Rinnoviamo il nostro sostegno alla petizione “Riconoscimento della professionalità degli insegnanti di italiano LS/L2” e pubblichiamo un contributo di Gaius Gea, membro del gruppo che si batte per la creazione di un Ordine Professionale per gli insegnanti di italiano che dia finalmente il giusto valore a questo lavoro.
Un giorno cominciai ad avere prurito, soprattutto la notte.
Io la chiamavo orticaria però non era orticaria.
Non c’entrava niente.
(da Caro Diario di Nanni Moretti)
Caro Diario,
voglio insegnare l’italiano agli stranieri. Vorrei che la mia passione per le minuzie della lingua italiana si trasformasse da inutile trastullo intellettuale a lavoro socialmente utile. Arrivai anni fa a questa decisione. La mia vocazione all’insegnamento si manifestò insieme a uno strano prurito. Allora ignoravo che la strada per liberarmi da quella dipendenza autolesionistica sarebbe stata lunga e tortuosa.
Cominciai con la compilazione di un modesto curriculum vitae che si configurava come un elenco dei miei titoli universitari. Mi resi conto ben presto di come una laurea triennale e una laurea specialistica a pieni voti non fossero sufficienti. Mi informai. Mi parlarono di un certificato che si chiamava DITALS rilasciato dall’Università per Stranieri di Siena che riconosceva le abilità e le competenze teorico-pratiche dell’insegnante di italiano L2/LS. Per pruriti molto forti era consigliabile investire più tempo e denaro per puntare più in alto e prendere la DITALS II. Prima di poterlo assumere però era necessario aver fatto osservazione in classe e/o insegnato per almeno 150 ore. Ecco il primo intoppo. Per prendere il certificato con cui speravo di trovare un lavoro da insegnante, avrei dovuto essere già un’insegnante.
Mi misi alla ricerca di uno stage. Cominciai a insegnare gratuitamente passando da una struttura all’altra e da una classe all’altra per essere pronta a dimostrare di saper insegnare l’italiano a qualsiasi profilo di apprendente, obiettivo del certificato DITALS II.
Come controindicazione, ottenni che il prurito iniziale si trasformò in una certa voracità, che io cominciai a chiamare fame di esperienza. Non ci volevo credere, eppure ero entrata in questo meccanismo contorto in cui i datori di lavoro di più o meno prestigiose scuole di italiano chiamavano il mio lavoro Stage–non-retribuito, cosa per altro illegale, e alimentavano il mio lavoro con frasi del tipo Almeno-per-adesso-fai-esperienza seguite in genere da frasi allusive volontariamente private del verbo del tipo Un-giorno-chissà.
Un giorno, finii le mie ore di tirocinio e così potei assumere il farmaco della DITALS II. Cominciai allora ad inviare centinaia di curricula in tutto il mondo ma, non ricevendo risposta, continuai il mio stage-non-retribuito. Capii che non potevo farne più a meno. Volevo insegnare a tutti i costi. Il farmaco mi aveva reso dipendente dalla cura stessa.
Allora, affetta da questa nuova dipendenza, volevo saperne sempre di più. Infatti, il luogo comune che vede l’insegnamento della propria lingua madre come un gioco da ragazzi venne smentito ben presto. Anzi, durante questo tortuoso cammino, cominciai a rendermi conto che conoscere le minuzie della mia lingua madre, sebbene fosse un indispensabile punto di partenza, serviva in realtà a poco. Capii che per essere un’insegnante efficace e efficiente avrei dovuto conoscere non solo la mia lingua, ma come insegnarla ai differenti destinatari (bambini, adolescenti, adulti in Italia o all’estero e gli oriundi, i migranti e gli studenti Erasmus ecc…).
Così gradualmente, oltre alla fame di esperienza, cominciai ad avere un fastidio ancora più snervante che si manifestava con una certa secchezza e disidratazione. Consisteva in una sete irrefrenabile. La chiamai sete di conoscenza. Molti esperti mi consigliarono di ricominciare l’università per alleviare questo disturbo. I miei genitori decisero di aiutarmi ancora una volta, così a venticinque anni iniziai a frequentare un corso di Laurea Magistrale in Didattica dell’italiano all’Università per Stranieri di Siena. Mi feci spiegare tutto. Innanzitutto la struttura delle lingue di partenza dei destinatari per sapere come combattere gli errori sistematici di interferenza; poi indagai sulle loro culture di origine per evitare gaffe e indelicatezze che potrebbero procurare imbarazzo o mancare di rispetto a persone di culture diverse dalla nostra, rischi sempre latenti in classi pluriculturali e plurilingue. Poi mi interessai anche alle dinamiche di acquisizione del linguaggio da un punto di vista cognitivo. Mi sentii un po’ meglio, ma il mio prurito iniziale non passava. Mi sentivo sempre più pronta a entrare in una vera classe ma per misteriosi motivi le scuole continuavano a preferire insegnanti con nessun titolo specifico.
Come controindicazione delle diverse cure sovrapposte, ebbi delle allucinazioni: vidi me stessa insegnare come i miei professori del liceo impiegando ore per spiegare la regola di some e any in inglese e annoiando con la posizione degli accenti gravi e acuti in francese senza mai dare la parola ai miei studenti. Ne ebbi paura così corsi a informarmi sugli approcci di insegnamento e sui metodi da utilizzare.
Insomma sentivo di essere pronta a insegnare, così la ricerca del lavoro diventò la mia ossessione. In barba a tutti i le-faremo-sapere e al 40% di disoccupazione giovanile, io sapevo quanto la figura professionale dell’insegnante di italiano per stranieri fosse utile all’Italia contemporanea visto il numero sempre crescente di migranti che approdano nel nostro Paese. Migranti, persone con trascorsi traumatici che cercano di inserirsi nel nostro tessuto sociale, lavorando. E figli di migranti. Frequentano per legge le nostre scuole e possono incontrare difficoltà a raggiungere il livello dei compagni perché i professori o i maestri curriculari non sono preparati a gestire le loro lacune linguistiche. Imparare la nostra lingua costituisce per loro il primo passo verso l’integrazione. Per i più grandi si tratta di inserirsi nel mercato del lavoro. Per i più piccoli si tratta di crescere, maturare, diventare cittadini, obiettivi che la scuola dovrebbe garantire a chiunque.
Facendo parte di quella minoranza che si ricorda che solo due o tre generazioni fa noi italiani eravamo un popolo di emigranti, decisi di concentrarmi proprio sull’insegnamento agli immigrati. Visto che la ricerca di lavoro non produceva nulla di buono, finii per cambiare punto di vista. Diventai un’immigrata in un Paese straniero. Andai all’estero e imparai un’altra lingua da zero mantenendomi svolgendo i lavori più umili.
Continuavo invano a cercare lavoro in Italia come insegnante nei CTP, centri territoriali permanenti, da decenni destinati all’apprendimento degli adulti. Nel corso degli anni avevo ormai accumulato una serie di titoli per l’insegnamento dell’italiano a stranieri e particolarmente a migranti. Nonostante questo non riuscivo a rientrare in nessuna graduatoria bandita dai CTP per il semplice fatto che non si richiedeva nessun titolo in particolare. Bastava una qualsiasi laurea in Lettere o in Lingue e aver avuto esperienza, meglio se nello stesso CTP, meglio ancora se professore interno alla scuola collegata con quel CTP.
Ogni bando era un trauma. Il mio lavoro non era e non è ancora riconosciuto. Per essere avvocato, medico, dentista, maestro, l’iter da seguire è ben preciso. Per essere insegnante di italiano L2 non c’è nulla di definito. Esistono titoli e certificati specifici come la DITALS, il CEDILS, Scuole di Specializzazione e Corsi di Laurea all’Università per Stranieri di Siena e di Perugia, alla Cà Foscari di Venezia, a Roma tre ecc… ma non esiste un percorso obbligato, così, al momento di bandire un concorso non se ne tiene conto. La situazione era ed è surreale. Assumere chi ha la sola laurea in Lettere o in Lingue – e a volte anche il solo diploma – e un po’ di esperienza al posto di chi, oltre all’esperienza, ha una preparazione specifica (qualunque essa sia), è come assegnare un’operazione a un infermiere quando si ha a disposizione un chirurgo. Questa consapevolezza non faceva che acuire il mio prurito.
Stremata e disgustata da questa situazione, decisi di rimanere all’estero dove comunque non potevo svolgere il mio lavoro sempre per banali e ottuse motivazioni: le selezioni per il personale docente nelle Scuole Italiane all’estero sono riservate ai docenti di ruolo in Italia (e sappiamo quanto tempo e dedizione ci voglia per diventare docente di ruolo in Italia!); le selezioni per il lettorato nelle Università Straniere sono riservate ancora una volta ai docenti di ruolo delle scuole secondarie di I e II grado (idem); gli Istituti Italiani di Cultura spesso e volentieri reclutano persone del luogo laureate in italiano oppure bandiscono concorsi per posti di lavoro chiamati impropriamente stage; in ultimo, le scuole private reclutano senza remore, italiani senza alcun titolo specifico, in virtù del luogo comune secondo cui basta-essere-madrelingua.
Nonostante mi trovassi all’estero, non smisi mai di monitorare i nuovi bandi in uscita, nella speranza di tornare in Italia per lavorare con gli immigrati. A poco a poco notai che qualcosa cominciava a muoversi. Mi accorsi che i bandi cominciavano a ricercare profili sempre più specifici e figure specializzate. Improvvisamente avevo tutti i titoli richiesti per accedere alle graduatorie! Non ci potevo credere, c’era una speranza di tornare in Italia e svolgere il mio lavoro. Quella speranza si concretizzò un pomeriggio di novembre quando ricevetti la convocazione per insegnare in un CTP dell’Emilia Romagna (che aveva bandito il concorso per titoli per il progetto “Parole in Gioco 3”). Avrei cominciato il giorno successivo. In preda all’euforia, salii a bordo di un treno e presi servizio l’indomani. Da un momento all’altro mi ritrovai di fronte ai miei studenti. Mi scontrai subito con le problematiche riguardanti le classi di italiano per migranti: classi numerose (di più di trenta persone), carenza di materiali didattici, compresenza di studenti di differenti livelli di competenza dell’italiano, compresi gli analfabeti. Mi stupii di me stessa quando i primi due incontri riuscirono alla perfezione. Mi sentii bene. Sorridevo. Amavo il mio lavoro e i miei studenti lo sapevano. Ero guarita da tutti i fastidi, da sintomi e controindicazioni.
Purtroppo questa sensazione di benessere non durò che qualche giorno.
Per motivi incomprensibili non potevo accedere ad altri corsi nello stesso CTP. I bandi di “Parole in Gioco 3” prevedono che ogni docente non possa insegnare in più di due corsi per un massimo di otto ore settimanali. Ancora mi domando come mai. Fui costretta a rinunciare al lavoro dei miei sogni. Non posso vivere senza il mio lavoro, ma non potevo sopravvivere insegnando quattro o al massimo otto ore settimanali, che comunque sarebbero state pagate solo alla fine del progetto. Avrei dovuto cercare un altro lavoro per svolgere il mio lavoro! Il paradosso. Non so chi mi sostituì. So che un concorso che si vanta di ricercare profili professionali così specializzati non può non creare dei posti di lavoro adeguati ai titoli richiesti.
Gli insegnanti non sono e non possono essere costretti a essere dei volontari. Così come non devono essere i volontari a rivestire il ruolo di insegnante.
Ritornai all’estero con molta più convinzione rispetto a quando avevo lasciato l’Italia la prima volta. Non ebbi più pruriti, né altri disturbi tranne uno: il peggiore. Si tratta di un malessere generale che è purtroppo fin troppo diffuso in tutta la nostra giovane generazione non solo di insegnanti. È un’inquietudine travolgente che si manifesta dopo una lenta presa di coscienza. Non siamo affetti da nessuna malattia. Siamo persone con sogni, speranze e ambizioni e abbiamo capacità e preparazione adeguate per realizzarli ma è il sistema in cui siamo intrappolati che è malato, logoro e malfunzionante. Non siamo noi a dover guarire, è l’Italia.