Verso una Rai senza autori. Intervista a Linda Brunetta sulla riforma Franceschini

Una serie di interviste a cura di Chiara Zanini sulla legge di riforma del cinema e dell’audiovisivo.

Quando poche settimane fa il Ministro Dario Franceschini ha presentato la riforma del cinema e dell’audiovisivo in sala stampa nessuno ha rivolto domande. Non avendo finora mai raccontato le audizioni in Commissione delle associazioni di categoria, tutto quello che è stato in seguito scritto oscilla tra la riproposizione entusiastica del vago comunicato del Ministero, le foto dei quattro registi premi Oscar ricevuti da Renzi, e i commenti di «Libero», secondo cui valorizzando i film premiati ai festival e sanzionando le reti che non trasmettono film italiani ci avviamo verso una “dittatura rossa”. Tra i soggetti auditi figurano anche Confindustria e Medusa, ma purtroppo il comunicato non dà conto delle questioni sollevate dai lavoratori del settore. Che sono in buona parte precari e spesso condannati all’invisibilità, nonostante il loro impiego sia necessario alla sopravvivenza stessa dell’industria.

Avevamo parlato di questa legge con Franco Montini, presidente del SNCCI – Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, quando era ancora un ddl. Nel frattempo i termini sono cambiati ed è stato esplicitato che la riforma è collegata alla legge di stabilità. Abbiamo quindi deciso di proseguire l’indagine sul cinema e la televisione italiana attraverso gli occhi di chi ci lavora. Tocca ora a Linda Brunetta, presidente di Anart – Associazione Nazionale Autori Radio e TV, le cui precisazioni cambieranno forse il nostro modo di pensare questa professione. Attualmente ancora una volta impegnata in un progetto con Francesca Reggiani, l’autrice e conduttrice di trentennale esperienza ci racconta una Rai molto diversa da come i suoi lavoratori la vorrebbero.

Chiara Zanini : A partire dall’esortazione a riformare non solo il cinema e gli audiovisivi, ma anche la televisione italiana e la Rai in primis, l’intervento di Anart in Commissione è stato una sorta di appello. Da dove dovrebbe iniziare il cambiamento?

Linda Brunetta: Dalla linea editoriale dei canali. La Rai dovrebbe cercare di differenziarsi, di dare più identità ai vari canali che adesso sono più o meno tutti uguali. Dovrebbe sforzarsi di rappresentare altre voci e altre istanze della popolazione. Al momento c’è una linea monocorde dei palinsesti del servizio pubblico. Per quanto riguarda l’intrattenimento radiotelevisivo che come Anart rappresento . Per quanto riguarda l’intrattenimento radiotelevisivo che come Anart rappresento a mio parere ci sono troppi talk show i cui protagonisti sono i politici e molto meno la gente comune. Quasi il 90% dei format di intrattenimento provenienti dall’estero. Siamo molto importatori e poco esportatori: gli autori italiani non sono tenuti in considerazione per le loro idee e hanno finito per essere adattatori di format stranieri importati. Il servizio pubblico non punta come invece dovrebbe — e come da contratto di servizio — sulla valorizzazione dell’autorialità, sulla sperimentazione, sulla creatività e sull’originalità del prodotto italiano, ma si fonda sulla certezza dei format acquistati all’estero, senza nemmeno valutare di promuoverne di nuovi pensati per un mercato sia italiano, sia internazionale.

C.Z. : Dopo l’incontro tra i premi Oscar e Renzi, Bernardo Bertolucci ha ricordato che la censura imposta a Ultimo tango a Parigi gli impedì di votare per più di cinque anni (a seguito di un processo conclusosi nel 1976 che avrebbe potuto valergli anche quattro mesi di carcere). Vent’anni più tardi Bertolucci ebbe una sorta di censura anche da parte della Rai che rifiutò la messa in onda del trailer di Io ballo da sola. Il ministro Franceschini oggi dice che con la nuova legge non ci sarà più un organismo di censura, saranno possibili solo alcune eccezioni. Il sito del Ministero utilizza tuttora termini come “offesa al buon costume” per tentare di spiegarne l’utilità. In ogni caso produttori e distributori spesso agevolano il lavoro della cosiddetta Commissione per la Revisione cinematografica presentando i film in più versioni. Capita qualcosa di analogo anche ai programmi televisivi o radiofonici? Qual è il percorso ordinario?

L.B. : Non ce n’è uno chiaro e trasparente per chi abbia proprie idee di nuovi programmi o format. Gli autori si ritrovano quindi a presentare proposte basate seguendo percorsi basati sulle proprie conoscenze. Se la proposta viene respinta, le loro idee possono essere copiate senza alcun riconoscimento. Non c’è rispetto né tutela legale per questo tipo di prodotti. Con la conseguenza che ormai i professionisti faticano a presentare nuove proposte, a meno che non abbiano delle garanzie o non siano produttori loro stessi. Come Anart abbiamo organizzato di recente un convegno proprio a tale proposito, dopo che alcuni autori si sono trovati a ideare programmi (soprattutto game shows) di grande successo senza poi vedere riconosciuti i propri diritti.

C.Z. : La Riforma del cinema promette di inglobare il ddl di Giorgi, che conteneva molte criticità da tempo evidenziate dalle associazioni di categoria, ma aveva anche aspetti positivi come la volontà dichiarata (all’articolo 7) di sostenere le nuove opere sin dalla loro fase di ideazione e di scrittura. Quali proposte metterete in campo affinché questo possa riguardare anche le opere destinate a televisione e radio? Si può pensare ad esempio alla richiesta di un numero minimo di nuovi format per ogni canale, o comunque ad un sistema di quote?

L.B. : C’è già stato uno spazio anche in Rai per sviluppare nuovi progetti radiotelevisivi e dopo essere stati sviluppati questi trovano spazio nei palinsesti. Quindi una quota a loro dedicata potrebbe sì essere specificata nella legge, in modo da imporre alla televisione di Stato di mandarli in onda, e non alle quattro del mattino. Esistono anche canali tematici della Rai, ad esempio quelli dedicati all’arte, ma non viene dato loro budget per la produzione.

C.Z. : Come viene stabilito il palinsesto di quei canali?

L.B. : Da spettatrice mi pare che si fondino sull’acquisto di molti prodotti esteri che costano meno, e senza creare veri e propri programmi, anche quelli vendibili all’estero, come ad esempio quelli che si vedono su Arte [canale televisivo franco-tedesco]. Con il nostro patrimonio artistico e culturale potremmo diventare leader in questo campo.È più facile ad esempio vedere un servizio girato al Teatro alla Scala che un programma vero e proprio dedicato all’Opera, perché con i budget a disposizione non è fattibile.

Il problema principale per noi è che La Rai tende a fare contratti per opere non tutelate da diritto d’autore. Abbiamo l’impressione, data la diffusa pratica di non applicare agli autori contratti di commissione Siae, che ci sia quasi un ordine proveniente dall’alto.

C.Z. : In che modo questo è possibile?

L.B. : La Rai non riconosce come programmi tutelabili quelli che invece sarebbero già tutelati dalla normativa SIAE. Non  l’unica emittente dove si riscontra la tendenza ad eliminare i diritti d’autore. Ho sentito che hanno avuto difficoltà a farsi riconoscere i diritti persino gli autori del programma di Maurizio Crozza, che è chiaramente un programma per LA7 scritto dall’inizio alla fine. Vengono proposti contratti per “testi espositivi non creativi”, come se fossero possibili. E vengono riclassificati come “giornalistici” gli infotainment, in modo da poter non pagare i diritti ai loro autori. Il risultato è ovviamente un palinsesto povero. Gli autori di cinema hanno vinto una doverosa battaglia contro la Rai [per ottenere l’adeguamento dei proventi per l’equo compenso – successivamente vinta anche contro Sky e contro Mediaset]. In tv ci sono stuoli di autori veramente creativi. Ad esempio non si può dire, al di là che piaccia o meno, che il Grande Fratello non abbia numerosi autori dietro le quinte. La conseguenza naturale è che meno il lavoro creativo è riconosciuto, meno si avrà lavoro di qualità. Non è sempre stato così, un tempo gli autori erano riconosciuti come tali.

C.Z. : Quali sono per voi le tipologie di contratto più comuni?

L.B. : Possono essere come dipendenti di produzione, oppure a partita iva in quanto consulente, oppure ancora legati al prodotto in sé. Nel caso di una sceneggiatura, ad esempio, di solito è per metà attestazione professionale, per l’altra metà diritti d’autore.

C.Z. : Un altro aspetto di cui non si sta parlando è la scarsa rappresentatività che come associazioni avreste nel futuro Consiglio superiore per il cinema e l’audiovisivo.

L.B. : Già. Analogamente, anche nel Consiglio di amministrazione della Rai è raro trovare un autore. Sono presenti tutte le categorie eccetto quella che ha effettivamente un know how sul prodotto. Nel caso del Consiglio per il cinema e l’audiovisivo, questo è davvero scandaloso. Non è comprensibile come non vengano adeguatamente rappresentate le categorie dei lavoratori e in primis gli autori. Per la nostra professionalità non c’è la considerazione che c’è invece in paesi come Stati uniti, Francia e Gran Bretagna. Io ad esempio sono autrice da trent’anni, ho vinto Telegatti, ho una voce a me dedicata nell’Enciclopedia della televisione, ma nella carta d’identità non posso dichiarare il mio mestiere. E questo è ovviamente un problema culturale oltre che politico. Il fatto di non essere adeguatamente presenti nel board del futuro Consiglio superiore per il cinema e l’audiovisivo è la dimostrazione che per qualcuno non dobbiamo avere voce in capitolo. Lo dico a titolo personale, a mio avviso c’è un gap culturale rispetto a questa professione: nel Paese come nelle istituzioni la nostra non è riconosciuta come una professionalità importante. Tant’è vero che il sistema previdenziale per noi è molto lacunoso, non abbiamo le stesse garanzie di altri lavoratori del settore.

C.Z. : Qual è la vostra opinione rispetto ai nuovi media? Alcuni ne parlano con sospetto, ma non potrebbero essere invece per voi occasione di maggiore libertà espressiva? 

L.B. : Sì, anche perché il pubblico che hanno è enorme. Capita sempre più spesso che personalità emerse grazie a YouTube e alle web serie, come ad esempio The Pills, vengono valorizzate anche dal cinema e dalla televisione. Ma perché allora la televisione non dimostra la volontà di creare lei per prima? C’è un fermento creativo, ma non viene promosso.

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