Chandler e Los Angeles, secondo Jameson

Su “Raymond Chandler. L’indagine della totalità” di Fredric Jameson.

Chandler Jameson

 

Los Angeles non esisterebbe senza Raymond Chandler. Lui ci era arrivato negli anni Venti, quando Hollywood era poca cosa e il territorio pullulava di pozzi di petrolio, infatti lavorava nel campo petrolifero. Poi con la grande crisi perse il lavoro e cominciò a dedicarsi alla scrittura, dissezionando e ricomponendo pezzo per pezzo ogni singolo elemento del genere poliziesco fino a produrre un pugno di romanzi che lo hanno trasformato in qualcosa di radicalmente altro. 

Non solo alta letteratura, opere che continuano a essere oggetto di culto tra lettori di ogni specie, ma anche un immaginario urbano imperituro, impossibile da aggirare, che ha cambiato i connotati di una città ormai difficile da percepire senza il suo filtro.

Certo, gli architetti amano riferirsi alle quattro ecologie di Los Angeles di Banham, altri preferiscono citare i classici di Pynchon o i film di David Lynch, ma anche questi non esisterebbero senza Chandler, senza il moto incessante di Philip Marlowe tra Hollywood e Santa Monica, le colline dei ricchi e le bettole dei neri in Central Avenue. LA poteva diventare una pura plasticosa espansione di Hollywood circondata da un’anonima villettopoli alla San Diego, invece ha incarnato una tipologia urbana diversa da tutte le altre – inquietante, antipittoresca e complessa, inafferrabile come unità.

Non è un caso che Frederic Jameson, l’autore di Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, forse il più grande critico letterario vivente, abbia consacrato anni di studi a Chandler, in una serie di saggi recentemente rielaborati in un’unica raccolta pubblicata da Verso: Raymond Chandler. Detections in Totality (2016) e tradotto in Italia da Cronopio come Raymond Chandler. L’indagine della totalità, a cura di Giuseppe Episcopo.

Non si tratta di un libro facile, lineare, proprio per la sua natura originariamente frammentaria. La struttura in apparenza tripartita in capitoli ordinati è piena di anacronismi, salti logici, deviazioni. All’inizio si rimane spiazzati, ad esempio, da giudizi en passant come «L’ultimo grande periodo della letteratura americana, che va da una guerra all’altra»: ma quello che nel 2016 suona assurdo nel 1970 forse era ancora plausibile, quando Pynchon era un fenomeno isolato e Roth aveva pubblicato poco più del Lamento di Portnoy.

Come testimonia una nota nelle prime pagine, Jameson ha scelto di lasciare visibile la patina del tempo: «Questi riferimenti non più così in voga dipendono dal fatto che il presente testo – chiamiamolo stereoscopico anziché sinottico – è la sintesi di diverse indagini su Chandler sviluppate negli ultimi decenni».

Quello che Jameson esibisce con disinvoltura è il ritorno ossessivo su un corpus di opere, un’analisi infinita e mai conclusa, un confronto ripetuto per mezzo di strumenti e occhi diversi, che è poi la sostanza del lavoro critico. Ma in questo caso specifico è anche più interessante, perché è un rispecchiamento dell’oggetto del saggio, una specie di mise en abyme:

Che il romanzo poliziesco abbia rappresentato per Raymond Chandler molto più di un mero prodotto commerciale, confezionato ai fini dell’intrattenimento popolare, lo si può comprendere col considerare che vi sia giunto in tarda età, al termine di una carriera lunga e di successo nel mondo degli affari. Chandler pubblicò il suo primo e più importante romanzo, Il grande sonno, nel 1939, quando aveva cinquant’anni e dopo averne studiato la forma per almeno un decennio. I racconti pubblicati in quell’arco di tempo sono, per la maggior parte, lavori preparatori, episodi che avrebbe ripreso integralmente inserendoli in veste di capitoli all’interno di una forma più lunga. Aveva sviluppato la sua tecnica imitando e rielaborando i modelli messi a punto da altri autori di romanzi polizieschi: si trattò di un apprendistato intenzionale e cosciente, condotto in un periodo della vita nel quale la maggior parte degli scrittori ha già trovato la propria strada.

Secondo Jameson, il miracolo compiuto da Chandler, l’alchimia che gli ha consentito di generare queste opere che trascendono gli angusti limiti del genere trasfigurandolo in opere di altissima intensità estetica, dipende dalla estrema formalizzazione della lingua – di fatto un nuovo perfetto conio, un lavoro di creazione flaubertiana, che non ha nulla di naturale, anche perché Chandler era cresciuto in Inghilterra e non aveva alcuna familiarità con lo slang californiano – e dalla resa della struttura frammentaria della stessa società americana, in particolare dello spazio di Los Angeles, che ne rappresenta una metafora perfetta.

Nel solo primo capitolo, significativamente intitolato Il gioco delle tre carte, Jameson mostra come la scrittura di Chandler boicotti la trama, depistando il lettore dal classico gioco logico del cogliere i segni della soluzione del mistero e ipnotizzandolo con la descrizione di una città-puzzle, penetrata nei suoi recessi più nascosti, o più insignificanti, dal detective-picaro Marlowe.

Poi mette a confronto la tradizione letteraria europea con quella americana, facendone soprattutto una questione di libertà e ponendo Chandler in uno spazio intermedio tra le due:

La letteratura europea è metafisica o formalistica perché dà per scontata la natura della società, della nazione, e procede al di là di queste. La letteratura americana non sembra mai andare oltre la definizione del suo punto di partenza: qualsiasi immagine dell’America è destinata a essere avvolta da una domanda e da un assunto sulla natura della realtà americana. La letteratura europea può scegliere il suo oggetto e l’ampiezza della lente; la letteratura americana si sente obbligata a mettere dentro tutto, sapendo che anche l’esclusione è parte del processo di definizione e che può essere chiamata a rendere conto tanto di ciò che essa non dice quanto di quello che dice.

Poi passa a tracciare un profilo del tipo di paesaggio umano e urbano descritto nei romanzi, sospeso tra anonimia e segreto, luoghi insignificanti o inaccessibili, celati perché custodi di forme di potere losche o lecite, o entrambe. Ne spiega il contenuto intellettuale, inteso come il rovescio dell’astratta illusione americana che alle singole amministrazioni locali corrotte faccia da argine l’unificatore governo federale, espressione di una politica onesta e ideale: mentre l’universo chandleriano è fatto di atomi abbandonati a se stessi, per un momento effimero collegati dal detective, ma non classificabili, non individuabili come appartenenti a categorie professionali. Poi fa un excursus sul fascino nostalgico dei libri di Chandler, popolati da classi di oggetti camp, come qualche anno più tardi succederà alla Pop Art. Infine si addentra nello sdoppiamento formale dei romanzi, costruiti su un motivo legato al delitto e su una serie di indagini secondarie che a poco a poco svuotano, demistificano il senso stesso dell’evento principale, così come della violenza che lo ha investito, «sostituiscono un’esperienza dello spazio con quella della temporalità della soluzione».

E qui si arriva al grande nocciolo della critica di Jameson, la mappatura dello spazio, sviluppata furiosamente nel secondo capitolo con analisi di ogni tipo, mobilitando persino un temibile quadrato di Greimas. Un dispiegamento di forze spumeggiante, luminoso, che punta a chiarire un aspetto fondamentale: se i romanzi sono collage di episodi, ruotanti attorno alla forma del colloquio, del dialogo tra due persone (anche quando sono presenti terzi sono generalmente silenti), e in essi il contesto architettonico, l’ambiente, fa corpo con lo scambio verbale, il procedimento di Chandler non ha però nulla a che vedere con il realismo balzachiano, con quella forma di naturalizzazione che faceva del mondo oggettuale, delle abitazioni, un segnale metonimico, una specie di esoscheletro prodotto da una determinata specie sociale.

In Chandler è presente una fondamentale distanza tra lo spazio umano e abitativo e la natura della California meridionale e di Los Angeles, che appartengono al regno artificiale.

I personaggi non sono consustanziali agli spazi, ma li abitano: i ricchi, che non sono veri e propri capitalisti, abitano gli spazi arredati alla moda, descritti con competenza mondana, separati dal resto della città da alti recinti e lunghi viali; i poveri, che non appartengono mai alla classe lavoratrice ma piuttosto «a quella che oggi definiremmo disagiata», reietti, marginali, ubriaconi, abitano villette polverose e appartamenti pieni di oggetti anonimi e logori; Marlowe, insieme ad altri tipi di esperti-consulenti dei ricchi, abita in uffici-case, mentre i gigolò, i mezzani di vario tipo, i mafiosi, abitano in case che fungono anche da ufficio.

E così, dopo averci vorticosamente trascinato nei meandri di questo panorama letterario a un ritmo incalzante, Jameson d’un tratto ci tradisce con una critica allo strutturalismo e ai suoi limiti, che implicitamente impongono un valore estetico alla “chiusura” del sistema formale. Con un colpo di scena si rivolge all’Heidegger dell’Origine dell’opera d’arte, e alla sua teorizzazione della distanza tra Mondo e Terra, tra società e materia, per rendere conto del valore estetico del dualismo chandleriano.

Un dualismo che alla fine del libro Jameson riconduce alla negazione assoluta, alla morte, che «è in Chandler qualcosa di simile a un concetto spaziale. […] Questa apertura sul non-mondo, sul suo margine estremo e sulla sua fine, verso il vuoto, verso lo spazio non umano, verso la morte, è il segreto ultimo della narrativa di Chandler. Perché il dato finale, nella caratteristica forma chandleriana, è che il crimine di partenza è sempre vecchio, giace mezzo dimenticato nel passato dei personaggi prima che il libro abbia inizio».

 

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