L’invecchiamento e il lavoro di cura spiegati ai ragazzi

Racconto di un compito difficile.

Durante il viaggio in treno e appena prima di entrare al liceo di Scienze Umane Carlo Rinaldini ad Ancona per il progetto , a cui hanno partecipato miei colleghe e colleghi dottorandi e altri ricercatori, c’era un pensiero fisso che mi frullava in testa: come spiego cosa significa fare una ricerca antropologica sull’invecchiamento e sul lavoro di cura a delle classi di terza liceo? E poi soprattutto: ma perché diavolo dovrebbe interessargli? A me, alla loro età, non sarebbe interessato. In effetti, forse avrei potuto prestare un briciolo di attenzione a una persona esterna venuta a fare una lezione se avesse trattato un altro tema più affascinante. Ma non quello di cui dovevo parlare io: non usanze misteriose di luoghi lontani, ma testimonianze ed esperienze sull’assistenza agli anziani in Italia, il Paese in cui vivono1. Quanto di più banale e noioso potesse esserci. Da tipico maschio sedicenne avrei pensato che una lezione sul prendersi cura di anziani che invecchiano e si ammalano sempre di più fosse estremamente noiosa, inutile, triste, retorica e forse anche sdolcinata e melensa. Poco ma sicuro. E se per giunta delle ragazze o dei ragazzi che stessero vivendo un’esperienza simile – con un parente malato in famiglia – avesse trovato il tutto come una violazione inaccettabile di un proprio vissuto privato, sentendosi giudicati e offesi?

Poco tempo fa, durante una lezione a un corso triennale di Scienze della Formazione, mentre parlavo di come le persone affette da demenza vengano emarginate e considerate delle non-persone agli occhi di familiari, amici, operatori sanitari e della comunità, una signora è scoppiata a piangere ed è uscita dall’aula. Non male come prima lezione. Mi ricordo i suoi occhi: erano pieni di sbigottimento, rabbia e rancore, verso di me e o forse anche verso sé stessa e qualcun altro, chissà. Non potevo saperlo, come mi ha detto la mia tutor cercando di confortarmi dopo che io le ho raccontato l’accaduto. In effetti, non ho avuto il coraggio di chiederle come stava. Non una parola, non un gesto. Una cosa che ogni tanto rimpiango. O forse non troppo come vorrei.

«I ragazzi? Beh, è difficile capire cosa gli interessi. Io non ci metterei troppo amore, noi stessi facciamo molta fatica a capirlo». Le parole dell’insegnante che doveva accompagnarmi in classe non mi rassicuravano molto, anche se diceva essere estremamente contenta del tema che dovevo trattare e di come volessi presentare la mia ricerca attraverso articoli di giornale, immagini e interviste. «È un tema bellissimo perché si intreccia con tanti temi ed è qualcosa che ci riguarda tutti! E poi qualcuno che ci raccontasse concretamente come si fa una ricerca in antropologia era proprio quello che stavamo cercando, perché noi ne sappiamo poco di quella disciplina – io ho una formazione filosofica – e il programma è molto difficile». Un discorso che testimonia il periodo di transizione che stiamo vivendo: l’antropologia è da poco entrata a far parte dei programmi di insegnamento nei licei di Scienze Umane e a volte gli stessi insegnanti si trovano in difficoltà per mancanza di una preparazione specifica. E a ciò si aggiunge la fatica di dover insegnare molte materie che spesso si trovano in conflitto fra di loro. Questo è uno di quegli aspetti della tanto celebrata integrazione fra saperi e discipline di cui si parla meno, che sia nell’università, nella scuola o nel sistema sanitario. Integrare non dovrebbe voler dire solo accorpare tante cose insieme per risparmiare (almeno apparentemente) tempo e risorse facilitandone (anche questo solo apparentemente) il controllo e la gestione; ma questa è una questione che esula da questo spazio.

E poi alla fine è andata. Ho raccontato loro delle trasformazioni di una società che invecchia anche nel continente asiatico e in quello africano, a lungo considerati come un serbatoio di forza lavoro giovane per l’Occidente. Un fenomeno imputabile in larga parte ai progressi tecnologici raggiunti dalla medicina che ha contribuito a cambiare radicalmente la concezione della medicina stessa, nonché il modo in cui guardiamo al ciclo della vita. Ho spiegato l’attenzione crescente che nasce verso disturbi una volta fatali quasi come un senso di colpa interno agli ambienti sanitari, e la necessità di riflesso di elaborare percorsi assistenziali a fronte di malattie per cui non esiste ad oggi una possibilità di guarigione, in una società in cui la vecchiaia è sempre di più associata a una situazione di controllo e sorveglianza date le ricadute sul piano previdenziale e sanitario. Abbiamo visto insieme delle immagini stereotipate di badanti e dei cosiddetti caregiver familiari che girano sul web: donne giovani, belle e sorridenti affianco ad anziane e anziani anche loro sorridenti e felici da un lato, donne stanche, tristi e infelici accompagnate a persone anziane dallo sguardo vacuo e assente dall’altro.

Ho mostrato loro i racconti recenti dei media italiani, con toni apocalittici ed eroici, della condizione dei caregiver che assistono con grande fatica un proprio parente anziano, spiegando come le difficoltà di tradurre il termine caregiver – che qualche studente conosceva – fossero difficoltà non solo linguistiche, ma culturali a tutti gli effetti2. Care in inglese indica sia il concetto di prendersi cura come prendersi a cuore sia quell’insieme di attività pratiche che in italiano traduciamo più facilmente come assistenziali, delegate in modo sempre maggiore e per tempi sempre più lunghi a un pubblico di non-specialisti nell’ambiente domestico.

A partire dalle testimonianze di alcuni frequentatori di gruppi di auto-mutuo aiuto fra caregiver in Emilia-Romagna, ho cercato di farli ragionare sulle similitudini di due categorie, caregiver e badanti, spesso concepite come opposte fra loro. Ragionando con loro di come possiamo anche credere che l’empatia sia il modo migliore per prendersi cura di qualcuno, ma ciò non toglie che in larga parte impariamo come prenderci cura di qualcun altro solo vivendo quell’esperienza, proprio come impariamo a essere figli o figlie di un genitore che si ammala: in questo senso la cura risente di un processo di costruzione culturale. Ciò non significa che sia illusorio, ma che risulta appunto da un apprendimento legato all’esperienza diretta. Un’esperienza rispetto a cui saperi e sistemi di valori più che solidi appaiono attraversati da zone opache e contraddizioni. E in cui le scelte che operiamo possiamo considerarle davvero solo a posteriori, anche se sentiamo costantemente il bisogno di giustificarci proprio perché avvertiamo giudizi e pressioni dal di fuori. Un gruppo di aiuto significa proprio questo: confrontare la propria esperienza con quella degli altri fra pari, in un ambiente in cui poter condividere questioni così intime e private senza che calino giudizi e retoriche morali opprimenti.

Qualcuno fra i ragazzi ha risposto. C’è chi parlava dei rapporti difficili con la badante in famiglia, chi raccontava come la propria madre passasse molto tempo a prendersi cura del nonno e non riusciva a essere molto presente per loro, chi diceva che i più fortunati sono quelli che sono già in pensione e possono assistere un parente in modo più semplice. Forse non è un caso che a partecipare siano state più le ragazze dei ragazzi, una cosa che ho notato anche in quella (disastrosa) prima lezione all’università. E un’altra cosa che ho notato è che non sembravano affetti da nessun senso tragico su questi temi: riuscivano ad accettare certe questioni più facilmente, dotati di grande consapevolezza e spirito critico. Allora forse bisognerebbe avere più fiducia negli studenti, e capire che a volte sono esigenti con i propri insegnanti proprio come questi lo sono con loro. Anche questo a volte è un peso grande da sopportare per il proprio ruolo, ma ciò non toglie che i giovani abbiano le loro ragioni a esserlo.

*Le immagini che accompagnano questo articolo sono tratte dal Amour  (2012) di Michael Haneke.

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Note

  1. Tanto per citarne alcuni, esempi classici di antropologia del fenomeno del badantato sono il volume di Francesco Vietti, Il paese delle badanti, Meltemi, Torino 2010; ma anche il recentissimo lavoro di Gabriela Nicolescu, Keeping the elderly alive. Global Entanglements and Embodied Practices in Long-Term Care in Southeast Italy, in Anthropology & Aging, volume 40, numero 1 2019.
  2. A tal proposito, si vedano le considerazioni di Elana D. Buch, Anthropology of Aging and Care, in Annual Review of Anthropology, volume 44 2015, pp. 279.
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