Recensione a “Lontano dagli occhi” di Paolo Di Paolo (Feltrinelli 2019).

Siamo all’inizio degli anni Ottanta, con precisione la primavera del 1983, il mondo sta cambiando rotta e presto le categorie dell’intero Novecento svaniranno, mentre attorno il capitalismo inizia a mostrare la sua vorticosa irrequietezza; siamo a Roma, una città simbolo di una storia millenaria che segue il cambiamento portandosi dietro le rovine di un impero; siamo dentro tre storie di donne che affrontano il delicato passaggio di una gravidanza, gli ultimi mesi di una condizione accidentale e indesiderata, frutto acerbo di combinazioni inaccettabili e al limite di un futuro fosco in cui traspare una continua sensazione di pericolo. Le tre donne che animano “Lontano dagli occhi” di Paolo Di Paolo (Feltrinelli 2019), freschissimo vincitore del Premio Viareggio Rèpaci 2020, sono di fronte a una trasformazione che cambierà per sempre la loro vita. Saranno capaci di affrontarla? Sarà capace chi è loro accanto?
La prima storia è quella di Luciana che appare nella redazione polverosa di un giornale, mentre ascolta il suono infinito del ticchettio della macchina da scrivere; ha spesso l’espressione triste, è nervosa per una gravidanza imprevista, resa amara dall’assenza di quell’uomo, l’Irlandese, al suo fianco. Di lui restano solo un ricordo i sorrisi e i baci lungo Via Nomentana dopo un concerto d’arpa celtica, un viaggio in treno e un accendino, scambiato in una fiamma appena, come l’amore. In Luciana, incapace di accettare la presenza mite di Ettore che la ama e vorrebbe aiutarla, c’è la speranza di vederlo tornare, non vuole darsi pace, dice a sé stessa che non è il caso ma in cuor suo aspetta e si lascia prendere da sensi di colpa che le impediscono una reazione.
La seconda storia è quella di Valentina, il cui volto appare di notte, lungo una fuga progettata nell’oscurità, senza sapere dove andare come quando si fugge da qualcosa che invece ci viaggia dentro, con una colpa non capita da nascondere e troppi silenzi: dai genitori che hanno come preoccupazione l’apparenza della macchia, da Ermes che non ha voluto più vedere; la troppo giovane donna è come paralizzata in un paesaggio sterminato – di malelingue e di vergogna, di desideri strozzati e di inconvenienti – troppo più grande di lei. Molte immagini le si allargano attorno: Craxi e De Mita litigano nella tv di una casa, la Roma ha vinto lo scudetto e in quella notte si fa baldoria, Piazza Esedra è un tripudio di colori, ma né lei né Ermes riescono a far festa, c’è qualcosa andato oltre i baci nei corridoi di scuola o lì al binario 1 della Stazione Roma Ostiense, un segreto che non si dicono neanche tra di loro.
La terza storia è quella di Cecilia, una ragazza che vive in strada e non sembra avere prospettive oltre il qui e ora, abituata a non restare mai e adesso però c’è qualcosa – un figlio in arrivo – che la inchioda al tempo e allo spazio; Gaetano, che ne sarà il padre, lavora in una tavola calda di Via Taranto, nel tempo libero legge Diabolik e ascolta Renato Zero e Lucio Dalla, vorrebbe pure far qualcosa ma non saprebbe da che parte cominciare. Cecilia, mezza punk e mezza mendicante con il caschetto rosa e il cane, è sfuggente, non si occupa mai del futuro perché è fatta così, porta in grembo un figlio suo e lui non si sente padre, non si sente marito, non si sente niente.
La città tutta intorno è come un altro personaggio, un organismo vivente che avvolge le tre donne con il buio delle sue notti, piene di incertezze e sogni traditi, speranze messe via come un vestito fuori stagione, è un corpo pulsante come il cuore di queste tre vite nuove che stanno per diventarne abitanti. I luoghi di Roma, le vie malcerte del loro stare al mondo, restituiscono ai protagonisti la vibrazione di un’epoca che traspare nelle parole di Di Paolo con setosa nostalgia. Per questo affondo in un passato troppo recente per dotarsi di artifici, “Lontano dagli occhi” è un romanzo magnetico e desolato, che affonda nel tempo per recuperarne frammenti come da una fotografia strappata e che ora nessuno sa ricostruire; non si vedono i contorni, non si vede il paesaggio, non c’è giustizia e redenzione alle parole che i personaggi ritratti avrebbero o hanno potuto pronunciare. Di Paolo riesce nella sfida più difficile di raccontare il femminile nella dimensione più intima, la gravidanza, esplorando il ruolo di madre nel momento esatto in cui si matura la responsabilità di diventare tale. Là dove l’autore dipinge, con tratti mai vaporosi ma sempre concreti, le tre vicende emerse da uno spaccato epocale, esplicita in realtà una triste comunione con il destino anche attuale di molte donne e uomini, privo di un connotato temporale.
La scrittura di Di Paolo si situa in continuità con una tradizione narrativa di grande rilievo, il suo stile sviluppa il materiale del racconto assimilando dal contesto epocale degli anni Ottanta via via i colori, gli oggetti, le sensazioni, le occorrenze entro cui integrare le proprie storie immaginifiche, veri e propri scrigni narrativi in cui scorgere un nodo dialettico decisivo che riguarda il mistero della nascita e la stratificazione dell’appartenenza.
Il testo sviluppa una forte autonomia di linguaggio, ricercato e maturato fin dalle prime opere dell’autore con progressivo vitalità: l’intimità dell’io che in Raccontami la notte in cui sono nato (2008) affrontava delicati momenti di crescita e già indagava le radici più oscure dell’esistenza, ha lasciato gradualmente il campo a una narrazione in apparenza più rarefatta ma che guadagna in ampiezza di sguardo e in profondità, basculante tra la terza persona di Mandami tanta vita (2013), con il quale Di Paolo aveva già sperimentato un’ambientazione storica e la seconda, confidenziale, del più contemporaneo Una storia quasi solo d’amore (2016).
Ma, tra le maglie di una narrazione fortemente intenzionale, non è raro rintracciare una particolare vocazione letteraria, capace di porre l’opera in dialogo con importanti autori del Novecento, così da ravvisare tra le parole dell’autore quella attenzione agli snodi narrativi che è in Italo Calvino, quella limpidezza dialogica che è nel giovane Cesare Pavese, così come la cura particolareggiata alla descrizione di Natalia Ginzburg o la partecipazione assertiva e concreta di Giuseppe Pontiggia.
«Nessuno ti dà il libretto delle istruzioni».
Lo dice un personaggio secondario, come spesso accade è nelle parole in apparenza minori che sta tutta la densità di un romanzo. Lo dice qualcuno che nemmeno appare, come fosse un lettore, come fosse l’autore da fuori che abbia indulgenza per i protagonisti. Perché certo, è vero, si tratta di finzione, ma la vita è uguale a quella fuori e no, nessuno sa come si diventa padre oppure madre. Di Paolo innerva nella narrazione in terza persona l’esigenza crescente di una prima persona – che puntualmente arriva quando nessuno più l’aspettava – inevitabile ed esatta, così intersecando le vicende con un dosaggio cadenzato delle informazioni. La sua scrittura tocca note dolenti, talvolta struggenti e piene d’un amore caldo e coinvolto, affonda dentro tre storie perché siano riverbero delle paure e delle ipocrisie che una società porta nella propria evoluzione, come residui fissi che non hanno sviluppo né soluzione, replicano in epoche diverse ciò che ci rende responsabili della vita che nasce e di quella che muore. Perché in fondo a tutto, alle storie e alle occasioni, c’è il bambino che non ha colpe se non quella di iniziare, quel giorno, la propria avventura da essere umano. Sarà un uomo o una donna migliore o peggiore? Saprà affrontare le prove di una vita? Per ora è al mondo, piange e ride come tutti, qualunque futuro abbia in sorte.
