“Dei poteri dell’immagine” (Casa di Marrani) di Louis Marin.
Ultima raccolta di saggi del pensatore francese, l’opera, piuttosto che cercare di risolvere l’aporia riguardante l’essere dell’immagine, ne indaga i modi di rappresentazione in tre aree: i poteri identificanti del soggetto, i poteri genealogici e politici dell’immagine, la trasfigurazione. Pubblichiamo un estratto di “Chiaroscuri: l’immagine fra opacità e trasparenza”, il saggio introduttivo di Francesco Agnellini.
Che cos’è, infatti, l’immagine? Come cogliere l’essere di qualcosa che si definisce essenzialmente come ri-proposizione di qualcos’altro? Sin dall’introduzione, Marin sottolinea esplicitamente l’aporia insita in una simile domanda. Doppia fallacia: o, seppur per via figurata, si identifica davvero l’immagine con l’essere, e di conseguenza la rappresentazione di qualcosa (segno o idea) con l’ente (la cosa rappresentata), finendo per ammettere, «senza preparazione e senza sottigliezze», che “il ritratto di Cesare è Cesare”; o si è costretti alla squalificazione ontologica dell’immagine facendone una mera copia, una semplice illusione, riducendone gli effetti a un abbaglio prodotto dalla rappresentazione o a un ottundimento delle facoltà intellettive, che, invece di far vedere la realtà, o addirittura di svolgere un ruolo essenziale nel definire le virtualità costitutive del reale, acceca – troppa luce! –, offusca – troppa tenebra! –. Ma davvero il ritratto di Cesare non ha niente a che fare con Cesare? E, soprattutto, non potrebbe invece darsi che due linee di tendenza così nette, divise tra la trasparenza dell’immagine e la sua opacità rispetto al modello, non siano anch’esse effetti del potere esercitato dalle immagini?
L’impossibilità di rispondere alla domanda sull’essere dell’immagine nega e conserva la possibilità di circoscrivere un campo unitario d’indagine: nega, perché frammenta il campo nelle innumerevoli reificazioni in cui l’immagine mostra i suoi poteri e produce i suoi effetti; conserva, perché gli effetti e i poteri della rappresentazione conducono, nell’incedere volutamente frammentario di questo libro, alle condizioni trascendentali dell’apparizione e della ricezione dell’immagine, ricondotte da Marin alla differenza originaria, senza cui non può darsi alcuna visione, da cui si effettuano tutte le altre potenze immaginali, cioè alla dialettica fra luce e ombra. Si tratta, però, di un percorso tortuoso, come in un labirinto di specchi, in cui la superficie riflettente su cui si posa lo sguardo non solo ci rimanda la nostra immagine più o meno distorta, ma anche quella degli altri oggetti – e dei loro riflessi! Questo, il destino – nella definizione datane da Hegel ne Lo spirito del Cristianesimo, «la coscienza di sé, ma come nemico» – di chi non pretenda di avere una risposta alla domanda sull’essere dell’immagine, e voglia invece indagarne la natura a partire dagli effetti: questi, il glossatore, è sempre l’ultimo venuto, costretto a perdersi nell’inesauribile molteplicità di sguardi e di glosse di chi lo ha preceduto, dove forse è più facile ravvisare l’istituzione di un potere e l’attuazione di un effetto. Ma per non perdersi in questo caos originario, nella confusa topologia su cui si staglia l’orizzonte utopico (privo di un luogo proprio) dell’immagine, occorre prendere posizione, riconoscere lo spazio che si occupa e uno spazio altro, il proprio tempo e un tempo altro (passato o futuro), facendo interagire fra loro questi spazi, questi tempi. Problema epistemologico non da poco: come fare interagire, ad esempio, un “testo” appartenente al passato e una teoria “contemporanea”, senza che l’uno schiacci l’altra?
Nel tentativo di trovare una soluzione, Marin parte da un’ipotesi: ogni testo (scritto o visuale) storicamente determinato rende esplicito attraverso le sue forme, le sue strutture, i suoi effetti, un metalinguaggio implicito che ne può consentire l’interpretazione, ed è proprio nella prospettiva aperta da questo metalinguaggio che il testo passato e la teoria contemporanea devono interagire. Tuttavia, cosa vuol dire “interagire”? Farli lavorare, applicare una forza (glossarli, cioè ri-leggerli, o ri-scriverli, dove il prefisso “ri”, oltre alla ripetizione, indica un’intensificazione) per produrre uno spostamento, cioè senso e interpretazione. Così, testo passato e teoria contemporanea si trovano «l’uno, fuori dall’alterità della sua storia nell’anacronismo di proposizioni teoriche impensate; l’altra, fuori dal supposto anacronismo delle sue proposizioni e delle sue tesi nella storicità di uno sviluppo virtuale».
Ma, ancora, in che direzione si applica la forza, e dove porta lo spostamento? La via è indicata dalla rappresentazione stessa: riprendendo la teoria dell’enunciazione formulata da Benveniste nei Problemi di linguistica generale, Marin mostra come ogni rappresentazione, nel ri-presentare qualcosa (cioè nella sua pretesa trasparenza, nell’essere luogo di transito e scambi tra presenze e assenze), presenti anche se stessa nell’atto stesso di mostrare (è ciò che Marin definisce opacità, la dimensione riflessiva della rappresentazione). Ogni mostrazione – il mostrarsi nell’atto di mostrare qualcosa – è pertanto metafora di un gesto muto, di un’indicazione: deissi. Il discorso teorico ha allora come compito precipuo quello di far passare – spostare – nel linguaggio questo gesto muto.
Ut pictura poësis? Nient’affatto. Il testo iconico, l’immagine, rende la mostrazione da subito evidente proprio per la sua dimensione ostensiva fondamentale, l’essere cioè costretta a mostrare che sta mostrando, l’autodimostrazione, mentre il testo scritto ha bisogno di un soggetto che enunci gli elementi deittici del discorso. Ma, ancora, è possibile ignorare come non vi sia immagine che non si riferisca a un testo scritto, né testo scritto che non sia attraversato da immagini? Da qui, la scelta di Marin di compiere la propria indagine sui poteri dell’immagine a partire da testi scritti, allo scopo di vedere quali effetti l’immagine produca su di essi grazie all’opera di figure retoriche come l’ekphrasis (la descrizione di un’opera d’arte figurativa all’interno di un testo scritto), e come possano questi testi, che trattano di immagini, tradurle o produrle, come se scrittura e immagine avessero sempre una funzione suppletiva l’una rispetto all’altra, non essendo mai interamente presenti a se stesse. Al di qua di ogni Iconic Turn, l’indagine di Marin poggia dunque sulle reciproche e infinite corrispondenze che immagini, testi, e riscritture di immagini e di testi (glosse, commenti), giocano le une rispetto alle altre, negli infiniti attraversamenti e spostamenti cui sono soggette.
Pertanto Dei poteri dell’immagine può essere letto come una summa dell’indagine conoscitiva mariniana, che nel suo incedere rapsodico esibisce quasi necessariamente i pieni costituiti dalle singole glosse, tutte in rimando reciproco le une rispetto alle altre, e i vuoti che interrompono il discorso, lo frammentano e lo fanno riprendere da un’altra angolazione. Allo stesso tempo, però, quest’opera può costituire un interessante viatico per chi poco conosce il corpus mariniano, perché in esso è facile trovare i principali riferimenti (Pascal, Port-Royal, Rousseau, ecc.) e i temi (divisi dallo stesso Marin in tre macro aree: i poteri identificativi del soggetto, i poteri genealogici e politici dell’immagine, la trasfigurazione) attorno ai quali si definisce il suo erratico percorso intellettuale.
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Ma cosa significa davvero potere dell’immagine? Questa domanda ne implica altre due. Perché e in che modo il potere si appropria della rappresentazione, la fa sua e ne sfrutta i poteri per rappresentarsi? Come il dispositivo rappresentativo, la messa in scena della presentazione, diventa veicolo di potere? Per rispondere a queste domande, nel tentativo di decostruire lo stretto legame che intercorre tra potere e immagine, Marin nota in primis che l’effetto della rappresentazione più precipuo in questo senso è che essa sembra riuscire a produrre una presenza reale/regale a partire da un’assenza. Ma non solo la presenza, sia l’attributo reale che quello regale della presenza vanno intesi come una virtualità dell’immagine, un suo effetto: come se fosse presente e, a partire dal come se della presenza, come se fosse reale, come se fosse regale. Il come se non ha solo la funzione di consentire una riproduzione, ma soprattutto attribuisce il valore di un’intensificazione: nel riproporla, la rappresentazione avvalora la cosa assente.