Limiti alla libertà di parola?

Quello che segue è il testo, leggermente rivisto, di un intervento in un incontro dal titolo “Riflessioni sulla libertà d’espressione e prospettive nell’Università” promosso dal Senato accademico di Berkeley il 4 dicembre 2017. La traduzione è di Lorenzo Alunni, Margherita Grillo e Antonio Iannello.  

Voglio ringraziarvi per l’opportunità che mi avete dato di affrontare alcune questioni che potrebbero rivelarsi utili per la nostra discussione di oggi. Nella maggior parte dei corsi dedicati allo studio dei principi costituzionali può avere senso partire da alcuni casi che costituiscono un “problema” per la Legge. Anche io vorrei iniziare identificando una serie di problemi, non perché questo sia un corso di giurisprudenza, ma piuttosto perché una delle ragioni per cui l’applicabilità del Primo Emendamento non viene compresa chiaramente è che esso si trova spesso in conflitto con altri principi costituzionali e statuti legali. In questi casi ci si potrebbe chiedere come mai un principio costituzionale ha la precedenza su un altro e secondo quali criteri; o se ci siano nella giurisprudenza contese interpretative che richiedono forme particolari di giudizio.

Possiamo dire che affermare cosa sia la Legge, darne una definizione astratta, è più facile che fornire i criteri per giudicare al meglio, in forza della Legge, nei diversi casi concreti e specifici. E se facciamo parte di una comunità più vasta, che prova a comprendere e a venire a capo del contrasto fra un richiamo al Primo emendamento e altri principi costituzionali, o altri valori fondamentali, allora sapere cosa sia la Legge non ci dice immediatamente come meglio formulare un giudizio sulla situazione concreta.

Ho messo la questione in questi termini non per relativizzare il Primo emendamento, ma solo per sottolineare che la sua importanza, talvolta, ci appare chiara solo quando entra in conflitto con altri valori fondamentali. Per esempio, possiamo affermare che tutte le idee possono essere espresse e che qualsiasi limitazione all’espressione di idee è costituzionalmente inaccettabile, come il Preside della Facoltà di Diritto di Berkeley, Erwin Chemerinsky, ci chiede di fare. Potremmo essere d’accordo in linea di principio, ma allo stesso tempo potremmo scoprire che certe forme di espressione sono ambigue: sono esse vere attività espressive? Oppure sono forme di ingiuria? Oppure minacce verbali?

Occorre assolutamente fornire un’interpretazione di ciò che intendiamo per “attività espressiva” se vogliamo essere sicuri di trovarci di fronte a una tale attività e rivendicare serenamente che tutte le attività espressive sono lecite.

So che forse siamo tutti stanchi di trattare ancora il caso dell’invito alla conferenza di Milo Yiannopoulos [blogger, giornalista, ex redattore di Breitbart News e figura di riferimento della nuova “alt-Right”, l’estrema destra alternativa all’estrema destra tradizionale americana n.d.T.] promosso dal comitato studentesco repubblicano l’anno scorso [nella primavera del 2017 n.d.T.]. In quell’occasione ho sottoscritto una lettera della facoltà che chiedeva l’annullamento di quella conferenza. Avevo chiesto però che fossero rimossi i riferimenti alle incitazioni all’odio fra i motivi della richiesta di annullamento della conferenza stessa. Con mia sorpresa, i riferimenti alle incitazioni sono rimaste, e così anche la mia firma.

Il problema che avevo rispetto all’annunciata conferenza non era sul fatto che Yiannopoulos avrebbe espresso delle idee conservatrici; era semmai sul fatto che Yiannopoulos avesse già più volte portato delle telecamere nelle sale in cui ha tenuto le sue conferenze, proiettando immagini di persone del suo pubblico su uno schermo, contro la loro volontà, continuando a dileggiare, irridere e rimproverare alcune di quelle persone per il fatto di essere grasse o per il fatto di essere trans o, addirittura, per essere, dal suo punto di vista, brutte. In una di queste occasioni Yiannopoulos aveva pubblicato una foto di Adelaide Kramer, una studentessa trans dell’Università del Wisconsin-Milwaukee, e l’aveva tenuta come sfondo della conferenza mentre non solo la prendeva in giro, ma incoraggiava il pubblico a fare lo stesso.

Forse dileggiare e rimproverare qualcuno contro la sua volontà, per quanto offensivo, è una  forma di libertà di espressione da proteggere – purché non costituisca una minaccia fisica proprio per la persona dileggiata e maltrattata verbalmente; certamente però costituisce lo stesso tipo di minaccia contro cui  tutti gli insegnanti e studenti della facoltà sono messi in guardia con la formazione obbligatoria che adottiamo in conformità con il Titolo IX (o ciò che è rimasto del Titolo IX). Riprenderò a breve questo punto.

Ci sono almeno due livelli degni di analisi in questa storia. Il primo ha a che fare con l’uso di telecamere o trigger cams”, che proiettano le immagini di persone che fanno parte del pubblico contro la loro volontà e l’appello (diretto a coloro che guardano dalla Tv o presenti fra il pubblico) a deridere, molestare o trollare la persona presa di mira e inondare la sua email con insulti. Da cui la domanda: è giusto dire che il Primo Emendamento entra in conflitto con i protocolli anti-molestia che, abbiamo imparato, dovrebbero essere rispettati e onorati in aula e in tutte le forme di interazione sociale con gli studenti?

Il secondo livello ha a che fare con la domanda seguente: in che modo il ricorso al Primo Emendamento va anche contro i valori fondamentali dell’Università, quelli che sono costantemente invocati per incoraggiarci a una conversazione riflessiva su questioni controverse?

Lasciate che affronti ognuno di questi argomenti separatamente, per poi arrivare a una considerazione finale. La proiezione dell’immagine di Adelaide Kramer è avvenuta senza il suo consenso e a molti di noi è risultata problematica la richiesta ai membri del pubblico e a tutti gli spettatori online di invadere la sua email, di rendere pubbliche le sue informazioni personali e di invadere la sua privacy. Come definire ciò che è avvenuto a Milwaukee ad Adelaide Kramer, la studentessa transessuale che si è ritrovata la propria foto proiettata sul muro durante la conferenza, e che ha assistito «pietrificata dal terrore» – secondo le sue parole – mentre l’oratore istigava gli spettatori a molestarla? Io uso il termine “molestia”, e così ha fatto anche il Presidente Mone dell’Università del Winsconsin-Milwaukee.

Probabilmente alziamo le spalle e diciamo che questa in fondo è un’attività espressiva, ma certamente si sta oltrepassando il confine tra attività espressiva e minaccia; e questo confine è stato varcato in maniera nuova – e giorno per giorno viene superato in maniere nuove – attraverso l’uso della tecnologia per istigare le persone a dedicarsi al cyber-bullismo, che prima nemmeno esisteva.

Quindi il vocabolario giuridico che abbiamo a disposizione per distinguere l’attività espressiva dalle minacce vere e proprie o da un’istigazione a intraprendere attività illegali – le ultime due non sono protette dalla libertà di parola garantita dal Primo Emendamento – cambia quando nuove tecnologie, o nuovi usi della tecnologia, producono nuovi mezzi per l’istigazione, le molestie e la pratica di azioni illegali.

Dobbiamo elaborare una nuova concezione per tutti questi termini che sono generalmente riconosciuti come una forma di discorso non protetto. Non so con certezza quali punti di vista conservatori si stessero esprimendo in quel momento: potrei provare a trovare una forma logica per tali azioni, ma non starei forse ricostruendo generosamente e speculativamente queste azioni in quanto espressioni di idee, allontanando quindi l’attenzione da questo particolare modo di prendere di mira le persone che include la proiezione di immagini senza consenso, l’incitazione verbale a molestarle e che esorta a invadere la privacy del soggetto?

Per queste ragioni, alla conferenza con il comitato studentesco repubblicano io e alcuni dei firmatari di quella lettera abbiamo chiesto se fosse possibile invitare qualcuno con gli stessi punti di vista, ma che non minacciasse di usare “trigger cam” per mostrare membri del pubblico contro la loro volontà, né istigasse a molestare la vittima. Nonostante tutti i firmatari si siano opposti alle idee conservatrici, solo alcuni di noi si sono opposti alla conferenza per via delle idee fasciste, razziste, transfobiche e omofobiche che la caratterizzavano – ritornerò su questo punto in seguito.

Una caratteristica peculiare di questo caso, tuttavia è l’uso invasivo della tecnologia visiva associato a esplicite esortazioni a invadere la privacy. Alcuni di noi hanno chiesto sia al gruppo di studenti sia all’amministrazione di assicurarsi che tale tecnologia non fosse usata, ponendola come condizione nel contratto. Per quanto ne so, i nostri suggerimenti non sono stati considerati.

Dal momento che l’università può decidere di rendere omaggio al principio della libertà di parola e stabilisce l’ora, il luogo e i modi dell’attività espressiva in questione, non potremmo considerare questo uso della tecnologia come parte dei “modi” di espressione e sottoporla a regolamento? Oppure questo è uno dei casi in cui tale forma di bersagliamento e incitazione ci porta fuori dal dominio dell’attività espressiva in sé, orientandoci verso la considerazione delle offese e/o delle attività illegali?

In quell’occasione sembrò che in questo campus l’unico modo per annullare un discorso organizzato da un gruppo di studenti fosse dimostrare che la sicurezza pubblica è di fondamentale importanza. La sicurezza pubblica riguarda le condizioni di sicurezza all’interno del campus, ma questa categoria può davvero includere le forme di istigazione e di minaccia come quelle cui ho brevemente accennato?

Ovviamente, una volta compreso che solo una minaccia alla sicurezza avrebbe potuto fermare la conferenza, alcune persone che vi si opponevano hanno tentato di produrre una simile minaccia. Tale minaccia avrebbe quantomeno dovuto iniziare  materializzarsi – incendi ed edifici distrutti – prima che potesse essere deciso con chiarezza che era in atto un’evidente minaccia alla sicurezza pubblica.

Chi tra noi si era opposto alle maniere violente si è poi chiesto: bisogna davvero aspettare che gli episodi di violenza abbiano inizio prima di fermare un evento del genere? Se sappiamo che sono in programma azioni violente e che stanno per avvenire, dato che molti di noi lo avevano già comunicato, perché è solo con l’inizio delle violenze che l’amministrazione ha deciso di agire?

Chi desidera ostacolare tali conferenze sa che la violenza è il mezzo più efficace per farlo. Se, prima di sentirci giustificati a cancellare un evento, aspettassimo che la comunità sia in pericolo, ad esempio di subire la violenza dei bianchi nazionalisti  o di chi a loro si oppone, non correremmo il rischio di limitarci all’attesa inerte di prevedibili episodi di violenza?

Agli inizi di questo semestre il preside Erwin Chemerinsky ci ha ricordato che vi sono delle eccezioni alla libertà di parola. L’istigazione è una di queste. I difensori del Primo Emendamento – e io mi considero una di loro – erano preoccupati del fatto che i docenti di Berkeley che hanno firmato la petizione avessero completamente perso di vista i principi costituzionali fondamentali per cui ha combattuto il Movimento per la Libertà di Parola nel 1964-65. Tuttavia io suggerirei di affrontare prima di tutto un dibattito reale e profondo su cosa costituisce un’attività espressiva e i suoi limiti, visto che le nuove tecnologie stanno trasformando ciò che chiamiamo attività espressiva. In seguito dovremmo discutere il problema che abbiamo, come comunità, visto che ci è stato insegnato che nessuno studente dovrebbe essere trattato come è stata trattata Adelaide Kramer all’Università di Wisconsin-Milwaukee.

Quando seguiamo il nostro corso online obbligatorio contro le molestie, apprendiamo quanto richiesto dal Titolo IX, veniamo così a conoscenza delle condizioni nelle quali ogni studente e studentessa hanno eguale accesso all’educazione, e quanto proprio le molestie sessuali possano generare un ambiente ostile che mina alla base la capacità da parte di uno studente o studentessa di portare a termine un programma educativo.

Ma quel che impariamo nel corso è soprattutto che il quid pro quo è inaccettabile, e che è nostro dovere fare in modo che in classe si sviluppi un ambiente e un modo d’interazione con gli studenti che non includano comportamenti discriminatori di alcun tipo. Benché sia uno statuto del Congresso, il Titolo IX non solo è compatibile con la Equal Protection Clause [Clausola della Equa Protezione N.d.T] della Costituzione, ma, dal 2009, chi vi fa appello ha diritto a propugnare le proprie rivendicazioni riferendosi a entrambi gli articoli. Lo dico perché il Quattordicesimo Emendamento ci obbliga a opporci a qualsiasi forma di discriminazione e a mantenere un’istituzione educativa che metta in atto quei valori in parole e azioni.

I “Principi di Comunità” adottati dall’Università di California di Berkeley includono, come sapete, l’impegno a «mantenere un ambiente sicuro, accogliente e umano», un’affermazione del legame fra diversità ed eccellenza, e della dignità di tutti gli individui. Cosa succede allora quando, per onorare il principio di libertà di espressione, permettiamo un attacco alla dignità di alcuni individui e gruppi nel campus?

Sembrerebbe che, se in questi casi ponessimo il Primo Emendamento al di sopra di tutti gli altri mandati costituzionali, allora riterremmo semplicemente un caso sfortunato che la dignità di quegli individui sia stata attaccata, e accetteremmo questo attacco come il prezzo da pagare per la libertà di parola. E se succede che si manifesti una qualche forma di molestia – molestie che, se si fossero manifestate in classe o fra due membri qualsiasi della comunità di Berkeley, verrebbero sottoposte a provvedimento disciplinare – e che questa non viene né punita né vietata perché, in quanto discorso pubblico, è protetta dal Primo Emendamento, come facciamo allora a capire la differenza fra le norme che governano i membri della comunità e quelle che valgono anche per gli individui invitati a parlare a quella stessa comunità?

Ci muoviamo da un contesto di legalità a un altro, e l’effetto sul pensiero è scioccante e sconcertante. E non è solo perché le norme locali e le regole si scontrano con quelle costituzionali, visto che il trattamento egualitario è anch’esso una protezione costituzionale. Lo “scontro” fra quei due principi può avvenire solo se consideriamo le molestie e l’istigazione come una forma di discorso protetto, cosa che, io credo, non dovrebbe avvenire. Ma dipende molto dai termini in cui intendiamo individuare e riflettere sull’attività espressiva e sui suoi limiti.

Se si dà la precedenza all’impegno a rispettare l’obbligo di libertà di parola sotto il Primo Emendamento rispetto al Titolo IX, alla Equal Protection Clause e ai Principi di Comunità di Berkeley, allora suppongo che ci venga chiesto di capire che, nel nome della libertà di parola, permetteremo deliberatamente che il nostro ambiente venga cosparso di odio, minacce e violenza; che vedremo i valori che insegniamo e ai quali aderiamo distrutti dall’obbligo di rispetto della libertà di parola o, piuttosto, da una molto specifica – e forse eccessivamente larga – interpretazione di cosa costituisce un’attività espressiva protetta da quei principi costituzionali.

Ovviamente, se ammettiamo che la libertà di parola è un principio fondamentale, e che ci sono anche altri principi fondamentali – o quelli diventati storicamente chiari per tutti, come l’abolizione della schiavitù e la messa al bando della discriminazione –, allora siamo obbligati a impegnarci in una pratica del giudizio che ci permetta d’interpretare queste istanze fondamentali e fra loro conflittuali.

Di certo, in un mondo di tecnologia in continuo cambiamento in cui l’istigazione e la molestia assumono nuove forme, ci troviamo di fronte a casi complicati, a veri dilemmi, al bisogno di concreta interpretazione dei casi e dei relativi risultati, e di giudizi avveduti. Se siamo assolutisti della libertà di parola, questa non solo avrà la precedenza su ogni altro principio costituzionale, ma c’è anche chi sostiene che ogni altro principio costituzionale sarà considerato strutturalmente dipendente dal Primo Emendamento. Si tratta di una delle visioni possibili – una sorta di teoria con effetto domino –, ma di certo non della sola.

Se la libertà di parola non è il solo diritto costituzionale che siamo obbligati a difendere, allora ci troviamo senza dubbio in un altro tipo di dilemma, in cui dobbiamo capire come difendere al meglio diritti che talvolta si scontrano effettivamente fra loro, e dove tali scontri assumono nuove forme in diversi momenti della storia, in particolare ora che nuove tecnologie comunicative ci costringono a rimettere in discussione il significato di libertà d’espressione.

Se alla libertà di parola viene data la precedenza rispetto a qualsiasi altro principio costituzionale e a ogni altro principio della comunità, allora forse non possiamo più affermare che stiamo soppesando ed equilibrando principi e valori in competizione fra loro. Probabilmente dovremmo invece ammettere con franchezza che abbiamo accettato in anticipo che la nostra comunità venga scissa, che le minoranze razziali e di genere vengano umiliate, che la dignità delle persone transessuali venga negata,  che vogliamo insomma essere rovinati da tale principio della libertà di parola, considerato più importante di ogni altro valore. Se fosse così, dovremmo essere onesti sull’affare che abbiamo fatto: intendiamo essere spaccati da questo principio e fare del nostro impegno per la dignità, per l’uguaglianza e per la non-violenza una questione, nel bene e nel male, di secondaria importanza. È questo che vogliamo? È così che dobbiamo essere?

Judith Butler è Maxine Elliot Professor di letteratura comparata all’Università della California-Berkeley, e membro della Berkeley Faculty Association e dell’AAUP (American Association of University Professor). Di Judith Butler Lavoro Culturale ha pubblicato vari articoli e i due volumi Di chi è Kafka? e Sulla crudeltàIn Italia, tra i vari suoi lavori sono stati tradotti A chi spetta una buona vita? (nottetempo 2013), Fare e disfare il genere (Mimesis 2014), Strade che divergono (Raffaello Cortina 2013), e Soggetti del desiderio (Laterza 2009).

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