L’ethnographie est un sport de combat

Un dialogo-intervista* a partire da “La boxe popolare” (Novalogos 2020), discutendo dell’etnografia come strumento per leggere (e sfidare) il presente.

boxe popolare
La copertina del volume “La boxe popolare. Etnografia di una cultura fisica e politica”, pubblicato da Lorenzo Pedrini per Novalogos, 2020

Incrociando gli strumenti dell’antropologia con quelli della sociologia, da tempo stiamo ragionando su arti marziali e sport da combattimento negli ambienti in cui vengono praticati, e sulla carenza di indagini nel panorama italiano. L’uscita del volume “La boxe popolare” (Lorenzo Pedrini per Novalogos, 2020) ci ha offerto il pretesto per riannodare i fili di alcune riflessioni che qui condividiamo sotto forma di dialogo, partendo dal libro di Lorenzo per gettare un ponte con le potenzialità della ricerca etnografica e certe (vecchie/nuove) posture accademiche.

Dario: La recente esplosione delle arti marziali miste (MMA) nel panorama internazionale ha spinto molti opinionisti, e anche qualche studioso, a interrogarsi sui significati sociali e culturali del fenomeno. In Italia, le scienze sociali si sono mosse con un po’ di torpore (solo Dal Lago ha proposto qualche contributo sull’argomento), e i media e l’opinione pubblica hanno avuto campo libero per ridurre semplicisticamente un fenomeno ricco di senso a una sola delle sue interpretazioni possibili, riconducendo in maniera più o meno esplicita tutte le discipline di combattimento a contesti violenti e a una cultura – o a una postura – di destra. Eppure, il tuo libro sul pugilato ci racconta una storia diversa, e ci fa capire che questa convergenza tra sport di combattimento e destre radicali è più l’esito di un processo storico che la naturale conseguenza di una cultura fisica modellata, ovunque e indistintamente, in un certo modo.

Lorenzo: la “boxe popolare” è un saggio etnografico sul pugilato autogestito, un movimento culturale, lo potremmo definire, che ha preso piede in Italia negli ultimi dieci/quindici anni. Costruito a partire da un’indagine sul territorio di Milano, il libro descrive la genesi ed il consolidamento di questo particolare stile pugilistico dentro l’antagonismo metropolitano. Per cui, senza dubbio, uno dei messaggi del libro è che non tutte le discipline da combattimento sono colonizzate dalle destre, che certe sovrapposizioni esistono, ma vanno contestualizzate. In relazione a questo dato, credo comunque che il principale contributo del saggio consista nel fornire un apparato teorico-metodologico da mettere al servizio di analisi di campo capaci di storicizzare l’intreccio tra certe attività corporee, da un lato, e certe sensibilità, certi modi di agire e pensare distintivi delle culture politiche radicate nella società civile, dall’altro. Per essere più chiaro: la boxe popolare è una cultura di sinistra perché a costituirla come tale è tutta un’organizzazione sociale. Il pugilato per se non è né di destra né di sinistra. Così come sarebbe una semplificazione estrema parlare in termini assoluti del jujitzu o delle MMA come culture del corpo fasciste ― che è il giudizio moraleggiante di molti opinion maker. Gli ideali della marzialità hanno sempre esercitato un grosso fascino sulle culture di destra. Sappiamo anche che, oggi come oggi, in Italia numerose palestre e diversi boxeur sono collaterali ad organizzazioni neo-fasciste. Quale insieme di condizioni ha reso possibile una simile commistione? Allo stesso tempo, parecchi fighter non si sognerebbero mai di schierarsi politicamente e la maggior parte dei club sono privi di una colorazione manifesta. Significa quindi che quegli ambienti sono privi di connotazioni particolari, di una parte o dell’altra? Che le attività quotidiane svolte in quelle palestre non veicolano in alcun modo visioni del mondo partigiane? Già solo queste domande dovrebbero indurci a dubitare delle letture di senso comune ed accendere la scintilla della curiosità che muove la ricerca. Anche perché non viviamo in spazi neutri. Tutte le nostre pratiche si dispiegano dentro delle reti di relazioni storicamente strutturate, persino quelle più intime come mangiare e fare sesso, Norbert Elias docet. Figuriamoci l’attività fisica e sportiva…

Striscione del CAPPA Milano. Foto di Lorenzo Pedrini (2018)

Dario: C’è una frase, a p. 93 del tuo volume, che rappresenta una chiave di lettura essenziale per capire come la militanza politica si incontra e si fonde con l’attività fisica. Dici: «Esiste cioè un rapporto biunivoco tra le posture fisiche esibite individualmente e le categorie di pensiero orchestrate collettivamente». Ci spieghi meglio?

Lorenzo: La seconda parte del volume entra nel vivo di quanto accade in team di boxe di una storica palestra del quartiere Ticinese. In un paio di capitoli si analizzano le pedagogie del corpo che modellano il/la boxeur competente generando le disposizioni necessarie a combattere sul ring. Ma soprattutto, questi schemi di azioni, percezione e giudizio, trasmessi e appresi attraverso l’esposizione a uno specifico ambiente fisico e sociale, sono solidali con valori e logiche d’azione che definiscono l’universo antagonista. Questa è sicuramente una delle tesi più importanti del libro rispetto a come si realizza la corrispondenza tra una cultura fisica e una cultura politica. Allo stesso tempo, la trovo un’argomentazione rilevante perché illustra come avviene l’incorporazione di una specifica storia sociale, a là Bourdieu per intenderci. È anche un modo per chiarire che, nel panorama di una società fortemente frammentata e individualizzata, le culture politiche esistono ancora, sono molto vissute, non necessariamente vengono esibite ma comunque permeano il nostro modo di stare nel mondo, con buona pace degli esegeti della svolta post-ideologica. Vedendola in termini ancora più generali, direi che il focus sull’esperienza quotidiana è il secondo e fondamentale livello dell’analisi di campo: solo l’osservazione continuativa di piccoli gruppi in interazione può permetterci di cogliere come certi sistemi simbolici si imprimono nei gesti, nel cuore e nella testa delle persone. Va da sé che si tratta di una prospettiva che può essere declinata rispetto allo studio di una miriade di altre questioni.

Allenamento alla palestra popolare Torricelli. Foto di Massimo Lupo Pasinetti (2019)

Dario: Altro passaggio significativo è quello in cui rivaluti il ruolo della coscienza nel processo di apprendimento della boxe, che è stato messo in secondo piano da alcuni ricercatori, al contrario preoccupati di spiegarci che la gran parte dell’apprendimento si svolge al di là della coscienza, come la doxa bourdiesiana propone. Si tratta di uno spunto molto interessante: è vero, da una parte, che chi insiste sulla componente non-riflessiva dell’esperienza corporea lo fa per portare l’attenzione su dinamiche che non sempre sono evidenti; è vero anche che questo approccio tradisce una presunta superiorità in chi osserva, unico soggetto capace di vedere oltre quello che è in grado di vedere l’uomo della strada. In realtà, ci dici tu, i praticanti sanno benissimo cosa succede mentre si allenano, ci pensano continuamente. Il fatto che non ci sia bisogno di esplicitarlo non riguarda tanto la loro incapacità di esprimerlo, quanto la percepita inutilità di farlo di fronte a questioni che sembrano auto-evidenti.

Lorenzo: Secondo Wacquant l’apprendimento pugilistico sarebbe peculiare di un pensiero selvaggio, per cui una comprensione pienamente cosciente sarebbe superflua se non proprio dannosa per l’incorporazione della disciplina. Io mi smarco da questa interpretazione ― che ha avuto talmente tanta fortuna al punto da diventare, un po’ paradossalmente, una sorta di senso comune tra gli studiosi stessi ― perché, indossando regolarmente i guantoni, ho esperito che l’intelletto entra prepotentemente in azione quando si impara boxe popolare nella palestra che è stata il mio campo. Ma non riguarda solo me. In palestra il processo di coaching intensifica l’intenzionalità cosciente dei/delle praticanti: tutte le persone sono continuamente stimolate a guardare dentro se stesse per interrogarsi su ciò che stanno facendo, e solo talvolta ne discutono. È una faccenda tremendamente politica a mio avviso, perché parliamo di un processo di autodeterminazione e padronanza di sé che passa attraverso la boxe ma la trascende. Nel senso che, tramite l’apprendimento cosciente di una particolare cultura fisica, la posta in gioco della partecipazione diventa l’agency, o, se vogliamo usare Foucault, la soggettivazione. Di nuovo qui abbiamo il pretesto per ribadire la forza della ricerca etnografica nello stabilire legami tra micro e macro, tra esperienza situata e grandi questioni teoriche. Il punto è: quanto osservato riguardo alla boxe popolare dentro una specifica palestra come funziona in altri contesti di pugilato autogestito? E in differenti contesti di pugilato? Qual è il confine tra disciplinamento e soggettivazione in altre pratiche marziali/di combattimento, caratterizzate da una loro struttura di coaching?

Dario: Infatti il tuo libro mi sembra un ottimo esempio di come la ricerca etnografica sia in grado di restituire una visione articolata e approfondita della realtà sociale, capace di mettere a tema anche grandi costrutti teorici. Quando si parla di discipline da combattimento, e di sport in generale, per quanto il fenomeno sia ampiamente diffuso nei contesti urbani e provinciali del nostro Paese, credo tu convenga con me nel lamentare una carenza di interesse da parte delle scienze sociali. Forse sarebbe invece utile dotarsi degli strumenti propri dell’antropologia e della sociologia per spiegare queste realtà da un punto di vista competente, e non secondo opposizioni dogmatiche tra praticanti-sostenitori e moralisti-detrattori.

Lorenzo: Studiare le arti marziali e gli sport da combattimento per quanto mi riguarda significa indagare le grammatiche dell’azione collettiva, le trasformazioni della società civile e così via. Nel tuo libro “Gouren. La lotta Bretone” (Documenta, 2016) si ragiona sull’identità etnica e dimostri come il wrestling abbia un ruolo chiave nel produrre l’attaccamento dei giovani verso la comunità locale, in un contesto cosmopolita come quello della Bretagna contemporanea. Dobbiamo ammettere che nel nostro paese l’attenzione accademica per lo “sport come pratica” è ancora davvero scarsa. Le eccezioni, anche notevoli, non mancano. Come tu stesso sai bene, in Italia non abbiamo una tradizione di ricerca sulle pratiche culturali, in generale, figuriamoci sulla pratica sportiva e dell’attività fisica. Per quanto riguarda lo studio delle arti marziali e degli sport da combattimento, “Fighting Scholars” (Anthem, 2013) credo abbia segnato un po’ una svolta per noi studiosi lottatori alle prime armi, in qualche modo costretti a rivolgersi al di fuori dai confini nazionali. Fighting Scholars ci ha fatto capire che in tutto il globo c’è un grosso interesse scientifico sulle discipline da combattimento; inoltre, quel libro ha avuto il merito di canonizzare le suggestioni di metodo contenute nei mitici lavori di Wacquant sul pugilato, dimostrando come, facendo esperienza carnale delle discipline stesse, è possibile mettere a tema una gran varietà di interrogativi che interessano trasversalmente l’analisi sociale e culturale. Antropologi e sociologi si sono riscoperte creature simili grazie a questo tipo di inchieste. Oltretutto, stiamo parlando di un terreno fertilissimo per la sperimentazione teorica. Da qui in avanti, a causa della pandemia, la grossa sfida sarà quella di cogliere i mutamenti che attraverseranno queste pratiche transculturali.

La copertina del volume “Gouren, la lotta bretone. Etnografia di una tradizione sportiva”, pubblicato da Dario Nardini per Editoriale Documenta, 2016.

Dario: Discutendo di etnografia, mi piacerebbe spendere due parole anche sullo stile del tuo libro, atipico rispetto alle monografie che siamo abituati a leggere. Da un disinvolto dialogo tra campo e teoria, in cui alcuni importanti riferimenti vengono offerti agli addetti ai lavori senza però che sia indispensabile conoscerli per procedere nella lettura, passi nella parte finale a uno stile di scrittura estremamente confidenziale, colloquiale, che ci porta nel “clima” maleodorante della palestra e ci restituisce un’impressione viva di quel che hai vissuto, rivelando quello che Gianmarco Navarini, nella prefazione, definisce il gusto dell’etnografia.

Lorenzo: In effetti, quando è stato il momento di impostare il volume, la prima domanda che mi sono posto è stata: che libro mi piacerebbe leggere? Perché, in tutta onestà, molta letteratura scientifica non dà tanto gusto alla lettura. Inoltre, per quanto riguarda le ricerche etnografiche, lo stile della scrittura non è una questione epistemologica di second’ordine. Iniziando a lavorare sul libro avevo in mente un testo scientifico, dotato del lessico che gli è proprio, capace di portare la sociologia anche fuori dall’accademia, con una struttura snella e un linguaggio che cercasse soprattutto di essere evocativo. Il tutto tenendo ben saldo il fine ultimo dell’etnografia; ossia, come ha insegnato Alessandro Dal Lago a schiere di scienziati sociali, descrivere i mondi sociali in un modo capace di sfidare il senso comune. Adottare come storyline l’educazione del neofita ed investire sulla thick description di luoghi, personaggi, oggetti ed esperienze mi è parsa la scelta migliore da questo punto di vista. In sostanza, non ho fatto altro che ricalcare l’immaginario della letteratura sportiva, ispirandomi ad altre etnografie come a Francis Scott Fitzergerald, Fabio Pennetta e gli spokon giusto per citare dei riferimenti molto diversi a cui ho attinto. Nell’ultimo capitolo, avvalendomi della cronaca di una fight night cerco di suggerire, con un piglio anche un po’ auto-ironico, l’idea della polisemia e del divenire di una realtà in movimento com’è la boxe popolare. Detto questo, ogni etnografia è una storia a sé; pertanto, deve trovare le formule che più le si addicono per raccontare delle specifiche realtà sociali. Senza dimenticare che scrivere un saggio è solo uno dei modi possibili di raccontare. Fare etnografia può anche voler dire sceneggiare film o serie, creare piattaforme web, comporre fumetti, incidere musica. I media abbondano. E poi lo sport, con la sua intrinseca epica, ci offre una miriade di opportunità per arrivare alle persone, per raccontare altre storie, per suscitare ragionamenti o anche solo emozionare. Sperimentarci come comunicatori, è importante esplicitarlo, è una risorsa a nostra disposizione anche per sottrarci alle logiche dell’autoreferenzialità imposte dall’accademia neoliberale. Certo, quando ci si espone al di fuori dei ristretti circuiti delle riviste specialistiche è maledettamente difficile essere pop: proporre contenuti profondi e per nulla scontati in forme accessibili. Sta a noi scienziati sociali prendere una posizione rispetto al sistema di produzione della conoscenza. Se lottare o meno. In fondo penso di esprimere un punto di vista che ci accomuna dicendo, con le parole di uno dei nostri grandi maestri, l’ethnographie est un sport de combat.

 

*Dario Nardini, dottore di ricerca in Antropologia Culturale e Sociale all’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di antropologia dello sport, pratiche del corpo, patrimonio, identità e immaginario. Ha svolto ricerche etnografiche sulla lotta bretone, sul surf in Australia e sul Calcio Storico Fiorentino.

Lorenzo Pedrini, dottore di ricerca in Sociologia Applicata e Metodologia della Ricerca Sociale all’Università Milano-Bicocca. I suoi interessi si incentrano sullo studio delle pratiche culturali, in particolare nell’ambito dello sport, del leisure e della musica, in una prospettiva etnografica che si muove a cavallo tra la sociologia del corpo, la sociologia urbana e la sociologia politica.

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