di Paolo Jedlowski
Il Presidente dell’A.I.S. mi chiede di avviare questo nuovo Forum. Accolgo con piacere l’invito. Non che senta in questo momento la vita dell’associazione di sociologia particolarmente densa. Ma l’invito è inteso a renderla tale. E poi dell’A.I.S. faccio parte, è una faccia della mia identità. Come lo è, al di là della materia che insegno, il fatto di essere un professore universitario. L’università (specialmente pubblica) è in difficoltà. Genera amarezza. Attualmente siamo alle prese con l’ennesimo riordino, non solo delle offerte formative, ma dell’organizzazione complessiva, dai consigli di amministrazione ai nuovi dipartimenti. Impressione di perdere tempo; beghe fra colleghi: chi è infastidito, chi non ne può più, chi cerca soprattutto di mantenere le posizioni acquisite. Chi pensa di cogliere l’occasione per qualche innovazione non ha molte chance. L’aspetto oggettivo della situazione consiste nel drammatico scorciamento dei fondi e nel disordine che sembra quasi intenzionalmente perseguito dall’alto. È un attacco all’università che ci ha visti corresponsabili, specialmente per la cattiva gestione dei concorsi negli ultimi decenni (con responsabilità ben diverse, ma un po’ tutti corresponsabili, effettivamente, se non altro per aver lasciato correre).
Lamentarsi di quello che non va, o che non c’è, è un esercizio utile, ma forse fin troppo facile. Qui vorrei provare a dire di qualcosa che c’è ed ha valore. Scelgo di dire questo: c’è un movimento di nuovi giovani sociologi. L’affermazione è azzardata. Proverò ad articolarla.
L’impressione dell’esistenza di qualcosa del genere l’ho maturata girando per i convegni, i seminari o le conferenze che, come tutti, faccio in giro in Italia. Penso a città dove sono stato da poco: Siena, Pisa, Lecce, Messina. Potrei aggiungervi la mia sede, Cosenza. Altre che conosco: Milano, Napoli. Se quel che dirò ha un senso, altri aggiungeranno considerazioni basandosi su sedi diverse. L’impressione deriva dai contatti che mi trovo ad avere con molti giovani, dalle cose che scrivono e che mi fanno leggere, dalle mail che scambio. Fra i libri e i saggi che mi mandano ci sono le cose più interessanti che ho letto recentemente. Non mi sembra opportuno citarli singolarmente (ne ometterei troppi per ignoranza), parlerò dunque generalizzando.
Dico della percezione di un movimento di nuovi giovani sociologi. In verità, tutte le parole di questa espressione sono imprecise. Precisandole, spiegherò l’impressione.
Per prima, la parola “giovani”. Si tratta di persone fra i 30 e i 40 anni. In altri tempi, di adulti. La loro gioventù è soprattutto riferita alla collocazione istituzionale: qualcuno è ricercatore, la maggior parte dottorandi o dottori di ricerca. Esperienze e pubblicazioni importanti: ma lavoratori precari. Diversi di loro studiano, lavorano o pubblicano all’estero. Alla novità del lungo precariato, una novità negativa, si aggiunge questa, che direi positiva: si tratta di persone inserite in reti di relazioni molto più internazionali delle generazioni precedenti.
Ma anche l’aggettivo “nuovi” va precisato. Si tratta di studiosi che affrontano spesso temi di cui è nuovo occuparsi: o perché si tratta di fenomeni recenti, o perché è nuova la scala (la dimensione nazionale è sempre più irrilevante), o perché è nuova la sensibilità con cui li affrontano. Ma la novità non è assoluta: questi studiosi affrontano globalizzazione e migrazioni, new media e mobilità sul lavoro, bioetica e nuove tecnologie, sfere pubbliche e cittadinanza, utilizzando e mettendo alla prova concetti che provengono dalla tradizione scientifica della disciplina. Si basano sulle ultime versioni delle teorie disponibili, ma non mi danno l’impressione di aver voltato pagina. Citano Simmel, Schutz, Bourdieu, Habermas o Frantz Fanon, assieme ai protagonisti più noti del dibattito internazionale di oggi: si collegano a una tradizione, la rivisitano e la rivitalizzano. Del resto, sono allievi di qualcuno: e nei loro lavori la presenza di insegnanti, quasi sempre, si avverte.
Che la parola “movimento” sia adeguata poi è molto incerto. Anzi, forse non dovrei proprio usarla, se non come una sorta di wishful thinking. Molti di loro partecipano alle lotte dei lavoratori precari, ma, nonostante qualche successo, almeno in termini di visibilità, non mi sembra abbiano una coscienza collettiva né un senso di un “noi” molto più sviluppato della percezione di un comune disagio. Specialmente in quanto studiosi, non appaiono coesi. Fondano associazioni locali, laboratori (anche per partecipare a qualche bando per attività culturali), o partecipano a gruppi che qualche professore ha costituito; ma stentano a fare rete; capita più spesso a me di segnalarli uno all’altro di quanto non mi accada di scoprirli già collegati (con qualche eccezione: specie fra chi frequenta di più convegni all’estero). Il “movimento”, insomma, sono io a percepirlo: girando per le varie città trovo situazioni analoghe, studiosi attenti, insoddisfatti, capaci, che si somigliano, premono e offrono saperi nuovi.
La parola “sociologi”, infine, è imprecisa per due diversi motivi. La prima è che molti di quelli che incontro non vengono da dottorati in sociologia: incontro politologi, storici, antropologi, persone che vengono dalle discipline dello spettacolo. C’è un’area complessiva di scienze sociali che si afferma e che vive in ciò che queste persone portano ai diversi convegni. La seconda è che i loro stessi lavori sono spesso marcatamente interdisciplinari. La sociologia ha qualcosa di interdisciplinare nel suo patrimonio (si diventa sociologi solo con una buona base di filosofia, storia, economia e scienze statistiche), ma qui la faccenda è più spinta. I lavori di un giovane sociologo, di un antropologo, di uno storico sociale, un semiologo o uno studioso di cinema si distinguono appena. Ed è giusto, perché ciascuno ha bisogno del patrimonio concettuale e conoscitivo dell’altro. Le discipline sono tradizioni consolidate ed è necessario sprofondarsi almeno in una di loro, nel corpo a corpo con uno stile di pensiero, per formarsi dignitosamente: ma, poi, non riesco a pensare quasi a nessuna ricerca in cui saperi diversi non debbano mescolarsi. I “nuovi sociologi” di cui parlo, così, non sono necessariamente sociologi o non lo sono soltanto: si collocano nel campo degli studi sociali, i cui confini interni sono tutto fuorché impermeabili.
Sui temi di cui mi occupo, come ho detto, le cose più interessanti che oggi leggo provengono da queste persone. A fianco di altri libri, certo. Specialmente alcuni lavori collettivi che spesso provengono da convegni dell’A.I.S. (non lo dico per piaggeria, ma a testimonianza del fatto che le Sezioni, almeno alcune, svolgono il proprio lavoro). Nei convegni nazionali in genere ai giovani è dato uno spazio modesto (con rare eccezioni). A volte mi prende il desiderio di radunarli, di invitarli ad uno a uno e di metterli insieme. Ma sono anche loro, direi, a doversi organizzare (come spesso fanno: a certi seminari sono gruppi di giovani ad avermi invitato).
Al riconoscimento della loro esistenza, al piacere di imparare da loro, si affianca la sofferenza per il disagio in cui stanno. Nei settori di cui ci occupiamo, le prospettive di lavoro retribuito sono diminuite drasticamente. Ci troviamo davanti a persone cresciute in un periodo che favoriva certe aspettative, e queste aspettative ora sono deluse. Persone per cui la linea d’ombra, quella che per Conrad segnava il passaggio dalla gioventù all’età adulta, sembra non potersi mai attraversare.
Di Linea d’ombra ho parlato qualche tempo fa con alcuni di loro. Il protagonista del romanzo di Conrad attraversa una sorta di progressione: dapprima è giovane, poi si mette alla prova, matura e la sua maturità viene riconosciuta (alla fine del racconto, dopo il viaggio in cui per la prima volta è stato comandante e che è stato singolarmente difficile, dice: “Non sono più un giovane”; e l’interlocutore, un vecchio capitano, annuisce). È un rito di passaggio. Ma ecco il commento via mail di una mia interlocutrice (ho il suo permesso per la citazione, ma non vorrei mettere nomi):
«Io credo che per la mia generazione non ci sia niente di simile. Non c’è nessuna progressione e, soprattutto, sempre più spesso manca un riconoscimento delle nostre esperienze come esperienze di maturazione, da parte di adulti autorevoli. Un riconoscimento mancato che ci impedisce di approdare a uno stadio successivo a quello in cui navighiamo o meglio in cui siamo impaludati: una condizione di passaggio senza fine. La sensazione è di vivere non sulla linea d’ombra, ma in un cono d’ombra, attraversato per di più da continue linee d’interferenza come quando sparisce in televisione un programma. A noi, o a molti di noi, è sparito il futuro e il presente è costituito da un continuo sforzo per riuscire a superare queste linee d’interferenza, solo che ogni volta ne troviamo una nuova e continuiamo ad essere imprigionati in questa cornice temporale. Le esperienze che viviamo sono così esperienze strozzate, a termine, prive di temporalità, di un legame con le esperienze passate e di un legame con un io futuro. Questo porta a una graduale e lenta perdita di vitalità, di energia. Le esperienze ‘a scadenza’ che viviamo sempre meno sono capaci di produrre una energia prospettica che nasce e fa nascere entusiasmo e desiderio. Forse abbiamo ancora un po’ di energia di riserva. In ogni caso, in quanto energia di riserva, questa è una energia ad esaurimento, destinata a consumarsi nel tempo.»
L’interlocutrice pubblica su una nota rivista di sociologia, ha scritto uno dei libri che mi è stato più utile recentemente. Altri, altrettanto bravi, pensano cose analoghe (anche se il tono non è sempre così amaro: c’è chi è più propositivo). Ma i nuovi giovani meritano tutta la nostra attenzione. Prima che l’energia si esaurisca.
[Questo articolo è stato originariamente pubblicato all’interno del Forum dell’A.I.S. – Associazione Italiana di Sociologia]