Quest’anno l’8 marzo non sarà un rituale stantio, sarà una giornata di lotta, di sciopero femminista e globale in oltre quarantanove Paesi.
Le mobilitazioni delle donne che si sono dispiegate in tutto il mondo durante il 2016 e il 2017 si sono date appuntamento comune l’8 marzo. Un nuovo movimento femminista globale si sta organizzando e sta lottando, con la grande aspirazione di parlare al 99% del mondo, a tutte le donne lavoratrici, precarie, sfruttate, lesbiche, trans, migranti. Le donne che si sono mobilitate partendo dalla lettura della violenza maschile sulle donne come elemento strutturale e radicato della nostra società si stanno ora riappropriando – e nel contempo lo stanno reinventando – di uno dei più grandi strumenti a loro disposizione: lo sciopero.
Scioperiamo per rifiutare la violenza sulle donne in tutte le sue forme: oppressione, sfruttamento, razzismo, omo-transfobia. Scioperiamo per affermare la nostra forza, per far valere il nostro peso nella società, interrompendo ogni attività produttiva e riproduttiva. Facciamo sperimentare una “giornata senza di noi”. È uno sciopero politico perché per la prima volta non solo si sciopera dappertutto sullo stesso tema, ma anche perché la mobilitazione segna la presenza decisiva delle donne sulla scena pubblica globale; uno sciopero sociale perché partendo da una soggettività specifica si allargherà ad altre soggettività, ad altri bisogni ed aspettative; uno sciopero sindacale perché a partire dall’articolazione della violenza, intesa anche come violenza sui luoghi di lavoro, disparità salariale, precarietà, ci asterremo dal lavoro; sarà uno sciopero dal lavoro di cura perché astenendoci dai lavori domestici, dal fare la spesa, dal cucinare, dal lavare, dal portare i bambini a scuola, dalla cura degli anziani, facciamo pesare il lavoro gratuito che ogni giorno svolgiamo; scioperiamo per affermare la necessità di welfare, cui spesso il nostro lavoro di cura si sostituisce.
Ma scioperiamo anche per parlare di tutte le forme di violenza che incidono sulle nostre vite e per questo per noi scioperare significa anche presidiare gli ospedali, in cui domina l’obiezione di coscienza, per rivendicare il diritto all’aborto legale e assistito. Per tutti questi motivi rivendichiamo lo sciopero come pratica femminista e ci impegniamo anche a reinventare le forme stesse dello sciopero. Anche in Italia Non una di meno, ricollegandosi ai movimenti mondiali, si pone una sfida ambiziosa: sottrarre le nostre vite da ogni forma di violenza, perché “se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo” e faremo sentire tutta la nostra forza. L’8 marzo sarà il primo giorno della nostra vita, come dicono le argentine, ed il 2017 sarà l’anno della nostra rivoluzione.
Ecco un estratto dal capitolo Verso un nuovo universalismo insorgente e femminista dal volume di Cinzia Arruzza e Lidia Cirillo, Storia delle storie del femminismo, Alegre, 2017. Potete leggerne la prefazione, scritta da Tatiana Montella, a questo link.
Il femminismo marxista […] può offrire al femminismo intersezionale una base per ripensare l’universalismo in termini inclusivi, dinamici e autotrasformativi. Per quanto in passato le politiche universalistiche si siano per lo più fondate su un’idea di natura umana condivisa, ad esempio su un’idea di uguaglianza naturale o di diritti umani a cui si ha diritto in quanto uguali, o – nel caso del femminismo – sull’idea di un femminile condiviso, di una natura delle donne concepita in termini di differenza dal maschile, ciò non vuol dire che questo sia l’unico modo di fondare un orizzonte politico universalistico. La ricerca di un fondamento metafisico dell’universalismo in una presunta essenza condivisa, infatti, se, da un lato, ha motivato e ispirato importantissime lotte di liberazione ed emancipazione, dall’altro ha anche prodotto mostri. Per due secoli, dopo la dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, si è potuto continuare a non includere non-bianchi e donne in questa conquista di diritti, proprio in virtù di una mancata inclusione di questi soggetti in questo presunto universale “umano”.
Un approccio marxista alla questione dell’oppressione delle donne può aiutare a superare questa impasse, in quanto esso parte non tanto dall’analisi di esperienze analoghe e condivise da tutte le donne o dalla concettualizzazione di una donna “universale” come base della solidarietà femminista, quanto dall’analisi degli effetti del capitalismo dal punto di vista della possibilità di liberazione e piena autodeterminazione delle donne, vale a dire dei limiti che esso pone alla realizzazione di una società in cui il genere o l’orientamento sessuale non siano più fonte di gerarchie sociali e discriminazione. L’individuazione dei meccanismi fondamentali dell’accumulazione capitalista permette di identificare i fenomeni e le relazioni sociali che connettono le varie forme di oppressione pur nella diversità delle esperienze vissute. Ciò ci conduce a quella che Etienne Balibar ha chiamato “universalità reale”. Contrariamente all’universalità fittizia, ad esempio, dello Stato nazione o delle comunità religiose, che abolisce simbolicamente le differenze interne a un gruppo in virtù e ai fini della piena identificazione come membro del gruppo (“italiano”, “cristiano”, “musulmano”), l’universalità reale indica quell’interdipendenza reale, concreta, tra le varie unità che chiamiamo “mondo”. Si tratta di un’interdipendenza sia estensiva sia intensiva, in quanto si estende progressivamente a tutte le parti del mondo e investe progressivamente aspetti sempre più numerosi della vita di queste unità costitutive. Adottare la categoria di “universalità reale” ci consente di riconoscere nel capitalismo una forza universalizzante, vale a dire la forza che ha storicamente creato questa interdipendenza.
Il potere di universalizzazione del capitalismo è ciò che può essere assunto come base per una politica femminista universalistica che sia al contempo di classe e antirazzista. L’accumulazione capitalista produce o contribuisce a produrre varie forme di gerarchia sociale e oppressione, inclusa l’oppressione eterosessista, come sue conseguenze inevitabili. Essa pone dei vincoli e degli ostacoli che determinano in ampia misura tutte le altre forme di rapporto sociale. Per quanto fenomeni di espropriazione, di creazione di una natura capitalista, di universalizzazione della forma salario, di privatizzazione e mercificazione delle attività, del lavoro e delle istituzioni investiti nella riproduzione sociale producano un certo grado di omogeneizzazione, questi fenomeni sono accompagnati anche dalla tendenza opposta, quella della creazione di differenze sociali e nuove forme d’ineguaglianza, anche all’interno della classe. Entrambi i fenomeni, tuttavia, sono una conseguenza della logica dell’accumulazione capitalista. […]
Dunque, l’effetto universalizzante del capitale, questa tendenza a costituire totalità non vanno intesi nel senso che il capitalismo omogeneizzerebbe le condizioni di vita attraverso aree geografiche e strati sociali, rendendole tutte uguali e tutte equiparabili. Ma piuttosto nel senso che il capitalismo espone la sfera della riproduzione sociale e di conseguenza tutte le donne appartenenti alla classe lavoratrice, che siano disoccupate, precarie, o impiegate stabilmente, alle esigenze e alle conseguenze dell’accumulazione capitalista, per quanto gli effetti possano diversificarsi.
Il capitalismo come universalità reale, o meglio l’opposizione al capitalismo, può dunque diventare non una base meramente morale per alleanze estrinseche, quanto piuttosto una base reale per una piena solidarietà politica e delle lotte sociali, alla luce della condivisione di un medesimo obiettivo, dettato dal medesimo bisogno e desiderio: superare il capitalismo in direzione di una società più giusta e al fine di rendere la liberazione delle donne possibile. Proprio perché questa solidarietà e unità non richiedono la creazione di un mito fondatore attraverso l’idealizzazione di un’essenza comune e originaria, ma si basano sulla consapevolezza e l’analisi dei diversi modi in cui il capitalismo impatta sulle nostre vite e le costituisce almeno in parte, esse non richiedono nemmeno di ignorare differenze di status, di esposizione all’oppressione, o di condizioni di vita. Al contrario, richiedono di partire precisamente dalla consapevolezza insieme di ciò che ci unisce e di ciò che ci differenzia e di articolare una politica femminista in grado di tenere in conto queste differenze interne sia nei discorsi, che nei programmi, negli obiettivi di lotta e nelle forme organizzative. Vorrei chiamare questa forma di universalismo politico “universalismo insorgente”.