L’immagine-lacuna

Riflessioni sulle condizioni di visibilità della Shoah.

I fratelli Sril (Israel) e Zelig Jacob. Fotografia tratta dall’”Album Auschwitz”.

Nel volume Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini (Raffaello Cortina Editore, 2020) Michele Guerra esamina alcuni casi paradigmatici relativi alle condizioni di visibilità della Shoah, cioè delle modalità attraverso cui si è sino ad ora tentato di mostrare l’orrore dei lager.

L’immagine della Shoah è un’immagine costretta a riflettere sulla propria natura, sulla propria limitatezza e sul suo accettarsi come campo aperto di pensiero operativo e politico rispetto non solo al tema che tratta, ma anche, inevitabilmente, all’apprendimento e alla comprensione mediale nel nostro tempo. (pp. 117-118)

L’analisi dei processi di costruzione delle immagini che hanno tentato di raccontare la Shoah offre indicazioni utili su ciò che Georges Didi-Huberman ha descritto come il non tutto dell’immagine, ossia il fatto che inevitabilmente le immagini possono proporre soltanto frammenti di reale costringendoci a fare i conti con le lacune e con il ruolo esercitato dall’invisibile sulle immagini. Non si tratta di ricorrere alla Shoah come pretesto per indagare altro, ma piuttosto di vedere in essa il vertice del rapporto tra vedere, immaginare e sapere che continua, incessante, a svilupparsi nel corso del tempo.

Le riflessioni di Guerra prendono il via dal finale di La notte (1956) di Elie Wiesel, ove lo scrittore, una volta raccontata la sua permanenza nei lager evitando il controcampo dello sguardo, decide di offrirlo al lettore e lo fa limitandosi ad affrontare il proprio sguardo, senza pretese di esaustività. In tale scelta lo studioso vede una vera e propria lezione di etica del controcampo.

Nella celebre fotografia dei fratelli Sril (Israel) e Zelig Jacob, tratta dall’Album Auschwitz, che raccoglie fotografie scattate dai nazisti a Birkenau, Guerra individua una traccia dell’arrivo dei due al lager ed allo stesso tempo della sparizione del contesto, del fuoricampo: la lacuna dell’immagine. Tale immagine dovrebbe essere letta per ciò che non si vede, ciò a cui rimandano gli sguardi dei due. Impossibile sapere cosa guardava Siril ma, sottolinea lo studioso, sappiamo chi sta guardando Zelig: il suo assassino che lo sta immortalando. I suoi occhi sono Auschwitz: fissano il fotografo, dunque noi, trasformandoci in fuoricampo, ossia in chi interroga il bambino anziché rispondere al suo sguardo. Questa foto, oltre al livello di descrizione offertoci da ciò che vediamo, propone un livello di interpretazione che procede da quel che non vediamo.

Distogliere lo sguardo, soprattutto ora che i testimoni non ci sono più, è un atto di irresponsabilità non soltanto verso la memoria dello stermino, ma anche verso il dovere di conoscenza e analisi delle immagini di cui il nostro tempo ha sempre maggior bisogno. Fissare l’inenarrabile non significa narrarlo. Indagare il fuori campo non significa portarlo in campo. Perorare la causa dell’invisibile non significa tramutare l’invisibile in visibile. (pp. 35-36)

Gli occhi di Zelig sono l’immagine-lacuna, quella che Georges Didi-Huberman chiama immagine-sparizione e Jacques Rancière soppressione.

I film sulla Shoah, secondo Jacques Rivette, devono scartare l’opzione realista al fine di evitare forme di voyeurismo, di assuefazione e di spettacolarizzazione dell’orrore. L’immagine, prosegue Guerra riprendendo le riflessioni del regista francese, deve piuttosto

accettare di tendere all’inesatto e all’inadeguato e articolare i “momenti di verità” che per Didi-Huberman erano il sigillo delle quattro fotografie superstiti del Sonderkommando di Auschwitz, traccia di ciò che non si vede più, segno di una qualità invisibile e di una resistenza nuova in un mondo «rimpiazzato, e quasi soffocato dall’ossessione del vedere» (pp. 49-50).

È in Notte e nebbia (1955) di Alain Resnais che Rivette aveva individuato un esempio etico e poetico per un discorso sulla necessaria alterità delle immagini della Shoah. Nel film si alternano crude immagini d’archivio in bianco e nero con filmati a colori dei campi liberati. Se è negli spezzoni storici che il pubblico potrebbe cercare quel contenuto volto a sostenere le ragioni del vedere, è invece il presente dei campi di sterminio a far funzionare il film come dispositivo d’allerta.

Nel film Resnais fa coincidere l’inimmaginabilità dei campi con l’impossibilità di mostrare la paura; è il montaggio, nel suo uso morale e politico, secondo Rivette, a salvare il film dalla spettacolarizzazione dell’orrore. Resanis ha dunque costruito la sua opera sulla differenza esistente tra il far vedere ed il rendere visibile, ossia far emergere il visibile dalla mancanza, saldando così la natura dell’immagine con l’orrore della Shoah.

Il figlio di Saul (Nemes, 2015).

Nel porsi il problema di come definire la Shoah e di come farlo attraverso l’immagine in movimento, László Nemes, nel film Il figlio di Saul (2015), evita di provare a definire la Shoah per occuparsi di definire la sua immagine cinematografica, focalizzandosi sulla tecnica di definizione di questa. Nell’opera nulla è nitido; non lo è il lager, non lo sono i volti ed i corpi e nemmeno i dialoghi. È su tale mancanza di nitidezza visiva ed acustica che il film apre la storia e la ferita del lager. È sull’esempio dei manoscritti sepolti ad Auschwitz dai nazisti e delle quattro fotografie scattate probabilmente da Alberto Errea, che Nemes deriva l’idea di un film palesemente basato sulla precarietà. Al regista, secondo Guerra, interessa evidenziare «la fragilità dell’immagine e del “veder chiaro”, ma al contempo resiste alla proibizione dell’immaginare, conducendo il visibile nel mezzo del suo penare». (p. 69) L’opera dell’ungherese non lavora sull’azzeramento della visione ma sul suo restringimento; al restringersi in Saul della capacità di venire a contatto con ciò che vede corrisponde l’impoverimento visivo dello spettatore.

Guerra si sofferma anche su alcune opere incentrate su fotografie scattate dai visitatori all’interno del Memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa di Peter Eisenman a Berlino e sui comportamenti di chi visita i lager. Ad essere esaminata è innanzitutto l’installazione al Jewish Museum di New York Stelen (2007-2011) di Marc Adelman, composta da fotografie scattate tra le stele del Memoriale originariamente apparse su siti web di incontri omosessuali. Essendo l’installazione stata rimossa prima del termine in quanto considerata offensiva, Guerra argomenta perché, a suo avviso, in realtà non lo fosse. 

Il secondo caso riguarda il progetto Yolocaust (2017) di Shahak Shapira, costruito sul recupero di fotografie scattate e pubblicate sui social da visitatori del Memoriale in atteggiamenti irrispettosi del luogo. Shapira ha successivamente manipolato le fotografie sostituendo lo sfondo del monumento con crude immagini della tragedia dei lager, palesando così il processo di banalizzazione contemporanea della memoria della Shoah. Il progetto è terminato quando tutti i soggetti presenti nelle fotografie, colti dall’imbarazzo e dal rimorso, hanno chiesto che le loro immagini fossero rimosse.

A proposito della deriva comportamentale, tra selfie e foto-ricordo, di molti visitatori contemporanei dei campi di sterminio, viene preso in esame il film Austerliz (2016) di Segei Loznista. Nel mostrare l’ossessione di questi turisti dell’orrore di tornarsene a casa con immagini della Shoah, il film intende invece affrontare il presente della Shoah nel graduale sgretolarsi della lacuna.

Secondo Guerra, se Stelen si muove sulla strada dell’incertezza del senso e sull’impossibilità di definire il portato comunicativo dell’immagine, Yolocaust ha invece imboccato una direzione moralista necessitante delle immagini e dei commenti nella loro integrità per manipolarli al fine di stabilizzare il giudizio sull’oscenità del contenuto presente. L’operazione di Shapira crede nell’autosufficienza e nell’esattezza dell’immagine, contraddicendo così la convinzione dell’impossibilità della pienezza di significato dell’immagine della Shoah. In Austerliz, invece, si può parlare di un film sull’incapacità di stare in contatto con l’invisibile, sulla necessità di dotarsi di un’altra etica del vedere.

Guerra mette anche a confronto due film che, nella loro differenza, possono dirsi veri e propri saggi teorici sull’immagine: Shoah (1985) di Claude Lanzmann ed Images of the World and the Inscription of War (1989) di Harun Farocki. Si tratta di opere che ragionano sulla trasformazione dell’immagine e sulle modalità con cui essa si oppone allo spettatore. Attraverso immagini che pensano il loro stesso essere immagini, entrambi gli autori sembrano interrogarsi circa la misurazione delle condizioni di visibilità della Shoah.

Nelle sue nove ore di interviste a “traduzione ritardata” e nella lentezza estenuante dei movimenti di macchina, l’opera di Lanzmann, rifuggendo dall’idea di ricavare risposte rielaborate, complica la possibilità di comprensione ragionata affidandosi all’emotività testimoniale. «Shoah è il film dello sguardo senza visione, di un’immagine che lavoro sullo sguardo, che si sostanzia della sua forma e della sua forza, ma che non restituisce la visione di quello sguardo.» (p. 128) Come nel caso di Wiesel e di Levi, l’immagine è un’immagine-limite, oltre la quale non si riesce ad andare, di cui non abbiamo il controcampo.

Se a proposito del film di Lanzmann su può parlare di sguardo senza visione, per quanto riguarda l’opera di Farocki si può parlare di uno studio sulla visione senza sguardo. In quest’ultimo caso il regista, attraverso un montaggio di immagini di natura e provenienza diversa, induce il pubblico a riflettere su ciò che vede, su ciò che pensa di vedere e ciò che, nonostante sia presente, non vede. Farocki, con il suo intervenire sulle immagini per mostrare il non visibile e il non nascosto, si dice convinto della necessità delle immagini affinché l’inconcepibile si possa fissare nella memoria. É certamente così, chiosa Guerra, ma lo è soltanto se si approfondiscono le condizioni di visibilità di quelle immagini tentando di comprendere dove, in esse, si sia  depositato l’inconcepibile.

Images of the World and the Inscription of War (Farocki, 1989).

* In copertina fotogramma tratto da Notte e nebbia (Resnais, 1955).

 

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