La lettera sovversiva dei timidi e dei disprezzati

Continua il nostro approfondimento su don Milani: una recensione a “La Lettera sovversiva”, il nuovo saggio di Vanessa Roghi, storica e autrice di un documentario sul priore di Barbiana, sull’impatto culturale della Lettera a una professoressa.

Secondo Walter Benjamin l’autentica storiografia è un’impresa rischiosa, difficile, disseminata di tranelli e fondamentalmente antitetica rispetto all’atteggiamento positivista, di chi vuole cogliere un fatto “come realmente era”. Il lavoro di chi conserva il passato come una reliquia, come un frammento intangibile in cui si rispecchia la concatenazione degli eventi, segnala infatti una certa connivenza con il vincitore, con chi in quel frammento verrà ricordato a danno di chi invece scivolerà nell’oblio.

Non può dunque non essere autentica storiografia la storia dei timidi e dei disprezzati della scuola di Barbiana e del loro priore di cui Vanessa Roghi ha raccolto l’ “adesso”, lo Jetztzeit benjaminiano, in La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (Laterza, 2017). Si tratta di una difficile operazione di scavo sulla genealogia e di analisi dell’influenza sulla cultura e sulla scuola italiana della Lettera a una professoressa (1967), un tentativo di dare ascolto al testo e farne emergere la voce di don Milani, di farla riecheggiare lungo le gallerie degli anni ’60 e ’70, di intrecciarla a esperienze autobiografiche e a voci di altri che come lui operarono per fare della scuola pubblica vero organo costituzionale, denunciando al contempo il malvezzo a decontestualizzare e destoricizzare la sua azione pastorale, di chi ne fa di volta in volta «l’icona, il martire, il folle, il presuntuoso, persino il pedofilo» (p. XV). Perché decontestualizzare la Lettera significa disincarnare don Milani e astrarlo da un’atmosfera culturale, quella della Firenze cattolico-radicale degli anni ’50-’60, e da luoghi precisi, San Donato di Calenzano, Barbiana, Vicchio, dove i principì della Costituzione rimanevano disattesi. È in questi borghi che don Milani formò la propria visione della politica e, partendo da istanze etico-religiose, arrivò a una conclusione: la scuola popolare. Ma il lavoro da fare era tanto e la povertà dei figli dei contadini, di quelli lasciati indietro dalle scuole pubbliche di allora, enorme.

Da qui l’esigenza di darsi un metodo per misurare i mali prima di abbatterli, quella «etnografia della pietà popolare» (p. 22) che fu Esperienze pastorali (1957). E, come conseguenza del lavoro di ricerca sociologico, quantitativo e qualitativo, la messa a fuoco della questione fondamentale: il deficit di educazione linguistica come ragione dell’insuccesso/abbandono scolastico e della successiva marginalizzazione. In altri termini, da San Donato a Barbiana, don Milani comprende che la scuola dell’obbligo, così com’è stata rimessa in piedi nel secondo dopoguerra, è un «magazzino di fanciulli» figli di analfabeti e per i quali è incolmabile la distanza fra la parola detta e la parola scritta. Si trattò allora di organizzare un modo di fare scuola in cui le parole della nostra lingua, strumento di oppressione per chi le usa contro chi non le conosce, riecheggiassero fra i ragazzi come se fossero state pronunciate per la prima volta nella storia. Si trattò per il priore di Barbiana, colto rampollo di una famiglia cosmopolita e alto borghese, amante della prosa di D’Annunzio, di masticare un sermo brevis et durus, poco per quantità e per lontananza da estetismi e compiaciute ridondanze. Capì insomma che la battaglia per l’educazione alla lingua italiana era in realtà una battaglia in mezzo alle enormi diseguaglianze del Paese uscito dalla guerra, una battaglia finalizzata a «cambiare i rapporti di forza fra gli esseri umani» (p. 76).

Uno dei tanti pregi della ricostruzione di Roghi è quello di aver intrecciato la vicenda biografico-scolastica di don Milani a quella delle trasformazioni che investirono la scuola pubblica italiana del dopoguerra e della stagione di riforme del centrosinistra fanfaniano. Perché tanti degli aspetti più imitati e osannati della scuola di Barbiana hanno radici nella semplice applicazioni di disattesi dettati legislativi – tempo pieno e doposcuola stanno già nella riforma della scuola media unica (1962) – e si rifrangono in esperienze scolastiche contemporanee come l’uso didattico della scrittura collettiva promosso da Mario Lodi e dal Movimento di Cooperazione Educativa. Lontano anni luce dall’idea che la scuola potesse “liberare” il potenziale umano dei ragazzi, don Milani condivideva con queste altre esperienze l’idea di fondo che leggere, pensare, studiare fossero attività che acquistano un significato solo nella misura in cui si condividono con gli altri.

Non tutti capirono, non tutti colsero il radicalismo di questa provocazione, molti non vollero ascoltarla. Si forgiò allora fra gli insegnanti della scuola media, ritenuta svilita dall’apertura a tutti, la fantasmagoria di aver messo in moto una tendenza all’abbassamento generale del livello di preparazione degli alunni, inarrestabile decadenza causata dall’ideologia egualitarsita del legislatore. Ma fu questa la stagione della Storia linguistica dell’Italia unita (1963) con cui Tullio De Mauro abbatteva il mitologema della “formula unica manzoniana”, demistificando l’uso del linguaggio parlato come mezzo di controllo del patrimonio linguistico tradizionale. Inserendosi nella circolazione di queste idee, nota Roghi, don Milani rivendicava il primato della funzione sociale sulla funzione cognitiva della parola: la prima lezione da dare ai tanti Pierini che arrancavano nella scuola media riformata era quella di insegnare a tutti parole uguali, parole che dicessero il loro mondo, la loro interiorità, la loro esclusione. Arrivarono poi anche Pasolini, a denunciare su «Rinascita» alla fine del 1964 l’ipocrita identità fra lingua strumentale e lingua letteraria come sintomo dell’incapacità della borghesia italiana ad identificarsi con tutta la società, e Calvino a dileggiare l’antilingua delle burocrazie, dei sindacati, delle sottoprefetture.

Appassionati a questo dibattito i ragazzi di Barbiana, guidati dal loro priore-maestro, produssero quel «canto di fede nella scuola» che è Lettera a una professoressa. Un testo che nasce da un’esigenza profonda, sociale, quella di imparare a riconoscere sotto il profilo cognitivo e prima ancora sotto il profilo sociale il diritto alla soggettività di chi non apprende, di chi non riesce a stare al passo degli altri e subisce una bocciatura. Un testo che produce un’analisi dura, di un’«ingenerosità scostante» come ebbe a dire Gianni Rodari, dell’unico stretto e affollato ascensore sociale dell’Italia repubblicana: la scuola pubblica. Eppure la rabbia condensata del tono della Lettera ingenerò un equivoco successo editoriale, riverberando le analisi della scuola di Barbiana nelle finalità e negli slogan della generazione della contestazione, inondando di edizioni della Lettera le assemblee del lungo sessantotto italiano. Equivoco che don Milani non apprezzò, come si evince dalla risposta data al giovane Alex Langer, ma che certamente comprese e che forse avrebbe chiarito se la morte non lo avesse colto a un mese esatto dalla pubblicazione della Lettera. Ne venne fuori, come sottolinea Roghi, una banalizzazione dell’opera che ne offuscò il percorso genealogico, il ventennio 1947-1967 con la lotta all’analfabetismo e la riforma della scuola media, facendone al contrario l’inizio di qualcosa. Secondo Roghi, e qui a mio avviso sta la chiave interpretativa più acuta del suo saggio, ciò fu l’effetto di un rovesciamento legato alla modernità del testo: tutto è nuovo nel 1967 e la Lettera, più che il risultato di un percorso appare come una mappa per orientarsi nel futuro. Voce fuori dal coro fu Fortini che scorse in quell’asciutto criticare la disperazione per l’impossibilità, per i figli dei contadini, di liberarsi utilizzando la lingua posseduta dai padroni, e individuando in quella profonda fede nell’istruzione che anima la Lettera «l’ottimismo disperato dei profeti». Non comprese tale aspetto Pasolini che sposò invece la linea del “libro cinese”, in linea con i furori della rivoluzione culturale, un consapevole rifiuto della cultura borghese che vuole distruggere e superare. Di certo, la dicotomia libro profetico/libro cinese non rende giustizia al pragmatismo della Lettera che fu prima di tutto un’indagine sociologica finalizzata a impostare il lavoro di chi scuola avrebbe fatto.

Uno strumento di lavoro insomma, ma anche un esercizio di parresia: non pochi sono gli episodi della contestazione in cui il titolo della Lettera e il nome di don Milani vengono evocati in situazioni in cui qualcuno prende la parola e pronuncia una verità sgradevole, come sgradevole è l’incipit del testo. Singolare, da questo punto di vista, è l’incursione microstorica che Roghi compie sul diario di una professoressa dell’epoca, Anna Avallone, che si confronta con la Lettera attraverso il figlio, studente-contestatore. Quello che forse il testo riuscì a trasmettere con maggiore immediatezza fu l’idea, spesso tradita in un modaiolo scimmiottamento dei metodi di Barbiana, che per fare una scuola democratica in partenza bisognasse conoscere la cultura di riferimento delle persone con le quali si opera.

Nonostante ciò passò all’opinione pubblica del decennio successivo alla pubblicazione l’assunto che la Lettera congiunta alle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975) di Tullio De Mauro fossero le trombe dell’apocalisse di una scuola talmente tanto antiautoritaria al punto da dismettere il magistero della grammatica italiana. Un assunto empiricamente falso rispetto alla pratica didattica delle scuole primarie e medie degli anni ’70-’90, un assunto che scambia il fare educazione linguistica in un modo nuovo, un modo che tiene conto della differenza di registro fra lingua letteraria e lingua utilizzata per comunicare, per l’abolizione della dimensione sintattico-normativa. Nutrito dall’avversione per altre opere di forte impatto sulla pratica didattica di quel periodo, Roghi rileva fra l’altro l’importanza di Grammatica della fantasia (1973) di Gianni Rodari, questo pregiudizio tornerà alla fine degli anni ’70 per invalidare fra gli stessi insegnanti ciò che della Lettera aveva contribuito a contestare e talora a cambiare la scuola classista dei decenni precedenti. Ironia della storia, il ritorno all’ordine degli ex studenti ormai insegnanti-contestatori avverrà parallelamente alla realizzazione delle prerogative democratiche di quella stagione, in un quadro legislativo che va dall’attuazione dei decreti delegati del 1974, che introdussero gli organi collegiali di autogoverno delle scuole, ai programmi per le scuole elementari del 1985, punta di diamante delle sperimentazioni più avanzate.

Perché allora, ci chiediamo con Vanessa Roghi, la generazione post-sessantotto, quella che più ha amato ed emulato don Milani, è stata poi quella che a partire dagli anni ’90 lo ha più contestato? Al di là delle critiche infondate (una rassegna di paralogismi attribuiti alla Lettera che Roghi liquida come “donmilanismo”) perché alcuni insegnanti sono tornati a rimpiangere la scuola di cinquanta anni fa? «Il punto vero, io credo, è che si è fatto loro credere che le conquiste di un secolo di movimenti educativi di “apertura democratica e promozione sociale” hanno cancellato, nei fatti, il loro ruolo di intellettuali trasformandoli in burocrati, la scuola come un’avanguardia esterna rispetto alla comunità, il professore come entità intangibile e incontestabile» (p. 205). Quella scuola non esiste più e forse non è mai esistita: è la sua potente fantasmagoria a irretirci e a impedirci di prenderci cura del futuro.  

Venerdì 17, dalle 16, presenteremo il libro di Vanessa Roghi alla Biblioteca Comunale di Siena.

 

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