Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale

Nel 1957 esce nell’Universale Economica Feltrinelli Il lavoro culturale, l’ironica storia di un intellettuale di provincia che, convinto della forza emancipatrice della cultura, con l’aiuto del fratello minore e il sostegno di un manipolo di intellettuali anarcoidi, sperimenta le forme dell’organizzazione culturale tipiche del decennio immediatamente successivo al dopoguerra [1].

Alessandra Reccia
[pubblicato in «Il Ponte» n. 7-8 luglio-agosto 2010]

L’autore, Luciano Bianciardi, era già noto all’intellighenzia militante di quegli anni per aver scritto, insieme a Carlo Cassola, il saggio-inchiestaI minatori della Maremma, certamente una delle più interessanti e toccanti opere di denuncia degli anni Cinquanta. Proprio come intellettuale engagé era stato presentato nel 1954 dal direttore della rivista romana «Il Contemporaneo» al giovane Gian Giacomo Feltrinelli, a quel tempo alla ricerca di nuovi talenti da convogliare intorno alla «grande impresa culturale», che nasceva sotto la sua guida a Milano. La proposta di trasferirsi nella «capitale del Nord» arrivò inaspettata in un periodo di importanti ripensamenti sulla propria attività politico-culturale, maturati in seguito a un grave incidente accaduto in quello stesso 1954 al pozzo di Ribolla, dove in un’esplosione persero la vita quarantatré minatori. La morte violenta di questi operai, annunciata tra l’altro nelle pagine della sua inchiesta, portò lo scrittore grossetano a interrogarsi profondamente sul senso del suo lavoro. Al dolore per le perdite umane si aggiunse quello per la delusione politica vissuta anche come una sconfitta esistenziale.

Fino a quel momento, Bianciardi aveva svolto tutta la sua intensa attività culturale nell’ottica dell’impegno civile e politico, conformandosi in questo a un’intera generazione di intellettuali di sinistra. Il trasferimento nella grande città lombarda fu vissuto all’inizio come possibilità di reagire alla frustrazione e al senso di impotenza. Del resto già con il lavoro d’inchiesta aveva capito che i centri decisionali e di potere erano ben lontani dai luoghi di produzione e che l’opposizione intellettuale doveva concentrarsi proprio lì dove erano riuniti i cervelli industriali. Ma la vita cittadina lo convinse ben presto che il discorso intellettuale intrapreso con la Resistenza si era irrimediabilmente concluso.

Il lavoro culturale è sicuramente uno dei primi resoconti critici della generazione del dopoguerra.

Sdoppiato in due personaggi, opposti ma complementari, l’autore affida la voce narrante a Luciano Bianchi, calciatore mancato e antifascista. Questi, ripercorrendo la storia della formazione culturale del fratello Marcello, un intellettuale militante di provincia, mette in risalto con sferzante ironia la vanità dello sforzo e dell’entusiasmo profusi per l’emancipazione sociale della piccola Grosseto in espansione. L’occhio dissacrante di Luciano passa in rassegna tutte le organizzazioni politiche e i gruppi intellettuali della Grosseto postfascista, fornendo così un quadro vivo e articolato della composizione sociale e culturale della sua città al tempo della modernizzazione.

Marcello è il prototipo dell’intellettuale impegnato anni Cinquanta. Arruolato ufficiale durante la Seconda Guerra, obbligato a condurre in battaglia gruppi di contadini analfabeti, suoi coetanei, torna a casa con la consapevolezza che la cultura, quella posseduta da lui per privilegio di classe, «non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, ad evitare il male» [2]. Lo ritroviamo, così, continuamente occupato a mettere in piedi rassegne cinematografiche, a riorganizzare la piccola biblioteca cittadina fino a farla diventare una sorta di Casa della cultura in miniatura, oppure a istituire seminari, dibattiti e incontri sui più disparati argomenti. Questo modo di essere intellettuale istruisce anche la sua condotta privata, concretizzandosi nella decisione di sposare la «brava e bella» Michelina, una semplice ragazza di provincia senza istruzione né posizione sociale, perché tanto «l’avrebbe formata lui giorno per giorno» [3].

Anche se nell’atteggiamento assunto nei confronti del matrimonio si richiama esplicitamente alla figura dell’“educatore delle masse”, tuttavia Marcello rappresenta la faccia genuina e innocente dell’intellettualità italiana del dopoguerra, che incarna il sogno di una cultura capace di prevenire il dolore e la disperazione umana. Questo aspetto è messo particolarmente in risalto dall’ironia di Luciano, che non è mai indirizzata direttamente alle azioni del fratello. Tanto è vero che gli sforzi di quest’ultimo sono ridicolizzati e depotenziati sempre dal contesto. La pacatezza e l’intelligenza di Marcello non riescono mai ad arginare i modi schematici e ottusi proposti dal partito, vero oggetto della satira, che si presenta sotto le spoglie dei burocrati di sezione chiamati dalla capitale. Il partito, dunque, interpellato a sostegno delle iniziative intraprese, finisce sempre per sopraffarle con i suoi metodi e i suoi temi, allontanando il pubblico e annullando tutti gli sforzi compiuti.

Da questo punto di vista il libro di Bianciardi riprende, anche se in forma ironica, una delle più importanti questioni teoriche della intellighenzia italiana del dopoguerra, ovvero il problema dei rapporti tra politica e cultura, che assume qui i termini non solo della disputa tra intellettuali e partito, ma anche di quella tra città e provincia. Allo stesso tempo dichiara però la disputa conclusa, dal momento che lo stesso Marcello rinuncia al suo ruolo culturale e, accettando un lavoro “rispettabile”, si integra perfettamente alla vita di provincia.

Scritto tra le asfissianti mura di una squallida pensione milanese, Il lavoro culturale traccia senza dubbio il limite di un’esperienza individuale, ma anche quello di un’intera generazione di intellettuali, quella antifascista e di sinistra che voleva indirizzare culturalmente e politicamente la ricostruzione nel dopoguerra.

Quando Il lavoro culturale arriva alle stampe, in Italia si è appena concluso l’ultimo grande dibattito pubblico sul ruolo e la funzione sociale della cultura, sui rapporti tra cultura e politica e tra intellettuali e partito. Proprio «Il Contemporaneo» [4] aveva messo a confronto i risultati di una discussione nata nella sinistra italiana immediatamente dopo la morte di Stalin e acuitasi inevitabilmente dopo i fatti del 1956. Nel suo libro Bianciardi non richiama mai direttamente quel dibattito ma vi apporta un contributo decisivo. Non solo perché con la caricatura dei gesti e dei linguaggi riesce a mettere in evidenza gli aspetti vuoti e strumentali della burocratizzazione culturale operata dal partito, ma anche perché di fatto si accorge, primo in Italia, che quel sistema di organizzazione e produzione culturale non può reggere di fronte al nuovo contesto industriale.

Nel 1957 Feltrinelli aveva pubblicato anche Dieci inverni, una raccolta di saggi critici dell’eterodosso intellettuale marxista Franco Fortini. Questo libro che può ben definirsi, con le parole del suo autore, «la documentazione di una battaglia durata dieci anni per una politica culturale della sinistra italiana» [5], seppure in altra forma e con ben altro intento rispetto al Lavoro, è anch’esso segno di un periodo che si chiude. Qui però si delinea una proposta di prassi culturale, i cui metodi si inscrivono in una logica che è ancora quella del decennio precedente. Solo negli anni Sessanta, con Verifica dei poteri, che presenta i risultati della riflessione fortiniana sui rapporti tra industria e cultura, Fortini sarà in grado di fornire una delle più importanti e complete teorizzazioni del limite dell’esperienza intellettuale italiana degli anni Cinquanta. Bianciardi invece, direttamente coinvolto nei nuovi processi di industrializzazione, sa già che quelle forme dell’organizzazione culturale non sono più possibili nella nuova situazione economica e sociale.

Guardando all’esperienza personale dell’autore non meraviglia la precocità di questo sguardo. Del resto, come gli scritti di Bianciardi sono un intrico di vita vera e invenzione, così la lettura delle sue opere costringe a spostare continuamente l’occhio dalla pagina alla biografia.

A metà del 1956 l’intellettuale maremmano era già stato licenziato dalla Feltrinelli e nella sua stanza di Milano traduceva a cottimo libri di diverso genere e tipo per le più svariate case editrici. L’insofferenza, sempre ostentata, verso gli ambienti intellettuali milanesi lo condanna ben presto al “proletariato intellettuale”. Inoltre, la consapevolezza di essere un semplice ingranaggio dell’industria culturale acuisce il senso del fallimento del progetto intellettuale del decennio precedente. Questa condizione sociale ed esistenziale avrà un doppio risvolto: da un lato affinerà la sua capacità di osservare i cambiamenti culturali in corso, dall’altro alimenterà un senso di insoddisfazione e insofferenza che non riuscendo a trovare via d’uscita finirà per diventare rassegnazione e autodistruzione.

Ma in un primo momento, guardare all’attività grossetana, e cioè raccogliere i risultati della sua esperienza, fu un modo per sfuggire all’orrore dell’omologazione e per recuperare il senso del suo viaggio al Nord attraverso la sua identità culturale. Non importa, in questo momento, che proprio per evitare l’integrazione Bianciardi finirà per essere travolto completamente dal sistema e che, a mano a mano che la rabbia cederà il posto alla rassegnazione, il ricordo di Grosseto si trasformerà in rimorso e senso di colpa. Qui si vuole sottolineare come la consapevolezza che lo spinse diritto nel cuore della modernità, là dove soggiornavano «i cervelli della Montecatini», era ancora quella di una parte della sinistra comunista critica. Ma tanto il rimorso verso i morti di Ribolla, quanto la condizione di vita e di lavoro individuale, lo spingeranno a una rivalutazione della sua attività, riconsiderata alla luce del nuovo contesto socioeconomico. Da qui l’esigenza di descrivere il nuovo mondo conosciuto a Milano. Per questo i due romanzi successivi dell’autore, L’integrazione e La vita agra, non possono essere letti se non come seguito di questo primo. Vale poi la pena sottolineare che Bianciardi fu tra i primi non solo a decretare la fine di un’epoca, ma anche a descrivere la nuova.

Quando nel 1960 esce il suo secondo libro, che racconta della vita dell’intellettuale nell’industria, Bianciardi ha già prodotto molto materiale sull’argomento. Ricorda Corrias che la sua prima «radiografia dell’intellettuale-funzionario» [6] compare nel 1955 sulle pagine del «Contemporaneo». Ma a questa ne seguiranno altre nelle quali Bianciardi passa in rassegna una per una tutte le categorie di lavoratori che ruotano intorno all’industria culturale, delineando per la prima volta in Italia la figura del «quartario», ovvero, quello che oggi più comunemente si definirebbe “lavoratore della conoscenza”. Tutto questo lavoro sarà poi rielaborato nella Vita agra, il romanzo che colloca il suo autore a pieno titolo nel filone della cosiddetta «letteratura industriale» insieme a Volponi e Ottieri [7]. Ma qui la satira, l’invettiva e la stessa ironia sono già diventate, irrimediabilmente, forme del cinismo. Per il protagonista che finisce per vivere ossessionato dai ritmi di lavoro e dagli standard di produttività che è stato costretto a imporsi, non è più possibile margine di azione, ma tutto, anche la vita privata, persino l’anima, si ingrigisce e assume le forme e i colori della “città labirintica”.

Nel suo insieme la trilogia bianciardiana è un documento formidabile della storia sociale del nostro Paese, poiché descrive il bivio di fronte al quale si trovarono gli intellettuali tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, mentre l’Italia correva distratta sulla spinta del boom economico. Allo stesso tempo Bianciardi richiama l’attenzione sulla verità del miracolo italiano che, con il sostegno entusiasta di buona parte dell’intellettualità di sinistra anche eterodossa, trionfava sulle sconfitte dei minatori maremmani e sulle ceneri delle lotte contadine, alimentandosi di emarginazione e di emigrazione. Bianciardi, arrivando a Milano, si era potuto accorgere che le ruspe, “avanzate vittoriose” a fare della sua piccola provincia una periferia industriale, non erano il simbolo del progresso, ma appena il sintomo della grigia e cupa modernità che si nutriva di esistenze standardizzate e anonime.

Quello che l’autore ancora non immaginava al tempo del Lavoro culturale era la forza fagocitante del ventre di Milano, capace di digerire tutto, dall’erudito medievista all’intellettuale militante, dalla «grande impresa» al Pirellone, fino al passo strascicato dello stesso Bianciardi. La sfida che lui ha perso, e cioè resistere all’omologazione così come all’emarginazione in una nicchia qualsiasi di mercato, è però ancora la nostra sfida. Da qui l’esigenza di riproporre questo autore a partire dal suo primo racconto. Anche se leggendolo non si riuscirà a trattenere la risata, Il lavoro culturale è senza dubbio un libro tra i più seri che ci siano toccati in eredità da quegli anni.

Note

[1] L. Bianciardi, Il lavoro culturale, [1957] Milano, Feltrinelli, 1997. Poi raccolto insieme agli altri scritti dell’autore in, L. Bianciardi, L’antimeridiano, vol.1, Milano, Isbn edizioni, 2005.

[2] Il lavoro culturale, pp. 39-40.

[3] Ivi, p.41.

[4] Il dibattito pubblicato su «Il Contemporaneo» è poi stato raccolto da Giuseppe Vacca in Gli intellettuali e la crisi del 1956, Roma, Editori Riuniti, 1978.

[5] F. Fortini, Ad un sovietico, in Un giorno o l’altro, Macerata, Quodlibet, 2006, p. 216.

[6] Si tratta della Lettera da Milano poi raccolta in L. Bianciardi, Chiese escatollo e nessuno raddoppiò. Diario in pubblico 1952-1971, Milano, Baldini e Castoldi, 1996, pp. 81-86, citata in P. Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, [1993], Milano, Baldini e Castaldi, 1996, p. 118.

[7] Cfr. G. Nava, L’opera di Bianciardi e la letteratura dei primi anni Sessanta, in V. Abati et alia (a cura di), Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 5-22.

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