L’istruzione riparte ma il prezzo del biglietto è troppo alto. Note a margine dell’ultimo decreto legge sull’istruzione.
Se qualcuno avesse ancora dubbi sul fatto che in Italia, nell’ultimo decennio, l’istruzione sia diventata la cenerentola della politica culturale ed economica basta che si intrattenga a leggere attentamente il Decreto legge annunciato al termine del Consiglio dei ministri del 9 settembre scorso, dal titolo enfatico “L’istruzione riparte”.
Sia chiaro, non sto mettendo qui in dubbio il fatto che dopo i tagli lineari del triennio 2008-2011 si torni a investire sul bilancio del MIUR. Se per il 2013 sono previsti fondi per 13 milioni di euro, nel 2015 – quando nuove maggioranze parlamentari permettendo il provvedimento andrà a pieno regime – i fondi per l’istruzione saliranno a 400 milioni.
Quello che mi colpisce è il modo in cui lo stesso ministro Carrozza e l’informazione mainstream hanno annunciato il ritorno alla spesa per l’istruzione, lodando quale gesto di protervia difesa delle patrie lettere e del sapere assoluto il fatto che il taglio dell’IMU non abbia determinato decurtazioni nel bilancio del MIUR.
Come se in qualsiasi altro paese dell’Unione fosse una cosa non dico “normale” ma quanto meno possibile che l’onere del taglio di una tassa sugli immobili possa ricadere sulle spalle di un ambito d’intervento fondamentale e strategico come l’istruzione.
Immaginate il governo di Stoccolma annunciare a telecamere schierate che il taglio della tassa patrimoniale, per grande fortuna degli svedesi, non si tradurrà nel taglio dei fondi alle mense scolastiche frequentate dai loro figli. Qui a Roma, invece, possiamo esultare dello scampato pericolo, sacrificare in olocausto un altro agnello al 3% nel rapporto tra deficit e PIL, e guardare ai contenuti del Dl.
Le voci di spesa presentate al Consiglio dei ministri si dispiegano, a mio parere, all’interno di tre diverse cornici di rappresentazione e divulgazione dello stato dell’arte.
1. Lo stato d’emergenza
Le misure relative all’edilizia scolastica (possibilità per le scuole di contrarre mutui trentennali a tassi agevolati con la Banca di sviluppo del consiglio d’Europa e con la Cassa depositi e prestiti), alla ricostruzione del welfare studentesco (100 milioni di euro dovrebbero andare a rimpinguare il Fondo delle borse di studio per gli studenti universitari), alle assunzioni dei docenti di sostegno (più di 26.000 nel prossimo triennio) e al piano di immissioni in ruolo per il 2014/2016 (69.000 docenti e 14.000 personale ATA) descrivono uno stato d’emergenza posteriore allo tsunami degli 8,4 miliardi di euro di tagli lineari tra il 2008 e il 2011.
Se gran parte degli edifici scolastici non può fare a meno di interventi strutturali, e il ritorno alla spesa nell’ambito delle borse di studio è un segnale positivo, rimangono discutibili e forse non proprio veritieri i criteri e la sostanza delle voci relative alle assunzioni e alle immissioni in ruolo.
La situazione delle diversabilità e dei cosiddetti BES (Bisogni Educativi Speciali) in Italia versa in una condizione di sproporzione nel rapporto tra numero degli insegnanti di ruolo e numero degli studenti che quindi si traduce in discontinuità didattica per 52.000 tra studenti e studentesse.
L’assunzione di docenti di sostegno va quindi ad affrontare una ferita nei diritti e nella dignità di migliaia di persone. Il problema semmai è la mancanza di chiarezza nei criteri con cui i corsi di specializzazione per il sostegno – riservati ai docenti abilitati – verranno delegati nell’organizzazione e nel funzionamento alle Università.
Come nel caso dei Tfa (Tirocinio formativo attivo) i primi bandi, relativi a due atenei romani, prevedono il pagamento di una tassa di iscrizione ai test selettivi di 200 euro e di una tassa per il corso che dovrebbe varcare la soglia dei 2000 euro. Non è da escludere poi che di fronte all’immobilità delle GaE (Graduatorie ad Esaurimento) gli stessi abilitati Tfa possano riversarsi in massa sull’opportunità di assunzione rappresentata dal corso di sostegno.
Insomma anche in questo caso lo stato di calamità in cui si trova un settore dell’istruzione verrà sfruttato dagli atenei per fare cassa e alimentare preterintenzionalmente la bolla formativa italiana, senza che poi qualcuno possa vigilare o attestare la qualità del livello di organizzazione e formazione dei corsi.
Quanto al piano di assunzione di 69.000 docenti per il 2014/2016 quello che pesa dietro l’annuncio è una pletora di rimossi. In primo luogo non si capisce bene se il piano interessi i soli vincitori del Concorso, o gli iscritti alle GaE o coinvolga pure i neoabilitati del Tfa e/o interessi i futuribili abilitati dei Percorsi abilitandi speciali (Pas, i “trombati” delle prove di selezione dei Tfa ma con diversi galloni conquistati sul campo di battaglia delle ore di servizio).
Inoltre, il decreto non spende una parola – dico una – sulla sorte di chi in questo momento si trova in possesso di un’abilitazione conseguita con il Tfa ma è escluso dalle GaE e dovrà quindi attendere un anno intero per la possibile (ma non certa) riapertura. Non è quindi per malpancismo congenito o per la difesa di un qualche privilegio che il 26 settembre dalle 10.00 alle 14.00 i tieffini si sono riuniti in protesta a Roma sotto la sede del MIUR, nell’attesa che una loro delegazione venisse ricevuta dalla VII Commissione Cultura della Camera.
2. Digitale sì, digitale no
L’accelerazione sull’Agenda digitale voluta dall’ex ministro Profumo viene per il momento messa in soffitta e bypassata da misure pragamatiche, più consone a tempi di targhe alterne la domenica.
Accanto ai 15 milioni di euro destinati al potenziamento delle reti wireless a partire dalle scuole secondarie di secondo grado – altrimenti au revoir registro elettronico – compare una voce di spesa di 8 milioni tra 2013 e 2014 per l’acquisto di libri di testo ed e-book, e la possibilità per gli insegnanti di sostituire il libro di testo con dei mash-up di materiali didattici (digitali e non) approntati dallo stesso docente.
Quello che rimane oscuro è innanzitutto con quali supporti informatici gli e-book potrebbero essere utilizzati dagli studenti: come possono dotarsene? Con l’effimero fondo di spesa dell’isitituto che frequentano? Aggiungo, inoltre, che sulla via della digitalizzazione scolastica manca una seria riflessione didattica, che tenga conto del diverso contesto e dei diversi obiettivi all’interno dei quali dovrebbe essere impiegato l’uso di tablet e laptop[1].
3. Il frame della valutazione e la continuità neoliberale tra scuola e lavoro
Infine qualche parola sul potenziamento dell’orientamento universitario e lavorativo, introdotto anche nel quarto anno delle secondarie di secondo grado, e sull’unica misura che interessa direttamente la ricerca, ovvero «la quota premiale del fondo di finanziamento degli enti di ricerca (almeno il 7% del Fondo totale)» erogata secondo quando stabilisce il Decreto, in misura prevalente, in base ai risultati ottenuti nel procedimento di valutazione della qualità della ricerca (VQR).
Vorrei solo osservare che nel primo caso si cerca di agganciare il “metodo OCSE” nella armonizzazione tra scelte formative – e relative scelte di implementazione di un determinato tipo di competenze secondarie piuttosto che altre – e future scelte lavorative, nella prospettiva ideologica di una società meritocratica in cui a un determinato tipo di formazione, e di competenze, corrisponde un determinato livello di reddito. La logica di questo tipo di spesa sull’orientamento è tutta improntata alla metafisica della grande catena del merito, la scala gerarchica scelta formativa di livello superiore- competenze di secondo livello-retribuzione di prima classe. Insomma risuonano in questa scelta, peraltro ritenuta debole anche da Il Sole24ore, le parole del ministro Carrozza alla competitiva platea di Cernobbio: «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita».
Quanto infine al potenziamento del fondo di finanziamento degli enti di ricerca sulla base della “qualità della ricerca” mi pare quasi superfluo sottolineare come questo tipo di misura sia un segnale chiaro sul tipo di frame condiviso da tutte le forze politiche che partecipano alle “larghe intese”, quello neoliberale della valutazione[2].
Per concludere, all’inizio di settembre l’associazione Save the children ha commissionato a Ipsos un sondaggio-ricerca tra i genitori per monitorare la percezione della scuola pubblica italiana.
Quello che emerge è che a fronte di un elevato livello di gradimento della scuola pubblica, le famiglie e i genitori sono impegnati nel sostegno economico diretto all’attività scolastica, dall’acquisto di materiale al finanziamento di materie curriculari ed extracurricolari. Non è un mistero, buone intenzioni a parte siamo sotto la media dei paesi OCSE nella spesa per l’istruzione: 4,7% del PIL contro il 6,3%.
Mi chiedo fino a quando il sistema-istruzione in questo paese potrà reggersi, come molte altre realtà sociali, sul welfare familiare. Se l’istruzione riparte non è certo per viaggiare in prima classe. È perché in molti s’impegnano a mettere insieme gli spiccioli per un biglietto di seconda.
Note
[1] Cfr. Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 58-68.
[2] Sul tema rimando all’ampio e documentato libro di Valeria Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio, Napoli 2012.