Lo sguardo plurale

Alcuni estratti dall’introduzione de “Lo sguardo plurale” di Santos Zunzunegui.

Il volume è appena uscito per Bulzoni all’interno della collana “Cinemaespanso” ed è curato da Maria Cristina Addis.

La fine dell’età dell’oro

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La perdita di influenza del cinema – da molto tempo surclassato prima dalla televisione e poi dal World Wide Web quale mezzo privi­legiato di (de)formazione delle coscienze – è stata per molto tempo l’oggetto principale dei discorsi di buona parte degli studiosi del set­tore. Osserviamo di sfuggita che tale lamentela è lecita solo da una prospettiva che tende a confondere cinema e audiovisivo […]. Se invece partiamo dal presupposto che ciò che distingue l’arte singolare del cinema dall’oceano indifferenziato dell’audiovisivo è la resistenza agli schemi sot­tesi al “territorio dell’oblio e della ripetizione” – come lo ha definito Pascal Bonitzer – in cui si muovono i mezzi audiovisivi di massa, la questione assume una piega molto diversa. È quest’ultima, e solo questa, la prospettiva che informa le pagine che seguono.

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Un circolo vizioso?

L’alterazione dello statuto tradizionale del cinema colloca i cineasti più consape­voli di fronte alla sfida di una radicale sostituzione del valore d’uso delle immagini cinematografiche con un mero valore di scambio. In altre parole, e sotto forma di inventario non esaustivo di interroga­tivi: Cosa significa fare cinema oggi? Cosa implica la creazione ci­nematografica in un contesto di perdita diffusa dei punti di riferi­mento che hanno definito storicamente la pratica filmica? Cosa fare per restituire al cinema un terreno d’azione specifico, ed evitare che il mondo dell’audiovisivo, con il quale è pur sempre necessario fare i conti, ne fagociti la singolarità? Le domande sono di certo nume­rose, ma come vedremo, le risposte devono ancora delinearsi.

Così lontani, così vicini

In un testo memorabile del 1983, Serge Daney ha tracciato un’ipotetica periodizzazione della storia del cinema articolata in tre grandi momenti.[1] Il primo, quello del cinema classico, incarna il fan­tasma di un’età dell’oro in cui l’arte cinematografica si dispiega nell’Eden della propria ingenua interrogazione – “cosa c’è da vedere in un’immagine?” – e in cui lo spettatore è invitato a confrontarsi con una scenografia che ricostruisce, con nuovi mezzi, la vecchia idea della “finestra aperta sul mondo”. Come disse Gilles Deleuze [2] parafrasando Daney, il cinema dell’epoca classica è quello della costituzione di una vera e propria “enciclopedia del mondo”.

Il secondo momento è quello segnato dall’emergere della co­scienza che il cinema è una pura arte dell’immagine, ovvero del fatto che, come diceva Godard, ciò che ci interpella dagli schermi bianchi del cinema non è “un’immagine giusta, ma giusto un’immagine”. Momento di perdita dell’innocenza dunque, di rivela­zione del carattere non naturale ma costruito dello spettacolo cine­matografico, incontro con la dimensione linguistica del cinema, sostituzione dell’“enciclopedia del mondo” con la “pedagogia della percezione” (Deleuze). Si tratta del periodo che si apre agli inizi de­gli anni Sessanta del secolo scorso, si stabilizza nei movimenti che ruotano attorno alla fucina del maggio 1968[3] e che prosegue lungo gli anni Settanta con la volontà, progressivamente indebolita, di co­struire un’alternativa politica a ciò che allora veniva definito il ci­nema dominante. Nonostante tale slancio, segno dei tempi, sia ra­pidamente scemato sotto la morsa del calo di popolarità da un lato e di uno sperimentalismo fuori controllo dall’altro, gli insegnamenti che ci ha lasciato possono ancora dimostrarsi utili.

Infine, il momento attuale, nel quale non si tratta più di vedere ciò che l’immagine mostra, né, tanto meno, di vedere l’immagine, quanto di riconoscere che sotto ogni immagine ce n’è un’altra, che tro­viamo dopo un’infinita giostra di sostituzioni vertiginose, a conferma di un regime di radicale sostituibilità e indifferenziazione: è il regno dell’immagine qualunque, dell’audiovisivo, all’interno del quale il ci­nema trova il proprio posto esclusivamente come puro deposito di immagini, riserva inesauribile di gesti e attitudini, storie e narrazioni, in una parola di immaginario. Naturalmente quest’ultimo momento riguarda principalmente la televisione e la sua rivisitazione inconsulta del pantheon del cinema, ma anche la pratica cinematografica di tutti quei cineasti che sognano di mettere in moto una macchina più si­mile a un treno elettrico che a un’arte destinata a offrire ai propri contemporanei l’incontro con i momenti più decisivi dell’esperienza umana. Si è parlato di postmodernismo, di manierismo. Sono formule, etichette, che lasciano il tempo che trovano. Da parte mia preferisco parlare, con Deleuze, di vera e propria “formazione professionale dell’occhio”.

Come continuare?

Perché chiamare in causa una simile segmentazione della storia del cinema? Perché mi pare che consenta di cogliere chiaramente non solo dove ci troviamo ma anche da dove veniamo. Uno dei problemi principali del momento che ci è toccato di vivere è l’assoluta man­canza di coscienza storica, nel senso di assenza del “cordone ombeli­cale” che ci lega alla tradizione, che in ambito cinematografico si manifesta drammaticamente attraverso la proliferazione di film realizzati nella totale indifferenza per le questioni che l’arte del cinema ha af­frontato e che deve affrontare storicamente.

Il cosiddetto cinema postmoderno ha rinunciato a pensarsi come campo di manovra autonomo per sottomettersi alla palude dell’audiovisivo. Per molti autori (o meglio per molti di coloro che fanno cinema)[4] il cinema non è tanto una memoria storica – costituita dunque in termini di organizzazione, selezione e gerarchia – quanto un immenso ricettacolo dal quale estrarre, a seconda del bisogno, for­mule stereotipate o immagini indifferenziate. Il cinema ha smesso di essere il territorio privilegiato di un’esperienza non intercambiabile, per assumere la forma di puro massaggio, per utilizzare la formula ormai classica di Marshall McLuhan.

In questo scenario, possono trovarsi esempi di autori e opere che, senza ignorare l’attuale situazione del cinema, si pongano il problema di ereditare la tradizione, rinnovandola creativamente?

Per fortuna la risposta è positiva. Di fatto sono numerosi i ci­neasti il cui lavoro si impernia su come uscire dall’impasse formale in cui il cinema si trascina almeno dagli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, quando il ruolo di quel cinema consapevole del pro­prio doppio aspetto politico e linguistico entra vertiginosamente in crisi. Cineasti per i quali la domanda principale, a cui cercano di rispondere con le proprie opere, è sia quale possa essere il senso di un cinema attuale, aldilà di far girare a vuoto una macchina di si­gnificazione, sia in che modo porre le basi per un cinema che non cada nel precipizio dell’audiovisivo, che torni a dare vita alla com­ponente mitica e costruttrice di immaginario sociale del cinema classico, senza rinunciare – e qui risiede la maggiore difficoltà della sfida – alla coscienza, affatto innocente, delle proprie basi linguisti­che e politiche.

Così come un celebre storico dell’arte presentò un tempo l’arte preistorica nei termini provocatori di “Quarantamila anni di arte moderna”, dovremmo considerare il cinema una risposta specifica e datata storicamente a una delle grandi domande che l’umanità si è posta durante la propria storia: “Cosa significa rappresentare visivamente il mondo e le cose?”. In tal modo il cinema rende attuale, attraverso la forma singolare dell’immagine fotochimica in movi­mento, un termine puramente virtuale, quello della rappresenta­zione, del quale non è altro che una delle possibili attualizzazioni.

Sergei M. Ėjzenštejn l’ha colto alla perfezione: per il cineasta sovie­tico pensare il cinema non è altro che situarlo nella rete di relazioni e interferenze che lo legano alle altre arti. Nella stessa direzione si pone Jean-Luc Godard quando osserva che il cinema è un’arte in­vecchiata molto rapidamente. E che si è vista costretta a bruciare le tappe, aggiungerei io. Perché questi cento e passa anni trascorsi sono stati per il cinema anni di confronto permanente con le altre arti e di intensa importazione delle loro conquiste (nonché, natu­ralmente, di esportazione delle proprie scoperte).

Parlare di cinema significa dunque parlare di pittura, di fotografia, ma anche di lette­ratura, teatro, musica, eccetera, non metaforicamente, ma in ma­niera attiva, mettendo in relazione ciò che accomuna così come ciò che differenzia tutte le espressioni della creatività umana. Solo da questo punto di vista il cinema potrà mirare alla rinascita al mo­mento di varcare la frontiera del millennio. E solo trovando il pro­prio posto nel concerto delle arti sarà in grado di offrire risposte alla domanda enunciata da Peter Handke: “quale oggetto, oggi, è ancora materia per gli occhi?”.

È possibile che oggi il cinema riconquisti il ruolo che ha svolto un tempo nella costituzione dell’immaginario collettivo della gene­razione di coloro che, come me, oggi sfiorano i sessant’anni? Non lo so. So invece che, se lo farà, sarà solo attraverso il riconoscimento, in primo luogo da parte dei cineasti ma anche da parte di tutti noi che in un modo o nell’altro ruotiamo attorno allo stesso oscuro oggetto di desiderio, del fatto che non si dà vero cinema che non accolga una duplice sfida: in primo luogo ereditare la tradizione, e in seguito stringere alleanze con le altre arti.

In questo senso, penso che l’ossatura principale di qualunque opera cinematografica non abbia subito grandi variazioni rispetto alle esperienze inaugurali dei Fratelli Lumière. Credo infatti che ciò che Juan Miguel Company ha definito l’“apprendistato del tempo” si trovi al cuore della fascinazione che il racconto cinematografico esercita sull’immaginario umano. Una fascinazione che ha molto a che vedere con il fatto che nel cinema ciò che si comprende è diret­tamente influenzato dal modo in cui si apprende. Gioco di parole? Nient’affatto. Il discorrere cadenzato, monotono e implacabile delle immagini cinematografiche conferisce alla nostra esperienza del racconto filmico tutta la sua intensità, e inibisce qualunque facile pacificazione, in quanto lo scorrere della narrazione verso il finale sfugge sempre al nostro controllo.

Il cinema, più di qualunque altra arte, ci offre l’esperienza nuda e diretta della trama principale di ogni racconto: il tempo e i suoi oscuri sentieri.

 

Note

[1] S. Daney, La rampe. Cahier critique 1970-1982, Cahiers du Ci­néma/Gallimard, Parigi 1983.

[2] G. Deleuze, Ottimismo, pessimismo, viaggio. Lettera a Serge Daney, in S. Daney, Cinéjournal, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Biblioteca di Bianco & Nero, Roma, 1999, pp. 9-16.

[3] Per un’adeguata comprensione di tale momento storico cfr. AA.VV., Los años que conmovieron al cinema: las rupturas del 68, Filmoteca Generalitat Valenciana,Valencia, 1988.

[4] Riprendo la celebre distinzione di Roland Barthes fra “scrittori” e “gente che scrive”: anche all’interno del mondo del cinema è pertinente distin­guere fra coloro che “fanno cinema” e “cineasti”. Per i primi, il cinema è una professione come qualunque altra; per i secondi, l’immagine (e il suono) nu­trono l’indagine estetica sul reale.

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