Costruzione di comunità e attivismo indigeno nella Colombia delle mobilitazioni antigovernative
Nelle ultime settimane, la Colombia è salita agli onori della cronaca, anche in Italia, a causa di vaste mobilitazioni sociali. In tempi recenti, altrettanta attenzione era stata data al paese nel 2016, in occasione degli Accordi di Pace firmati dal Governo colombiano e dal movimento guerrigliero delle FARC-EP. Gli Accordi aspiravano a porre fine a un conflitto armato durato più di 50 anni e ad affrontare alcuni dei nodi che sono alla base delle profonde disuguaglianze socioeconomiche che caratterizzano il paese. Cinque anni dopo, purtroppo, tali aspirazioni faticano a trovare pieno riscontro nella realtà dei fatti: le violenze non sono cessate e, anzi, è aumentato il numero di attori armati che si disputano il controllo del territorio, in particolare nelle zone rurali ritenute strategiche. Secondo l’istituto INDEPAZ, nei primi 160 giorni del 2021, 69 leader sociali (12 attiviste e 57 attivisti) sono stati assassinati, 25 ex combattenti delle FARC-EP, firmatari degli Accordi di Pace, sono stati uccisi e altri sono desaparecidos, mentre in diverse zone del Paese sono stati perpetrati 35 massacri che hanno provocato la morte di almeno 132 persone. Durante l’attuale Governo del Presidente Iván Duque, in carica dal 2018, l’implementazione degli Accordi è rallentata e le grandi sfide sociali sono rimaste sullo sfondo dell’agire politico, mentre le disuguaglianze si sono accentuate, in particolare a seguito dell’impatto della pandemia da Covid-19.
È proprio in tale quadro che bisogna collocare l’attuale ondata di proteste, iniziata, il 28 aprile scorso, con uno sciopero nazionale indetto contro la proposta di una contestata riforma fiscale. Sebbene la proposta sia stata successivamente ritirata dallo stesso Governo, la protesta si è rapidamente trasformata in una vasta mobilitazione, che vede coinvolti sempre più attori sociali e contiene un ampio spettro di rivendicazioni, da troppo tempo ignorate dal Governo. Le principali richieste delle e dei colombiani scesi in piazza spaziano dalla creazione di politiche a favore della popolazione giovane del Paese a una maggior redistribuzione del reddito, fino alla necessità di attuare rapidamente una riforma della polizia. Proprio le violenze poliziesche, peraltro, stanno caratterizzando la gestione delle proteste da parte del Governo. Come segnalato dall’organizzazione Temblores, nel primo mese di mobilitazione si sono registrati almeno 3.789 episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine: 41 omicidi in corso di indagine, 1.445 detenzioni arbitrarie e 25 aggressioni sessuali a danno di manifestanti. Inoltre, INDEPAZ ha pubblicato una lista di 346 persone registrate come desaparecidas in occasione delle proteste.
Scaturite inizialmente nelle grandi città del paese, le mobilitazioni si sono diffuse poco a poco nei diversi centri urbani di dimensioni più ridotte e hanno visto coinvolte anche le popolazioni delle comunità rurali colombiane, che con le loro pratiche di resistenza collettiva hanno sostenuto e accompagnato i gruppi urbani, per tentare di mitigare l’impatto della repressione.
Attualmente, sono più di 800 i municipi che stanno partecipando alle mobilitazioni. Fin da subito la città di Cali, capoluogo del dipartimento del Valle del Cauca, si è affermata come l’epicentro urbano dello sciopero ed è, a oggi, uno dei luoghi in cui la repressione del Governo è stata più brutale.
“Camminare per le strade delle città ci fa sentire che in Colombia stiamo vivendo un momento storico”: sono le parole di Edilsol (nome di fantasia, inventato per tutelare la sicurezza dell’intervistato), attivista e “comunicatore popolare” di Cali. Se lo sciopero del 28 aprile era stato indetto dal Comitato Nazionale dello Sciopero (Comité Nacional del Paro), a oggi i numerosi spazi di concentrazione – presidi, manifestazioni, ed eventi culturali – sono convocati da diversi attori della società civile autorganizzati. Alcuni di questi spazi sono permanenti, come i punti di resistenza presenti nei quartieri popolari di molte città, che non costituiscono soltanto lo scenario degli scontri con le forze dell’ordine, ma sono anche luoghi di ritrovo, promossi principalmente dalla gioventù colombiana, in cui veri e propri spazi di vita sono intessuti. Come ci racconta Edilsol, i punti di resistenza sono diventati la casa di molte e molti manifestanti, soprattutto giovani: lì si condividono gli alimenti con la olla comunitaria, si organizzano eventi culturali e artistici e si gioca a pallone per le strade chiuse al traffico dalle barricate. Inoltre, si stanno organizzando lezioni universitarie nei quartieri popolari accessibili a tutte e tutti (universidad a la calle), sono stati creati orti urbani, biblioteche popolari provvisorie e brigate di salute. In questi luoghi di riproduzione collettiva della vita si promuove anche un dialogo popolare sui problemi strutturali del paese, sul lavoro collettivo e cooperativo e sugli spazi educativi. Come afferma Edilsol: “Tutte le richieste che vengono avanzate attraverso lo sciopero, come la garanzia di sicurezza alimentare per le famiglie, l’accesso all’educazione e alla salute, si stanno materializzando in forma autogestita per le strade, attraverso gli spazi di vita presenti nei punti di resistenza”.
Le dinamiche di autogestione caratterizzano le pratiche comunitarie e collettive che i popoli indigeni utilizzano tradizionalmente in Colombia. Ed è proprio seguendo questo spirito di unità e collettività che, a inizio maggio, il Consiglio Regionale Indigeno del Cauca – CRIC, organizzazione di cui fanno parte le comunità indigene della regione del Cauca, impegnata storicamente nella lotta per i diritti e la protezione dei territori – si è unita allo sciopero nazionale e ha convocato la Minga Indigena. Più di 5.000 persone di diversi popoli indigeni, principalmente del popolo Nasa, sono arrivate in carovana a Cali per poter accompagnare e sostenere il processo di resistenza urbano. Durante le giornate di mobilitazione, la Minga ha promosso diversi spazi di dialogo politico sulla situazione e ha contribuito a rendere visibili a livello internazionale le violazioni di diritti umani commesse dalle forze dell’ordine contro chi sta manifestando. La Guardia Indigena, concepita come corpo di resistenza pacifica che da più di 20 anni esercita il controllo territoriale nelle comunità del Cauca fronteggiando i diversi attori armati presenti in questi territori, ha accompagnato vari punti di resistenza e ha contribuito a denunciare la presenza di infiltrati che incitano alla violenza durante le mobilitazioni, così come la presenza di civili che usano la forza contro le e i manifestanti con il beneplacito delle forze dell’ordine.
Anche la Minga Indigena, nonostante le sue intenzioni solidali e pacifiche, è stata colpita dalla brutale repressione che si vive quotidianamente in tutto il Paese. Il 9 maggio alcuni suoi membri sono stati attaccati da gruppi di civili armati protetti dalla polizia nazionale, presente durante l’attacco che ha provocato, secondo il CRIC , il ferimento di 9 persone appartenenti alle comunità indigene.
Non è la prima volta che la Minga Indigena accompagna mobilitazioni urbane. La sua presenza nelle città è fondamentale non solo per esprimere solidarietà con i processi di resistenza, ma anche per sensibilizzare la popolazione urbana sulla realtà dei territori rurali dove è ancora presente il conflitto armato, sulle loro esigenze e sulle loro rivendicazioni come comunità storicamente colpite dalla violenza della guerra. Il dialogo tra le realtà rurali (non solo indigene, ma anche contadine e afro-discendenti) e urbane è fondamentale anche durante questo sciopero nazionale, e contribuisce ad abbattere le barriere di odio, discriminazione e razzismo presenti in un paese in cui la diversità culturale ed etnica è prevalente.
Quello della Minga Indigena è solo uno degli esempi di solidarietà, unione e lotta collettiva che hanno caratterizzato uno sciopero nazionale che dura da più di 40 giorni. La gioventù colombiana è la protagonista principale delle mobilitazioni: le proteste vanno avanti soprattutto grazie a quei e quelle giovani che stanno guidando e organizzando lo sciopero a partire dalle loro necessità e dalle loro richieste, che hanno a che vedere innanzitutto con il rispetto della vita e del diritto a manifestare, con l’accesso all’educazione, alla salute e a un lavoro dignitoso. Le giovani e i giovani colombiani che occupano le strade e le piazze non hanno un’occupazione, e nelle proprie case spesso non hanno neanche cibo sufficiente per tre pasti quotidiani. Sono senza futuro e senza possibilità, fanno parte di un sistema-paese che le e li ha sempre escluse/i, vivono in quartieri in cui il rischio di entrare a far parte di pandillas e del traffico di droga, in assenza di alternative, è elevato. Si tratta delle stesse giovani e degli stessi giovani che stanno guidando la lotta insieme a tanti altri settori della società civile, dai quali hanno ricevuto solidarietà e appoggio: “si mangia di più nelle barricate che a casa”, dicono molti e molte di loro, confermando come la lotta collettiva per la riproduzione della vita rappresenti, a oggi, una delle poche risposte concrete all’esaurimento del modello neoliberista e alla conseguente estrema precarizzazione dei gruppi più vulnerabili del paese. Durante lo sciopero, infatti, le dinamiche di quartiere si sono rafforzate e riattivate. Molte persone, ogni giorno, portano viveri e beni di prima necessità ai punti di resistenza, accompagnano i presidi e partecipano come cittadinanza attiva ai diversi incontri di dialogo popolare. Le madri dei e delle giovani che lottano in prima linea hanno creato la primera linea de madres per proteggere i loro figli e le loro figlie dalla repressione della polizia e del cosiddetto squadrone della morte, ESMAD, contribuendo a rafforzare quella costellazione di pratiche che l’Osservatorio Uramba definisce Modello di vita, contrapposto al Modello di Morte supportato dalla repressione governativa.
Il Governo colombiano non riconosce le/i giovani come possibili interlocutori per il dialogo e i negoziati. Il suo discorso politico mira a stigmatizzarle/i come vandali, terroristi, legati a gruppi armati illegali. Per il momento, la linea del presidente Iván Duque è quella di smantellare con la forza tutti i blocchi presenti nel paese, incitando così alla violenza.
Quello che sta succedendo in Colombia sta contribuendo ad annodare in maniera ancora più stretta i fili di un grande tessuto sociale che ha sempre resistito e lottato contro la violenza, la guerra e i problemi strutturali del paese. È un momento storico di trasformazione, in cui la forza delle proteste spinge a continuare a lottare in modo organizzato e dal basso. Proprio per questo, come segnala il ricercatore Juan Bautista Jaramillo, è difficile immaginare che le mobilitazioni si interrompano a breve. Molti settori sociali sentono di non avere nulla da perdere, avendo già perso tutto. Con questa mobilitazione, inoltre, sono stati ottenuti alcuni risultati: tra i quali il ritiro della riforma fiscale, le dimissioni di alcuni ministri e una visibilità internazionale. In questo modo, si è fatta strada la consapevolezza che grazie all’unione, malgrado le difficoltà, è possibile cambiare le cose: “la gente ha imparato ad affossare le riforme, a forzare la rinuncia di ministri e generali, a sedersi alla pari allo stesso tavolo dei governanti. Per questo si è mantenuta la mobilitazione, perché si sono rafforzati legami di ordine soggettivo, emotivo, che sono serviti come elementi di coesione”.