette. Può parlare, riesce a sentire. Allora piega mani, braccia, gambe, fa dei saltelli, china la testa, torce il busto. Tutto sembra comportarsi a dovere (Bernardi 2006, p. 30).
Per tutto il breve paragrafo l’autore ci rende partecipi delle confuse sensazioni di Chiara senza che nulla realmente accada, solo un accenno di dialogo in conclusione ci riporta alla circostanza del rapimento. Questa capacità di osservazione delle dinamiche interiori dei personaggi che, in qualche modo, rallenta il ritmo della narrazione criminale e nel contempo ne specifica la qualità, lavorando sulla complessità e lo spessore dei suoi protagonisti, rappresenta una costante della scrittura di Bernardi.
Altri elementi e caratteristiche che torneranno nei successivi romanzi sono l’organizzazione cronologica non lineare data dalla presenza di numerosi flashback, l’interesse per le trasformazioni di un mondo criminale rappresentato in costante trasformazione, la puntuale resa delle dinamiche mediatiche scatenate dai fatti di cronaca e le conseguenti reazioni dell’opinione pubblica. Rispetto al primo capitolo di Atlante freddo, in Rosa piccola Bernardi sembra accentuare ulteriormente lo sguardo focalizzato sul particolare, con le sue istantanee concentrate sugli scarti inconsueti dei moti interiori. Nel passaggio seguente, ad esempio, il mite personaggio del venditore di strada Mugne/Kaled – che mai aveva utilizzato un’arma in vita sua – decide all’improvviso di accettare la pistola che gli viene offerta:
Mugne si alza, guarda di sbieco la pistola. La lascia sulla scrivania. Non ha mai sparato un colpo in vita sua, non saprebbe come usarla. […] – Ci proverò – dice, e fa per uscire. Si inchioda sulla soglia. Guarda i due grandi armadi di metallo alla parete, ricorda la fatica che avevano fatto lui e Benfenati per trascinarli fin lì. Si vede camminare con la pistola in tasca, si compiace di quell’immagine inattesa. Torna indietro, prende l’arma, con una certa cautela, come se potesse mettersi a sparare da sola.
– È meglio se la prendo, – dice. (ivi, p. 88)
Relegata sullo sfondo della narrazione, Bologna è una città su cui l’autore non si sofferma mai alla ricerca del particolare da caratterizzazione geografica, ma che viene appena tratteggiata attraverso le opinioni e gli umori dei personaggi. In maniera ancor più indistinta, d’altronde, la città di Bari faceva da scenario all’ascesa e caduta della banda di Vincenzino, mentre la Torino di Musica finita è vista appena di sfuggita con gli occhi di Chiara come una città ostile, che mette soggezione perché «a misura di gigante», attraversata da un fiume «come un’enorme biscia grigiastra» (2006, p. 159).
L’assenza di una forte caratterizzazione geografica dei luoghi costituisce, in effetti, un’altra costante delle narrazioni di Bernardi, che l’autore rivendica in polemica con la tendenza opposta, quella di una diffusa linea nazional-regionale della narrativa a tema criminale, ampiamente diffusasi a partire dalla metà degli anni Novanta:
Nascono collane dedicate a città, regioni, luoghi circoscritti. Il lettore sembra premiarle, ma questo non ha nulla a che vedere con la qualità dei testi, va semmai ascritto a quella smania di reality che ormai condiziona il nostro intrattenimento: leggere un giallo ambientato nella nostra città, riconoscere le strade, i monumenti, la lingua, certi tic, ci danno un simulacro di verità che ci appaga, quasi servisse a confermarci la nostra stessa esistenza in vita (Frati 2007).
Per quanto Bernardi eviti programmaticamente di caratterizzare i suoi romanzi in accordo a specifiche e circoscritte aree geografiche, i tre libri dell’Atlante freddo raccontano di realtà distintamente italiane, riconoscibili attraverso riferimenti a specifiche dinamiche criminali e problematiche relative all’area della marginalità sociale. In aggiunta, l’ultimo capitolo della trilogia chiama in causa l’esperienza della lotta armata, fra persistenze e passato, proponendosi come l’episodio più apertamente “politico” dei tre, in cui l’autore contesta qualsiasi possibile strascico di esperienze politico-rivoluzionarie già sconfitte dalla storia. L’intreccio di Musica finita, infatti, ruota intorno al tentativo del libraio ed ex brigatista Sergio di incidere sugli equilibri criminali torinesi, favorendo gli attivisti del centro sociale in cui milita anche sua nipote, che si risolverà invece in un bagno di sangue.
Esaminando la trilogia di Atlante freddo nel suo complesso, s’intravede lo sforzo di Bernardi di distanziarsi dal racconto criminale di genere che prevede strutture fortemente vincolanti, da cui la naturale adesione al noir per l’ampia libertà data dal suo modello. In diverse occasioni, d’altronde, l’autore ha espresso la sua avversione rispetto allo schema rigido del giallo, la cui concatenazione di cause ed effetti costituirebbe un’impalcatura impossibile da calare su una realtà di fatti criminali spesso privi di logica. Allo stesso modo, del racconto criminale basato sulla grammatica del poliziesco, Bernardi contesta la tendenza a «trasformare tutti i personaggi in figure di carta, [per] renderli funzionali a quella che non è più una “storia” ma un intreccio, equiparare dei momenti di sofferenza assoluta al gioco del “se fosse”» (Bernardi 2003, p. 143). Anche dal punto di vista della filosofia che sottende la narrazione, dunque, si ripropone l’interesse dell’autore per l’osservazione di dinamiche che scuotono i personaggi sotto la superficie dei loro gesti:
Del crimine mi interessa il gesto e il senso, che non sono mai misteriosi in accezione «giallistica», quanto fenomenali rappresentazioni del dramma primario: la vita come capacità di dare la morte. Raccontare un omicidio, scrivere di un coltello che penetra la carne, di una pallottola che devasta un volto, di una madre che getta dal balcone il proprio bambino, è entrare nel mistero della psiche, l’unico che ha senso indagare (Bernardi 2002, p. 121).
Questo aspetto della scrittura di Bernardi va necessariamente contestualizzato nella tendenza ad affrontare e sviluppare il tema criminale secondo una prospettiva che potremmo definire contro-narrativa rispetto alle consuetudini con cui esso viene raccontato.
Questa attitudine si configura non solo attraverso un’ideologica e formale contestazione del giallo e della sua egemonia rispetto al racconto criminale, ma anche tramite una critica del trattamento dei fatti criminali operato solitamente dai media. Da una parte, infatti, tanta parte della produzione dell’autore emiliano rimanda al serbatoio narrativo della cronaca nera, da cui trae primaria ispirazione, dall’altra il racconto di cronaca viene rivisitato seguendo una logica d’opposizione, tesa a valorizzare aspetti e peculiarità solitamente minimizzati o esclusi.
Dal punto di vista della riflessione teorica, l’autore aveva già esplicitato le sue posizioni rispetto alle storture dell’informazione in relazione ai casi di omicidio – in particolare quelli che assumono grande rilievo mediatico – in A sangue caldo (2001), un saggio in cui vengono stigmatizzate principalmente due dinamiche ricorrenti: la necessità ideologica di posizionare i colpevoli ai margini o al di fuori delle consuetudini sociali, e la tendenza a produrre ansiogene generalizzazioni prive di riscontri fattuali.
Il primo caso evidenzia un meccanismo consolatorio finalizzato a rassicurare il fruitore dell’informazione che gli autori di crimini efferati sono spesso attori esterni, non conformi o devianti rispetto all’insieme di norme che regola la nostra società: extracomunitari, serial killers, tossicodipendenti, esponenti a vario titolo delle aree della marginalità. Il secondo caso si basa sulla necessità opposta, quella di sollecitare le ansie del pubblico universalizzando la valenza di assassinii compiuti da membri interni alla società – insospettabili professionisti, adolescenti, madri – dotandoli, di conseguenza, di un potenziale di replicabilità che esula dalle specificità dei contesti.
In entrambe le prospettive al crimine viene connesso un carattere di eccezionalità, di deviazione dalla norma a cui, solitamente, si associa una risposta politica che è sempre di emergenza e facente leva su argomentazioni relative a una generica nozione di sicurezza, secondo un circolo vizioso che, come ha sottolineato l’antropologa Annamaria Rivera, salda insieme «gli atteggiamenti dei mass media, delle istituzioni, dell’opinione pubblica»[3].
Quello che evidenzia Bernardi è dunque un uso specificamente strumentale ed eminentemente politico della cronaca nera, finalizzato a sollecitare paure ed insicurezze spendibili sul piano del consenso: la microcriminalità legata all’immigrazione, il problema della droga, la pedofilia, le sette sataniche, solo per citare qualche esempio. Attraverso questo genere di considerazioni, per contrasto, è possibile risalire all’attitudine del Bernardi narratore, basata invece sull’idea di spogliare il racconto criminale dalle sue impalcature ideologiche e dalle costruzioni che ne esaltano la presunta eccezionalità per rappresentarne la natura spesso banale e totalmente irrazionale. Esemplare, da questo punto di vista, appare un testo come Pallottole vaganti (2002), in cui l’autore assembla un catalogo di centouno omicidi compiuti nell’anno 2000.
Si tratta di quello che potremmo definire come un esercizio di puro minimalismo noir, in cui l’autore porta all’estrema sintesi il racconto del fatto criminale, distillandone le dinamiche in venti righe di prosa essenziale e quasi glaciale nella sua neutralità. Riportiamo qui a titolo esemplificativo il racconto-frammento intitolato “Sangue di eroina”, ispirato da un fatto di cronaca avvenuto a Cerignola, Foggia, il 4 ottobre del 2000:
Vincenzo ha 54 anni e fa il barista. Ha una moglie e due figli, Massimo, 25, e Maria Patrizia, 28. Non sono una famiglia felice. Non sanno neanche cosa sia una famiglia felice. Massimo si droga, ha sempre bisogno di soldi per comprarsi le dosi. Prende a male parole suo padre, da un po’ di tempo ha anche cominciato a picchiarlo. Oggi, sul nascere di una nuova lite, Maria Patrizia sente che c’è una furia diversa nell’aria. Chiama i carabinieri, non serve. Quando arrivano, Vincenzo ha già messo in azione la sua 7,65. Prima ha sparato a Massimo, freddandolo sul colpo, poi ha raggiunto la figlia, ha ammazzato anche lei. (Bernardi 2002, p. 91)
Successivamente, ne Il male stanco (2003), Bernardi elabora ulteriormente le sue considerazioni da osservatore del crimine nonché attento lettore delle sue narrazioni.
Si tratta indubbiamente di uno dei suoi testi più interessanti, costruito sull’ibridazione di dato reale e finzionale, disseminato di riflessioni sulla società in cui viviamo e di impliciti abbozzi di teoria letteraria noir. La base di partenza, ancora una volta, è costituita dalla cronaca nera, con particolare riferimento ad omicidi compiuti in base a ragioni deboli o inconsistenti, che annientano coppie o famiglie “normali” o che avvengono per puro caso.
Ogni capitolo de Il male stanco si sofferma su due o più casi che Bernardi narrativizza fin nelle loro fasi più drammatiche: i momenti in cui l’omicidio stesso si consuma, tra la distorta ragione dell’assassino e l’agonia della vittima. Il primo capitolo, ad esempio, si apre con l’inseguimento della giornalista Maria Rosaria Sessa che, la notte del 9 dicembre 2002, verrà uccisa dal suo ex fidanzato: «La portiera si spalanca, la donna balza fuori dall’auto, sceglie d’istinto una direzione, corre per quella. La donna ha paura, non ha mai visto tanta durezza nella rabbia dell’uomo, e dire che non è la prima volta che lui la picchia» (Bernardi 2003, p. 19).
Il racconto, tuttavia, non procede in maniera lineare come un vero e proprio e fedele resoconto di quanto avvenuto nella realtà. Ad esso, infatti, si alterna quasi subito la rivisitazione di un altro omicidio – ancora una giovane donna, Alenja Bartolotto, uccisa dal fidanzato il 20 luglio 2002 – e ad entrambe le ricostruzioni, Bernardi inframmezza considerazioni relative all’osservazione di quegli stessi delitti: riflessioni relative al carattere delle vittime e degli assassini, alla loro collocazione sociale, al modo in cui tali dinamiche omicide, per assonanza, sembrano porsi in relazione con altri casi di omicidio e, al di là della cronaca, con problematiche e disfunzioni che riguardano, tutta intera, la nostra società:
La domanda è allora un’altra: che mondo è un mondo in cui la volontà di proseguire un rapporto è una condizione sufficiente per l’omicidio, così come lo è il desiderio di interromperlo? La risposta non è difficile: è un mondo impazzito, o almeno un mondo nel quale l’impazzimento ha determinato nuove regole, le sue. (Ivi, p. 34)
Ne Il male stanco la voce del narratore extradiegetico, rimbalzando di continuo dal racconto all’osservazione di omicidi realmente avvenuti, cerca di rendere la complessità del fatto criminale tracciando un percorso di senso basato sull’idea che «I delitti, non le notizie di cronaca nera, ci fanno paura perché sono una rottura traumatica dell’esistente» (Ivi, p. 33).
Evidente appare allora lo sforzo interpretativo dell’autore che, significativamente, riconosce la possibilità dell’impasse, della mancanza di una spiegazione plausibile come del movente necessario: «Alla fine di queste conversazioni mi sembrava di avere capito qualcosa di più, a volte anche solo che non c’era niente da capire, solo da raccontare» (Ivi, p. 17).
Da questa prospettiva, come ha osservato in una recensione Stefano Tassinari, Il male stanco presenta un approccio di tipo filosofico rispetto al crimine per cui, per riuscire non tanto a spiegare quanto almeno a contestualizzare omicidi causati da motivazioni futili o addirittura privi di qualsiasi movente, vengono chiamate in causa disfunzioni di tipo sociale e dinamiche di ordine simbolico:
L’approccio di Bernardi, dunque, è più filosofico che di cronaca, tant’è che la sua interpretazione dei fatti e dei comportamenti individuali sembra dipendere dallo sviluppo di un’idea di Schopenhauer (il mondo non è altro che rappresentazione, nel senso che esiste solo per colui che se lo rappresenta) e dal rovesciamento di un concetto espresso da Heidegger (la nostra esistenza è solo un «essere nel mondo» e non, come scriveva il pensatore tedesco, anche un «essere con altri», proprio perché per un assassino “futile” gli altri, anche sul piano psicologico, non appartengono al suo mondo). Nel raccontarci le storie sintetiche di varie vittime, in gran parte donne (la giornalista Maria Rosaria Sessa, la studentessa/lavoratrice Alenja Bortolotto, la commercialista Paola Montosi, l’agente di commercio Cristina Calvani…), l’autore non prova nemmeno a fornire risposte, ma si limita, giustamente, a trasformare il lettore in un semplice osservatore, in modo tale da non condizionare il suo rapporto con il male (Tassinari 2003, p. 5).
Nello specifico, all’interno de Il male stanco, Bernardi si riferisce più volte al modello ideologico del “pensiero unico” – la cui prassi si basa sulla negazione e soppressione del conflitto e del contraddittorio in favore dell’imperativo della competizione[4] – come humus concettuale in cui si muovono le vittime e i carnefici degli episodi da lui raccontati.
Le storie di omicidi presenti nel testo, da questo punto di vista, somigliano a dei cortocircuiti generati dalla collisione della psiche dei singoli con un modello di pensiero che, riflettendo la nozione di primato dell’economia sulla politica e la logica unica del profitto, sostituisce ai processi dialettici e all’esercizio del conflitto lo strumento della repressione:
Il pensiero unico, pensiero dominante nel senso che si propone di dominare anche su se stesso, sulla propria attività, non potendo rimuovere l’antitesi avvia un processo di soppressione di chi la produce: […], “Ti amo, non potrei vivere senza di te, se mi lasci ti uccido”. Il pensiero unico, insomma, pur di avere ragione – di perpetuare il proprio dominio, che di questo si tratta –, s’incanala verso una via breve, arriva a giustificare un atto di forza dalle conseguenze spesso tragiche, a volte grottesche […] (Bernardi 2003, p. 38).
All’interno del racconto de Il male stanco, caratterizzato da «un continuo rimbalzo fra narrazione, informazione, pensiero» (Ivi, p. 142), trova una sua naturale collocazione anche la denuncia – un vero e proprio leit motiv per quanto riguarda le posizioni teoriche di Bernardi – dei limiti della narrazione criminale basata sulla sintassi del giallo.
Se le dinamiche che portano a un omicidio possono essere scatenate dal caso, da quella sorta di cortocircuito psichico che l’autore definisce “impazzimento”[5], appare evidente come il giallo non riesca ad adempiere alla sua funzione primaria, non riesca cioè a razionalizzare la sua materia narrativa, ingabbiandola secondo concatenazioni temporali e causali che devono necessariamente portare a un dato esito: un mistero svelato, un assassino scoperto, un movente chiarito.
È a partire da queste considerazioni che un testo ibrido come Il male stanco, si propone anche come implicita raccolta di appunti di teoria letteraria noir, perché dei fatti criminali presi in considerazione propone un discorso teorico e narrativo focalizzato su punti che per il noir sono essenziali: lo sguardo concentrato sul precipitare degli eventi come meccanismo essenziale che regola il racconto; il tentativo di focalizzare al massimo la prospettiva narrativa attraverso gli occhi della vittima e quelli dell’assassino; la rappresentazione di un mondo in preda al disordine e all’impazzimento in cui la possibilità del crimine è entrata a far parte del quotidiano.
Il male stanco, dunque, fornisce coordinate utili per comprendere le molteplici sfaccettature del racconto criminale per come può essere svolto dai media o dalla letteratura stessa, in riferimento all’ideologia che lo sottende e alle sue funzioni sociali. Allo stesso tempo, si precisano in esso molti degli aspetti che sono alla base della scrittura di Bernardi, il cui approccio, per quanto lontano a livello tematico e strutturale dalla prassi del giallo sociale o del noir immediatamente percepito come impegnato, si caratterizza ugualmente per la presenza di forti istanze critiche. Da questo punto di vista, la produzione dell’autore emiliano – che progressivamente devierà dagli stilemi del noir con romanzi come Senza luce (2008) o il più recente Crepe (2013) – costituisce una delle espressioni di resistenza più originali al racconto criminale convenzionale, al giallo/noir rassicurante figlio dell’ipersfruttamento editoriale del genere avutosi dalla metà degli anni Duemila. Diversamente, l’originalità delle narrazioni dell’autore emiliano sembrano rimandare proprio alle possibilità del racconto che, a partire dal crimine e dalle varie dinamiche che gravitano intorno ad esso, innesca problematicità diffuse e punta alle contraddizioni che sottendono il contesto sociale, il nostro quotidiano e le narrazioni che lo raccontano.
Bibilografia
Bernardi L. (2001), Léo Malet e la grammatica del noir in Léo Malet (2001), La vita è uno schifo, Fazi Editore, Roma, pp. 7-14.
Id. (2001), A sangue caldo: criminalità, mass media e politica in Italia, DeriveApprodi, Roma.
Id. (2002), Pallottole vaganti. 101 omicidi italiani, DeriveApprodi, Roma.
Id. (2003), Il male stanco. Alcuni omicidi quotidiani e quello che ci dicono, Editrice ZONA, Civitella in Val di Chiana-Arezzo.
Id. (2006), Atlante freddo. Trilogia criminale, Editrice ZONA, Civitella in Val di Chiana-Arezzo.
Id. (2008), Senza luce, Perdisa Pop, Bologna.
Id. (2013), Crepe, Perdisa Pop, Bologna.
Frati D. (2007), Intervista a Luigi Bernardi, in “Mangialibri”.
Malet L. (1969), Trilogie noire: La vie est dégueulasse. Le soleil n’est pas pour nous. Sueur aux tripes, Losfeld, Paris.
Rivera A. (2009), Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, Bari.
Ramonet I. (1995), La pensée unique, in “Le monde diplomatique”, janvier, 1995, p. 1.
Tassinari S. (2003), Il male stanco di Bernardi, in “l’Unità” (edizione di Bologna), 24 dicembre 2003.
Note
[1] Fra gli autori pubblicati da Granata Press troviamo ad esempio Pino Cacucci, Marcello Fois, Giuseppe Ferrandino, Carlo Lucarelli, Alda Teodorani, Nicoletta Vallorani. Mentre tra le traduzioni spiccano i nomi di Didier Daeninckx, Paco Ignacio Taibo II, Léo Malet, Jean-Patrick Manchette, Patrick Raynal, Andreu Martin.
[2] La connotazione “ciclistica” della geografia di Atlante freddo è esplicitata nella trilogia da diversi riferimenti a Franco Balmamion, vincitore di due edizioni consecutive del Giro d’Italia, nel 1962 e 1963: «E ricordare il suo esempio oggi, in tempi talmente competitivi nei quali si predica e si ricerca l’annientamento dell’avversario, mi sembra fondamentale. Pur raccogliendo sconfitte a ogni tappa, alla fine Chiara “vince” il suo giro d’Italia, proprio come Balmamion, che ha vinto due Giri senza mai aggiudicarsi una tappa» (Frati, 2007).
[3] «Solitamente i mass media si attribuiscono il compito di indurre, interpretare e legittimare umori e sentimenti collettivi, in genere i meno nobili. La politica, istituzionale e non, demagogicamente adatta il proprio discorso e operato all’opinione pubblica interpretata dai mass media. Nell’opinione pubblica, a sua volta influenzata e in qualche misura modellata in peggio dagli uni e dall’altra, si accentuano gli orientamenti intolleranti e sicuritari e le richieste di ordine, che talvolta sfociano in aggressioni e spedizioni punitive contro lavoratori immigrati e rom» (Rivera 2009, pp. 22-23).
[4] L’espressione “pensiero unico” è stata utilizzata per la prima volta dal giornalista e scrittore Ignacio Ramonet in un editoriale di Le Monde diplomatique (intitolato, appunto, “La pensée unique”) per descrivere l’imposta egemonia culturale del modello economico neoliberista a livello globale. Cfr. Ramonet 1995, p. 1.
[5] «Un pensiero che non accetta il contraddittorio è un pensiero impazzito. Uno dei risultati di questo pensiero sono gli omicidi di cui parlo, omicidi senza mistero di un mondo in preda all’impazzimento» (p. 37).