Lotta armata e violenza politica a Genova: le radici di un tempo recente

Lotta armata, violenza politica, terrorismo. La storia degli anni Settanta in Italia porta con sé una serie di concetti, parole e significati che è necessario storicizzare. Davide Serafino affronta la storia della lotta armata a Genova sin dalle azioni del primo gruppo costituitosi nel 1969, il XX ottobre, e prosegue con la costituzione della colonna genovese e le azioni delle Brigate Rosse fino al 1981. Di seguito una riflessione – attraverso il libro – sui rapporti tra storia e violenza politica.

Sulla copertina del libro di Davide Serafino, La lotta armata a Genova. Dal Gruppo 22 ottobre alle Brigate Rosse, uscito per i tipi di Pacini Editore, campeggia la fotografia di un uomo accasciato in mezzo alla strada, accanto a una Lambretta con a bordo il guidatore e un passeggero che punta una pistola contro la persona a terra. È una foto famosa, scattata per caso a Genova da un fotografo che immortalò dalla finestra di casa sua la sequenza di una rapina finita in tragedia, con l’uccisione del giovane fattorino, Alessandro Floris, per mano di uno dei rapinatori, Mario Rossi, leader della XXII Ottobre, il primo fenomeno di lotta armata in Italia, che fa la sua comparsa già nel 1969.

Nei dodici anni seguenti, fino alla fine del 1981, quando gli ultimi brigatisti operanti in città vengono tratti in arresto dalle forze dell’ordine, Genova è pesantemente investita dal fenomeno della violenza politica organizzata. Assumendo i tratti di un laboratorio sperimentale della lotta armata, infatti, quella della XXII Ottobre non è l’unica “prima volta” genovese: qui, con il rapimento del giudice Mario Sossi, si svolge il primo capitolo di quell’attacco al cuore dello Stato culminato nella tragica vicenda di Aldo Moro e viene perpetrato il primo omicidio politico pianificato dalle Br che ha come vittima il Procuratore generale di Genova Francesco Coco.

La XXII Ottobre riveste un particolare interesse quale fenomeno anticipatorio e caso unico nel suo genere, espressione, alquanto confusa dal punto di vista politico, di un ideale di giustizia sociale cui si mescolano desideri di personale riscatto economico. Ma sono sicuramente le Brigate Rosse le protagoniste di questa cruenta stagione vissuta dalla città; l’organizzazione brigatista – che compare quando ormai la meteora della XXII Ottobre è tramontata, raccogliendone in un certo senso il testimone proprio attraverso il rapimento di Sossi – egemonizza incontrastata l’area della lotta armata che a Genova è composta, oltre che dalle Br, da pochi effimeri gruppi che gravitano nell’orbita dell’organizzazione maggiore.

Nel 1975 nasce la colonna genovese vera e propria, un’articolazione delle Br attiva nel capoluogo ligure, composta prevalentemente di persone del posto e che opera, pur all’interno delle cosiddette campagne decise a livello nazionale, su obiettivi locali, scelti in relativa autonomia. Le Brigate Rosse genovesi presentano alcune particolarità che le distinguono da quelle operanti in altre realtà italiane, ovvero Milano, Torino, Napoli, Roma, il Veneto. La prima di queste caratteristiche è un esasperato militarismo, che determina una sproporzione tra l’elaborazione teorica esigua e un numero elevato di azioni di fuoco; si tratta di uno squilibrio tipico delle Br in generale, ma che la colonna genovese porta all’estremo, guadagnandosi fama di particolare durezza e capacità militare. La seconda è l’operaismo radicale: la fabbrica costituisce l’orizzonte ideale del brigatismo genovese, anche quando ormai la prospettiva nazionale ha posto al centro l’attacco al cuore dello Stato e il desiderio mai sopito di conquistare la classe operaia porta ad uno scontro frontale con il Pci e il sindacato; scontro in cui resterà vittime, tragicamente e paradossalmente, proprio un operaio comunista, Guido Rossa.

Si parla di Brigate Rosse, di lotta armata, quindi, ma lo si fa raccontando la storia di una realtà precisa e delimitata, secondo un approccio territoriale, sovente auspicato ma raramente frequentato dagli storici che si avvicinano a questo tema; eppure esso si rivela assai fecondo, perché la ricostruzione di una realtà precisa e circoscritta riporta a un’attenzione alla dimensione fattuale spesso negletta. Siamo infatti, ormai, di fronte a un panorama ricco e articolato e, volendo azzardare un bilancio storiografico, si è tentati di affermare che almeno sul versante della storia politica si è raggiunto un livello di conoscenza del fenomeno piuttosto approfondito, sebbene sia condivisibile il giudizio secondo cui è ancora poco sviluppata una ricerca sul tema che si soffermi sugli aspetti concreti dell’esperienza e i suoi legami con il contesto storico in cui matura, giudizio ben espresso da Betta in queste righe: « [che] la ricerca storica abbia indagato la violenza politica privilegiando la sua dimensione culturale e politica, guardando alle sue genealogie e rappresentazioni ideologiche, interrogandola quasi di più dal punto di vista teorico-politico e di produzione discorsiva, mentre il versante materiale e concreto dei diversi contesti territoriali, delle reti di relazione, dell’appartenenza sociale degli attori che hanno agito e subito questa esperienza è stato posto su un piano secondario».

Inoltre, nel caso delle Brigate Rosse, focalizzare l’attenzione sulle articolazioni periferiche consente di superare quell’immagine monolitica e verticistica che è stata tramandata nel tempo – in primo luogo dalle Br stesse – e di abbandonare, di conseguenza, le categorie interpretative dell’estraneità e dell’inconoscibilità che a lungo hanno dominato, ostacolando la comprensione del fenomeno.

A partire da questo punto di vista felicemente eccentrico, si dipana la narrazione di una storia e dei suoi protagonisti, di una città e di un tempo meno lontano di quanto possa sembrare: si pensi a temi come il terrorismo e i suoi effetti sulla popolazione, la confusione tra civili e combattenti tipica di situazioni di petite guerre, il dibattito della società civile che si polarizza nell’opposizione del partito che privilegia la sicurezza, anche a scapito del diritto a quello che ritiene irrinunciabili le garanzie democratiche.

Serafino attraverso l’uso di una grande quantità di fonti ricostruisce con accuratezza un quadro scrupolosamente documentato e molto ricco, non concentrandosi esclusivamente sulla storia della lotta armata, ma volgendo un più ampio sguardo al contesto in cui essa si manifesta, vale a dire alla città, con i tanti attori sociali e politici che, con ruoli diversi, si muovono sulla scena: esponenti delle istituzioni e dei partiti, militanti di movimenti, forze dell’ordine, magistrati e avvocati, membri delle bande armate e loro vittime. E attraverso l’esame di questo quadro, della specificità di un luogo, vengono affrontate le principali questioni storiografiche e i nodi interpretativi più discussi relativi alla violenza politica degli anni Settanta. Non siamo quindi di fronte a un’opera di storia locale, alla ricostruzione calligrafica di un particolare territorio, ma a un vero lavoro di microstoria, in cui il fuoco stretto sulla singolarità di un case study permette di utilizzarlo come prisma per riflettere proficuamente su questioni generali.

Quello della violenza politica negli anni Settanta è un tema che, per le implicazioni politiche, ideologiche, morali, luttuose che comporta, sovente suscita passioni e rivendicazioni, provoca irrigidimenti, reticenze, strabismi e silenzi, turba gli animi e le coscienze. Proprio questa alta tensione emotiva ha a lungo ostacolato una ponderata riflessione storica, soprattutto da parte di persone vicine, per ragioni anagrafiche, agli avvenimenti. Sebbene oggi ci troviamo di fronte ad una nuova stagione di studi che, in virtù del cambio generazionale, delle nuove fonti a disposizione, della caduta delle vecchie gabbie ideologiche e di una maggiore attenzione al contesto internazionale, sembra essersi affrancata da paradigmi interpretativi datati e fortemente influenzati dal punto di vista soggettivo degli attori coinvolti, non è comunque molto frequente imbattersi in un’analisi così equilibrata, in cui il necessario distacco non esclude quella passione civile che fa sì che un libro di storia riesca ad attualizzarsi diventando anche uno strumento di interpretazione del mondo contemporaneo.

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