I venti di guerra sull’Iran, le rivoluzioni e le prospettive del decennio che inizia.
Nel devastante silenzio del governo italiano sull’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, nonostante il ruolo cruciale svolto dalle basi statunitensi in Italia nelle operazioni in Medio Oriente, le voci che si odono in questi giorni sono quelle degli iracheni, dei siriani e degli iraniani che da un lato salutano con una certa gioia l’eliminazione del generale e dall’altro si chiedono angosciati quali saranno per loro le conseguenze dell’evento. Quasi due decenni di interventi militari nella regione – quelli nel nuovo millennio iniziati proprio in Iraq, nel 2003 – hanno portato violenza e guerra, e hanno anche rafforzato, se non creato, dinamiche quali la settarizzazione declinata innanzitutto nella contrapposizione tra sunniti e sciiti che ha devastato il Medio Oriente, in primis l’Iraq.
Le cosiddette primavere arabe sono state il primo segnale della vasta opposizione a questo ordine regionale, incardinato sulla contrapposizione regionale tra Iran e Arabia Saudita e vernacolarizzato, appunto, nel settarismo. Questa opposizione con gli anni è cresciuta, allargandosi dall’Africa del nord al Libano, Iraq, Bahrain, Siria, Yemen, Iran, tra gli altri.
L’assassinio di Soleimani si inserisce in un percorso controrivoluzionario in reazione allo scoppio delle primavere arabe. Lo scopo delle forze controrivoluzionarie, sia a livello regionale che mondiale, è di allargare la propria sfera di influenza. Per fare ciò, è necessario contenere il potenziale sovversivo e rivoluzionario delle proteste, strumentalizzandole in chiave appunto settaria. Per mettere ordine nella genealogia di eventi che hanno preceduto l’assassinio di Soleimani si deve mettere a fuoco il potenziale sovversivo che le primavere arabe hanno scatenato, che è in contrapposizione all’ordine mediorientale post-2003 nonché in contraddizione con le basilari istituzioni politiche dello stato nazione, cittadinanza e rappresentanza politica innanzitutto.
Mentre in Europa e negli Stati Uniti abbiamo, dall’inizio del millennio, assistito a una sostanziale regressione in termini di radicalità dell’immaginario politico di segno progressista, con la demonizzazione di esperienze di contestazione a livello nazionale e lo smantellamento delle infrastrutture politiche e sociali che rendevano quelle esperienze possibili, in gran parte del Nord Africa e del Medio Oriente dinamiche simili hanno avuto effetti molto diversi. Nonostante il carattere già autoritario delle istituzioni politiche, in Medio Oriente e Nord Africa i movimenti sociali e le esperienze politiche extra-istituzionali hanno trovato terreno fertile nelle “pieghe” dei regimi autoritari: pur non riuscendo a cambiarli da dentro, queste esperienze hanno cementato capacità organizzative e un immaginario politico rivoluzionari e radicali.
Si tratta delle cosiddette “conseguenze non volute” delle riforme liberali e liberiste che, dall’alto, la maggior parte dei regimi autoritari nella regione ha implementato nel corso degli anni Duemila. L’introduzione di elezioni multipartitiche, la privatizzazione di servizi e di proprietà statali, lo stimolo all’attivismo della cosiddetta società civile hanno creato aspettative di cambiamento invece deluse. Lo scopo delle riforme governative era infatti quello di creare una società civile obbediente, un settore imprenditoriale e dei partiti politici cooptati dal regime, non quello di inaugurare cambiamenti socio-politici come invece ci si aspettava.
La delusione delle aspettative ha tuttavia messo in moto dinamiche di critica politica e sociale che hanno trasceso gli spazi, seppur limitati, di partecipazione politica che le riforme avevano aperto. Mentre le riforme erano state pensate e implementate dall’alto con una logica di ingegneria sociale e politica che mirava a un cambiamento politico minimo, controllato e graduale, esse sono state riappropriate dal basso con una logica diversa, di liberazione, che nel corso degli anni è diventata rivoluzionaria. In Egitto, Iran, Tunisia, Siria, le riforme di segno neoliberale hanno aperto, paradossalmente, spazi di non governabilità che hanno generato delle eccedenze di partecipazione e di capacità organizzativa – il terreno fertile su cui attivisti e rivoluzionari hanno costruito il dissenso.
Nonostante ogni contesto abbia le proprie specificità, l’esplosione delle rivolte in Tunisia nel 2010 ha creato un elemento di comunione tra varie esperienze di attivismo in Nord Africa e Medio Oriente, la cui eco ha raggiunto anche l’Europa e gli Stati Uniti. La prima reazione controrivoluzionaria ha avuto luogo in Bahrain. Ad essa, sono seguite le repressioni e la settarizzazione dello scontro sociale in Yemen e Siria, le cui conseguenze sono ben visibili ancora oggi: l’emersione dello Stato islamico e la guerra infinita, alimentata da una logica di saccheggio coloniale, messa in atto sia dalle potenze mondiali che da quelle regionali.
E arriviamo quindi a Soleimani. Il suo assassinio è in un certo senso il punto di congiunzione tra due dinamiche diverse ma correlate: da un lato, la competizione tra la presenza e le interferenze iraniane nei paesi mediorientali e quelle dell’imperialismo statunitense nella regione, rafforzatosi grazie anche all’attivismo geopolitico degli alleati statunitensi; e dall’altro lato, lo scontro tra popolazioni che, a partire dal ciclo di mobilitazioni della cosiddetta primavera araba, si sono sempre più fortemente opposte alla loro condizione di “prede” di Iran, Turchia, Stati Uniti, Arabia Saudita, e Israele, e le élite e i gruppi di potere che invece beneficiano in vario modo da tale situazione.
Proprio ora che in Libano, Iraq, e in altri contesti i movimenti sociali stanno prendendo forza, rivendicando (pur nelle specificità di ciascuno) il diritto a una vita degna e a un sistema di servizi e di gestione delle risorse giusto e trasparente, l’assassinio di Soleimani arriva a bloccarne lo sviluppo delle potenzialità politiche e organizzative.
Il crinale su cui questi movimenti si muovono è quello dell’opposizione sia all’imperialismo statunitense sia alle ingerenze straniere (iraniane, nel caso dell’Iraq). Per questo hanno nemici potenti, divisi da rivalità geopolitiche e di controllo militare ed economico sulla regione, ma uniti dall’interesse comune a eliminare le tracce di qualsiasi alternativa al loro ordine e alla loro presenza. Per questi movimenti, le istituzioni create dallo stato nazione moderno, quali la cittadinanza e la rappresentanza politica, sono problematiche perché non riflettono la realtà in cui sono immersi. Quale spazio politico esiste per l’esercizio di una piena cittadinanza in uno stato la cui sovranità nazionale è limitata da una situazione di semi-colonialismo e occupazione militare? Quale valore il meccanismo della rappresentanza ha, in un contesto in cui elezioni regolari hanno luogo ma con evidenti limiti imposti dalla presenza di interessi stranieri?
È cruciale rendersi conto che tali questioni sono valide ben oltre il Libano e l’Iraq, e animano discussioni, dibattiti e proteste in altri contesti come la Palestina e i paesi arabi del Golfo. Si tratta, insomma, di segnali di un immaginario politico nuovo, che trascende i confini nazionali sia nel senso di disegnare una geografia politica transnazionale, in continuità con il ciclo aperto dalle primavere arabe, sia nel senso di andare oltre il concetto di cittadinanza e rappresentanza politica incardinati sullo stato nazione come attore centrale dell’immaginario politico dominante.
Il potenziale rivoluzionario di questi movimenti – fragilissimo e attraversato da numerose contraddizioni – è quello che spaventa gli Stati Uniti e i suoi alleati e rivali; ed è quello che disorienta molta parte della sinistra, che ragiona secondo logiche costruite sulla contrapposizione all’imperialismo statunitense e null’altro. Questo ragionamento rifiuta di considerare forme di imperialismo e colonizzazione al di là di quelle agite dagli Stati Uniti. Non riconosce ad esempio l’occupazione di parte di territorio siriano nella regione di Tartus da parte della Russia come un atto di colonizzazione ma anzi, lo vede come una sottrazione di territorio alla potenziale colonizzazione statunitense e quindi come, paradossalmente, un atto anti-imperialista. Questo ragionamento è odioso perché riduce i conflitti sociali all’opposizione alle politiche targate USA, negando la legittimità dell’aspirazione a libertà, autodeterminazione e giustizia politica e sociale di milioni di siriani, iracheni, iraniani, yemeniti. Secondo questa logica infatti chi si oppone a Putin, Assad o al governo iraniano farebbe il gioco dell’imperialismo statunitense. Si tratta di una logica profondamente razzista, che nega l’umanità e la capacità di autodeterminarsi a milioni di persone. Si tratta di una logica che vuole i popoli mediorientali incapaci di discernere il proprio interesse politico e perciò destinati ad essere governati da un potere autoritario, che metta quindi ordine in società barbare, caotiche e naturalmente inclini alla violenza.
L’assassinio, illegale secondo il diritto internazionale, di Soleimani rafforza queste dinamiche di repressione e sfruttamento coloniali. Quali saranno le sue conseguenze? È importante ricordarsi che è stato Trump a iniziare lo smantellamento della fragile distensione diplomatica tra gli Stati Uniti e l’Iran con il ritiro unilaterale dall’accordo sul nucleare nel 2018. L’Iran ha, nonostante tutto, agito con moderazione e sensatezza, ma stando all’attualità degli ultimi giorni, la spirale di violenza ha buone probabilità di allargarsi. Il circolo di attacchi e minacce è iniziato, l’Iran si è a sua volta disimpegnato dall’accordo sul nucleare, in Libano e Iraq si sono attivati gruppi vicini all’Iran e negli Stati Uniti sembra essere iniziata una “caccia alle streghe” contro i cittadini iraniani. La guerra è già in corso per gli abitanti di Aleppo, Idlib, le zone del Rojava occupate dalla Turchia, per gli yemeniti, e ha mandanti precisi a Washington, Mosca, Teheran, Ryad e Tel Aviv. E li ha anche a Strasburgo e a Roma. Una guerra contro l’Iran è assolutamente da evitare: essa aumenterebbe il numero delle persone vittime di violenza e allargherebbe la geografia della guerra con conseguenze difficili da perimetrare. Potrebbe questa minaccia convincere altri attori politici internazionali, quali l’Europa, ad agire in maniera forte e determinata per fare altro che non sia assistere in silenzio alla morte di decine di migliaia di persone nel Mediterraneo e ai suoi confini?