Lovecraft: l’inferno e le lettere

Tre lettere dello scrittore britannico padre del fantastico e dell’horror.

Lovecraft lettere

 

Nel corso della sua vita, Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) non ha scritto solo i grandi racconti e romanzi fantastici e horror che lo hanno reso celebre, ma anche circa centomila lettere. Era misogino, xenofobo e antisemita: e infatti sposò unebrea ucraina, Sonia. Al momento del loro divorzio, Sonia bruciò il baule che conteneva le lettere del marito. Nonostante quel rogo, delle sue lettere  ne scriveva a volte anche una dozzina al giorno, di cui alcune molto lunghe  oggi ce ne rimangono fra le quindici e le ventimila; Marco Peano ne ha operato una scelta ragionata, proposta da LOrma che ringraziamo nel volume La vita adulta è l’inferno. Lettere di un orribile romantico. Eccone tre, ognuna preceduta da una breve introduzione del curatore. 

Intestazioni bizzarre e spiritose, chiuse lambiccate e ostentatamente servili: Lovecraft si divertiva nel firmarsi e nel rivolgersi ai suoi corrispondenti con una serie infinita di nomignoli, spesso ammiccanti alla cultura classica (per sé, usava con una certa frequenza «il vecchio Theobald»). In questa lettera scritta a ventinove anni, HPL – che all’epoca viveva a Providence con la madre e la zia più giovane, Annie Emeline Phillips Gamwell (da lui detta AEPG) – si rivolge all’amico e poeta Rheinhart Kleiner.

A Rheinhart Kleiner

Casa, come sempre 23 gennaio 1920

Egregio Don Giovanni,
[…] l’erotismo appartiene al più basso ordine di istinti, ed è una caratteristica più animale che davvero nobilmente umana. Quale branca del pensiero è più adatta a un essere umano evoluto – l’apice del progresso organico sulla Terra – di quella che occupa solo e soltanto le sue facoltà superiori? Il selvaggio primordiale o la scimmia si limitano a guardarsi intorno nella loro foresta natia per trovarvi una compagna; l’Ariano evoluto dovrebbe sollevare gli occhi ai mondi superni e riflettere sulla propria relazione con l’infinito!!! …In effetti, suppongo che la mia opinione sia dovuta al semplicissimo fatto che ho la fortuna di possedere un’immaginazione ben più vasta delle mie emozioni. Non ho mai provato il minimo interesse per le romanticherie e gli affetti; mentre il cielo, con la sua storia di eternità passate e a venire, e la sua meravigliosa panoplia di roteanti universi, mi ha sempre affascinato. E, a dire la verità, non è questo l’atteggiamento naturale proprio di una mente analitica? Cos’è mai una ninfa, per quanto belloccia? Carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, una presa o due di fosforo e altri elementi – tutto destinato a corrompersi ben presto. Cos’è, invece, il cosmo? Quali i segreti del tempo, dello spazio, e delle cose che risiedono al di là del tempo e dello spazio? Quali forze sinistre scagliano titanici globi di fiamme attraverso l’etere nero e indifferente, e quali i mondi abitati da insettiformi che aleggiano sopra tali forze? Ecco, ecco, infine, qualcosa degno dell’interesse dell’umanità illuminata!!! Il velo scende dall’alto, tentatore – cosa si trova dall’altra parte? […]

Il V. um. dev. Serv.ore, Theobaldus Fantasticus

Il Gallomo è stato un club epistolare attivo dal 1918 al 1921, i cui membri erano Alfred Galpin (docente presso l’università del Wisconsin, forse il migliore amico di HPL), Maurice Winter Moe (insegnante di inglese che avvicinò hpl al mondo del giornalismo dilettantistico) e lo stesso Lovecraft. Si trattava di una «corrispondenza circolare» in cui ciascun destinatario aggiungeva le proprie osservazioni in coda a quelle del mittente e rispediva a sua volta il plico; il nome del club era un acronimo sillabico composto dai cognomi dei soci. In questa lettera del 1920, Lovecraft ricorda le circostanze in cui, durante l’infanzia, realizzò un diorama con i suoi compagni di giochi.

Al Gallomo

[…] Quand’ero molto piccolo il mio regno era il lotto di terra accanto alla mia casa natale, al numero 454 di Angell Street. […] Il mio villaggio si chiamava New Anvik, nome ispirato all’insediamento di Anvik in Alaska, che conoscevo grazie al libro per ragazzi Snow-Shoes and Sledges di Kirk Munroe. Come vedete, allora leggevo anche roba per fanciulli, oltre ai classici, e mi piaceva! Via via che gli anni volavano, i miei passatempi si facevano sempre più dignitosi; ma in alcun modo potevo abbandonare New Anvik. […] Era il mio capolavoro estetico, dacché, oltre a un piccolo villaggio di capanne dipinte, allestito da Chester e Harold Munroe e dal sottoscritto, c’era un parco, interamente frutto del mio lavoro. […] Sebbene indolente di natura, non ero mai troppo stanco per occuparmi dei miei possedimenti, in estate badando alla vegetazione e in inverno tracciando nitidi sentieri nella neve a forza di pala. Poi, con mio grande orrore, mi accorsi che stavo diventando troppo vecchio per un tale piacere. Il Tempo, impietoso, aveva allungato su di me i suoi artigli, e avevo diciassette anni. I ragazzi grandi non giocano con le casette-giocattolo e coi giardini artificiali, e così fui costretto a cedere il mio mondo a un ragazzo più giovane che viveva un isolato più in là. E da allora non ho più affondato le mani nella terra o scavato strade e sentieri. Troppa malinconia portano con sé tali attività, dal momento che la fuggevole gioia dell’infanzia non può più essere ricatturata. L’età adulta è l’inferno.

Valete,

Lo.

Come risulta da questa lettera rivolta a Moe, Sonia, in visita a Providence, strinse un rapporto di amicizia e complicità con le due zie materne di Lovecraft (la più anziana, Lillian Delora Phillips Clark, si era trasferita al 598 di Angell Street in seguito alla morte della madre dell’autore). Quattro o cinque giorni dopo aver scritto questo divertito resoconto, HPL decide di ricambiare la visita e si reca a Magnolia come ospite di «Madame Greene»: vi resterà una decina di giorni, fino al 5 luglio, facendo talvolta con lei lunghe passeggiate serali fino a Gloucester. Ed è proprio durante una di queste romantiche camminate sul lungomare che lei lo bacia per la prima volta. Sconcertato – così lo descriverà Sonia nelle sue memorie –, HPL le confessa di non essere più stato baciato da quando era piccolo, quasi incapace di distinguere, come un adolescente intimidito, le tenerezze dell’infanzia dalle effusioni degli amanti.

A Maurice Winter Moe

Providence, R.I. 21 giugno 1922

Mio caro Mo,
la tua nuova amica, Madame Greene, si sta godendo la vita mondana dei dintorni. È a Magnolia, Mass. – un posto di mare molto alla moda sulla costa vicino a Gloucester, a un’ora di viaggio da Boston –, allo scopo di fare pubbliche relazioni per la sua ditta; e domenica ha fatto una scappata a Providentia per la serata. Quanto a generosità e a abilità è un demonio – è così attaccata alla mia zia più giovane, la signora Gamwell, che sta provando a convincerla ad andare a N.Y. e a condividere stabilmente il suo domicilio! E, strano a dirsi, mia zia ne è conquistata, sebbene solo molto di rado accetti di superare lo iato sociale e razziale che le divide. Dio mio! In questi giorni di decadenza, persino le vedove danarose si stanno facendo democratiche! Ma che io sia dannato se Madame Greene non è una a posto, dopotutto. Sta facendo del suo meglio per persuadere tutta la maledetta famiglia ad andare a trovarla a Magnolia e, non riuscendovi, insiste perché questo vecchio gentiluomo accetti un invito per una settimana o due a partire dal primo luglio… La scorsa domenica Madame Greene si è presentata a Providence all’una e quarantacinque. La mia zia più giovane e io eravamo alla stazione per accoglierla, ma lei non ci ha visti ed è partita in taxi per una caccia all’anatra fino a casa nostra e ritorno! Quando si è infine manifestata, mia zia l’ha portata a mangiare all’hotel Crown (un posto pessimo come Kleiner’s!) e si è pure presa lo scrupolo di pagare il conto! Di lì in poi si sono susseguiti: una passeggiata a tre fino a casa, una sessione di cinque ore di discorsi a quattro nel corso della quale le tre signore si sono allontanate a tal punto dalla letteratura che il Nonno se ne è tirato fuori e si è fatto un sonnellino come da prerogativa dei gentiluomini, altro cibo (dio!) verso le nove e infine il ritorno a piedi alla stazione con il solo Nonno come guida. Gita che si è conclusa con un sarcofago d’acqua. Il tempo era incerto e Madame Greene aveva preso in prestito un paracqua. A metà strada verso il centro città, gli irrigatori sopra le nostre teste si sono messi in moto e le vele issate. Io non avevo paracqua con me, dacché aborro tali aggeggi come il diavolo. Tutto sarebbe andato per il meglio se l’unica trappola di cui disponevamo fosse stata di solido legno, ma proprio ai piedi della collina – a circa cinquecento metri dalla stazione – il nimbo superno ha preso a scaricare il proprio carico a tutta forza e la maledetta cupola del nostro Pantheon portatile si è scomposta nelle sue molecole di base, come il veicolo non a quadrupedi del vecchio Doc Holmes; e i detriti paracqueschi sono finiti nel primo bidone capitato a tiro. Non ancora del tutto dissolti, i nostri navigatori hanno finalmente raggiunto il porto dieci o quindici minuti prima della partenza; e l’unico modo che ho trovato per convincere Madame Greene a non chiamare un taxi per riportare a casa i miei resti per l’identificazione è stato farle notare che neppure tutte le correnti di Padre Oceano avrebbero potuto inzupparmi più di quanto già non fossi! Il mio cappello di paglia del 1921 e il mio vestito estivo del 1918 erano ormai degni di essere indossati da Tritone, insieme alle alghe cui somigliavano. Madame Greene aveva un soprabito perfettamente adatto, ma quanto al suo cappello… diciamo che è una fortuna che lavori nel campo delle confezioni! Perché quel vaso non dispiegherà mai più i suoi fiori alle dita dell’estate. E mentre me ne stavo tornando verso casa – bada! – quella benedetta pioggia, dato che aveva già dato il peggio di sé, ha smesso! Una visita memorabile, quella di Madame Greene, senza ombra di dubbio: iniziata con un giro in taxi dovuto a un falso allarme e terminata con un’inondazione…

Il tuo devoto,

THEOBALDUS

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