L’intervento di Stefano Traini Convegno “L’invenzione del barocco. La riscoperta di un’epoca e delle sue forme nella seconda metà del Novecento”, Università degli Studi di Teramo, 23-24 settembre 2008. Il saggio è già apparso sulla rivista E/C.
Nel 1987 esce per i tipi di Laterza L’età neobarocca, un libro con cui Omar Calabrese si propone di cercare le tracce di un «gusto» del tempo in oggetti disparati, dalla scienza alle comunicazioni di massa, dalla letteratura alla filosofia, dall’arte ai comportamenti quotidiani. Per questo “gusto del tempo” Calabrese propone l’etichetta neobarocco. Ma attenzione: con questo l’autore non voleva indicare un ritorno al barocco, né che questa “aria del tempo” fosse l’unica e coprisse la totalità delle manifestazioni estetiche della cultura degli anni Ottanta. Mi soffermerò tra poco sugli aspetti di contenuto e di metodo di questa operazione; per il momento vorrei subito servirmi delle parole di Calabrese per dire che, in sintesi, il neobarocco consiste “nella ricerca di forme – e nella loro valorizzazione – in cui assistiamo alla perdita dell’interezza, della globalità, della sistematicità ordinata in cambio dell’instabilità, della polidimensionalità, della mutevolezza”[1]. L’obiettivo è quello di trovare somiglianze e differenze tra oggetti ipotizzando una forma soggiacente che permetta confronti. L’idea, peraltro tutta strutturalista e semiotica, è che al di sotto della superficie dei fenomeni vi sia una forma, un principio di organizzazione astratto. In questo Calabrese si pone sulla scia di celebri autori formalisti come Wölfflin, Focillon e d’Ors, riprende alcuni spunti fondamentali di Luciano Anceschi, dialoga con Gillo Dorfles, che aveva già usato il termine neobarocco per descrivere, appunto, l’abbandono dei caratteri di ordine e di simmetria e l’avvento del disarmonico e dell’asimmetrico[2]. Tuttavia Calabrese ha qualche ambizione in più su cui ci soffermeremo.
Con questo intervento vorrei (i) presentare sinteticamente alcuni caratteri del neobarocco individuati da Calabrese, (ii) esaminare gli aspetti metodologici di questa analisi culturale, (iii) trarne dei suggerimenti per la messa a punto di una semiotica della cultura.
I principi del neobarocco
Inizierei con il gusto per l’eccesso. Secondo Calabrese vi sono periodi più orientati al limite e alla stabilizzazione, e periodi opposti: “Epoche o zone della cultura in cui prevale il gusto dello stabilire norme «perimetrali», e altre in cui invece il piacere o la necessità è quella di saggiare o rompere quelle esistenti. Appunto: di tendere al limite e provare l’eccesso. Al secondo tipo appartiene evidentemente l’età (o il carattere culturale) che abbiamo denominato «neobarocco»” [3]. Un esempio di “tensione al limite” l’autore lo trova nella rappresentazione del tempo: le tecnologie comunicative ci hanno infatti abituati a vedere rappresentata una soglia del tempo e del movimento nettamente al di sotto o al di sopra del percepibile. Del resto in quel periodo si diffondevano da un lato la moviola televisiva con la sua lentezza, dall’altro i videoclip e i videogames con la loro velocità. La cultura di quel periodo viveva fenomeni di «eccessività endogena» sempre più numerosi, che andavano dalla produzione artistica a quella mediologica, fino ai comportamenti politici e sociali. Dal mondo della musica Calabrese prendeva a esempio gli eccessi di Madonna, Prince, Michael Jackson, David Bowie, Boy George. Dal mondo dell’arte alcuni fenomeni riconducibili al gigantismo: dagli impacchettamenti fatti da Christo alle grandi opere di Arnaldo Pomodoro agli enormi rifacimenti urbani nelle capitali europee e non solo. Sul fronte degli eccessi comportamentali l’autore omologava la tragedia dello stadio Heysel in Belgio per la finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool nel 1985, dovuta agli eccessi criminali dei tifosi britannici, e il delirio di massa per i megaconcerti rock delle star più famose. In definitiva: vi sono epoche statiche e epoche dinamiche; le epoche statiche tendono a consolidare il loro centro sistemico e tendono a bloccare le frontiere del sistema; le epoche dinamiche lavorano sulla periferia e sul confine. Con il lavoro sul limite si produce innovazione o espansione del sistema, con il lavoro sull’eccesso si producono crisi e rivoluzioni. Il gusto neobarocco sembra tuttavia avere un andamento doppio: lavora sugli eccessi ma si configura in perenne sospensione, non tende cioè a produrre ribaltamenti veri e propri. L’impressione, insomma, è che gli anni Ottanta siano anni di “eccesso moderato”, se si accetta questo ossimoro.
Un’altra caratteristica del neobarocco è la perdita della totalità, il tramonto dell’interezza a vantaggio dei dettagli e dei frammenti. Ma bisogna fare attenzione perché tra dettaglio e frammento c’è una differenza sostanziale: il dettaglio è scelto da un soggetto, ha quindi una causa ed è definito; il frammento si dà così com’è, non è frutto di un’operazione di un soggetto e ha confini non definiti (ma frastagliati, tipici della geometria frattale). E dunque per quanto riguarda l’estetica del dettaglio Calabrese cita nuovamente la moviola, che procede allo spezzettamento delle azioni, ma anche l’enfatizzazione dei dettagli pornografici, da Nove settimane e mezzo ai film di Tinto Brass: il precursore di questa tendenza cinematografica è senz’altro Antonioni, che pone al centro del suo capolavoro Blow up un dettaglio fotografico come pretesto per riflettere sui rapporti tra realtà e illusione. Per quanto riguarda l’estetica del frammento si possono citare i programmi contenitore che cominciano a caratterizzare i palinsesti della televisione anni Ottanta (per esempio Domenica in): si noti che il contenitore non ricompone un intero coerente, ma segue una logica del tutto diversa rispetto ai singoli frammenti. Va ricordato a tal proposito che Roland Barthes ne I frammenti di un discorso amoroso ne fa una tecnica di ricerca [4]: l’estetica del frammento, dice Barthes, è uno sparpagliare che elude il centro del discorso. Barthes segue Gide che dice: «L’incoerenza è preferibile all’ordine che deforma». Se ci poniamo invece dal punto di vista della ricezione, l’estetica del dettaglio può essere definita l’estetica «dell’alta fedeltà», perché tende a valorizzare il piacere della perfetta riproduzione tecnica di un’opera e il suo obiettivo è quello di riprodurre sempre meglio il particolare. Alcuni esempi possono essere: il giradischi ad alta fedeltà, il registratore professionale, il videoregistratore, il walkman, il compact disc, la televisione ad alta definizione, ecc. Per l’estetica ricettiva del frammento possiamo pensare invece alla «sindrome da pulsante», oggi ben conosciuta come pratica dello zapping: anche qui il testo ricevuto alla fine dello zapping è ben diverso dai singoli frammenti che colpiscono lo spettatore. In conclusione: “il dettaglio dei sistemi o la loro frammentazione diventano fatti autonomi, con proprie valorizzazioni, e fanno letteralmente «perdere di vista» i grandi quadri di riferimento generale” [5].
Un’altra caratteristica del neobarocco è la prevalenza dell’informe e dell’instabile. Per quanto riguarda l’informe Calabrese cita la teratologia cinematografica, con mostri come E.T. o i Gremlins, che sospendono le categorie di valore e sono, a seconda dei punti di vista, conformi e deformi, buoni e cattivi, belli e brutti, euforici e disforici. O casi emblematici come Zelig di Woody Allen, che cambia forma a seconda del suo interlocutore, esempio straordinario di camaleontismo umano. Per descrivere l’instabilità Calabrese passa invece al mondo dei videogiochi (soprattutto di guerra), che secondo l’autore hanno tre elementi di instabilità: gli attori, che spesso si trasformano per aumentare le proprie capacità offensive; gli spazi, visto che il nemico appartiene anche a uno spazio esterno non visibile; il rapporto fra gioco e giocatore, poiché a differenza di altri giochi c’è un destino inelluttabile verso il quale ci si dirige (la fine dell’eroe e quindi del gioco). Il fenomeno dell’instabilità si presenta negli oggetti neobarocchi ad almeno tre livelli: (i) quello dei temi e delle figure rappresentate, (ii) quello delle strutture testuali che contengono le rappresentazioni, (iii) quello delle relazioni tra i testi e i fruitori. Instabilità, trasferimento e metamorfosi caratterizzano due romanzi epocali come Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino e Il nome della rosa di Eco: nel senso che il primo si presenta come una serie di variazioni di una medesima struttura soggiacente, il secondo come trasferimento e riutilizzo di materiali culturali all’interno di un nuovo testo. In questi due romanzi sono instabili e multiformi i temi e le figure rappresentate, le macchine narrative che organizzano i materiali, ma anche i comportamenti dei lettori, che devono muoversi in percorsi labirintici, multilivellari, complessi. Calabrese ritiene infine che queste tendenze siano assimilabili ad alcune teorie scientifiche che si sono sviluppate in quegli anni, in particolare alla cosiddetta «teoria delle catastrofi» di René Thom. Con questo non si vuole sostenere necessariamente un rapporto diretto tra interessi umanistici e teorie scientifiche, tuttavia si ritiene ragionevole che una teoria scientifica e un mutamento di gusto estetico possano appartenere a uno stesso «ambiente», alla stessa mentalità intellettuale, anche se i singoli autori non conoscono i campi limitrofi. La teoria delle catastrofi studia le morfologie strutturali dei fenomeni e le loro dinamiche di trasformazione. In particolare, dal punto di vista della tendenza neobarocca, sono molto interessanti i casi delle morfologie che, essendo appunto instabili, devono cercare una propria forma. Si tratta di morfologie che “non sono dotate di nessuna stabilità strutturale, ma assumono l’aspetto di qualunque attrattore stabile che compaia nel loro campo d’azione” [6]. Calabrese porta come esempi il cubo di Necker e alcune figure prodotte da Magritte o da Escher.
Il neobarocco è caratterizzato dalla prevalenza di fenomeni complessi e caotici. Dorfles e Calabrese sono interessati alla complessità connaturata nei fenomeni estetici, ma in quel periodo – precisamente verso la fine degli anni Settanta – nel campo della matematica Mandelbrot [7] si sofferma sugli oggetti frattali, che hanno una forma irregolare, interrotta, frastagliata. Oggetti di questo tipo in natura sono: una costa frastagliata, il profilo dei fiocchi di neve, la forma dei crateri della luna, una rete fluviale, ecc. Uno dei caratteri dei frattali è che sono teragonici, cioè hanno sempre una forma poligonale mostruosa. I frattali sono dunque mostri particolari: “mostri ad altissima frammentazione figurativa, mostri dotati di ritmo e ripetitività scalare nonostante l’irregolarità, e mostri la cui forma è dovuta al caso, ma solo come variabile equiprobabile di un sistema ordinato” [8]. L’ipotesi di Calabrese è che rispetto a questi oggetti oggi c’è un investimento valoriale positivo. La cultura neobarocca si nutre di oggetti frattali, ma in generale la produzione e il consumo culturale sono caratterizzati da caoticità, irregolarità, turbolenze, intermittenze. Calabrese mostra alcuni esempi nei vari campi dell’arte: dalle arti visive, con mostre che in quel periodo si ispirano direttamente all’estetica dei frattali, a quelle musicali, dove da Battiato a John Cage si introduce la dimensione «rotta» del rumore nella musica: “Insomma: la turbolenza e l’irregolarità governano la produzione di oggetti a funzione estetica un po’ a tutti i livelli di sofisticazione culturale, dalle pratiche dei media a quelle più rarefatte delle gallerie d’arte o delle sale dei concerti” [9].
Il concetto di complessità è legato a quello di dissipazione. Va ricordato a tal proposito che alla fine degli anni Settanta esce La nuova alleanza di Ilya Prigogine e Isabelle Stenghers [10], in cui si sostiene che l’irreversibilità gioca un ruolo essenziale nella natura ed è all’origine di molti processi spontanei: “mentre il progetto di descrizione e spiegazione della natura come concatenazione di «comportamenti» generati da un piccolo numero di regole ripetute è fallito, fa la sua comparsa l’idea di un universo frammentato, composto di comportamenti locali differenti per qualità” [11]. Prigogine e altri ricercatori dimostrano che lontano dall’equilibrio, un sistema si può trasformare trovando un ordine diverso da quello di partenza, e questo a causa di interazioni specifiche che si vengono a creare con l’ambiente. Prigogine chiama strutture dissipative queste nuove strutture: in pratica un sistema dissipa energia portando alla formazione di un nuovo ordine. L’idea di Calabrese è quella di fare una ricognizione nell’ambito della cultura contemporanea per verificare se nella produzione estetica c’è traccia di tali strutture dissipative. Alcuni esempi l’autore li prende dai generi mediatici, che modificandosi a causa di contaminazioni esterne, ricreano una nuova struttura di genere: il celebre Fantastico di Pippo Baudo, contaminato dalle parodie di Drive in e alterato dagli incidenti diplomatici della satira di Grillo, assume in breve tempo un nuovo assetto di genere che ingloba questi nuovi fattori ambientali. Il programma assume un tono diverso, uno stile nuovo. La dissipazione ha contribuito a creare una nuova struttura. In altro ambito, quello artistico, Calabrese cita il caso dei tre architetti Arduino Cantafora, Massimo Scolari, e Luigi Serafini, che si rifanno esplicitamente a stili del passato ma nel contempo vengono contaminati dall’ambiente della contemporaneità e diventano emblemi di un nuovo genere, quello della «pittura fantastica». L’ordine dell’arte e della cultura non è unico e immutabile: i sistemi artistici e culturali possono essere irreversibili e indeterminati.
Una figura privilegiata dal gusto neobarocco è quella del labirinto. Il labirinto inteso come rappresentazione figurativa di una complessità intelligente, figura che indica acutezza, astuzia, meraviglia, ingegno, piacere dello smarrimento e dell’enigma. Nel labirinto si perde il controllo del sistema topografico globale e la ricostruzione avviene per inferenze locali, secondo il calcolo miope che funziona passo a passo e senza ricorso alla memoria. Nodi e labirinti sono dunque motivi figurativi che ricorrono in epoca neobarocca, in vari ambiti come quelli letterario, massmediologico, artistico. Calabrese cita ancora Il nome della rosa di Eco, con la biblioteca-labirinto che dovrà essere ben interpretata da Guglielmo da Baskerville, ma anche Shining di Stanley Kubrick, con il protagonista Jack che nel finale insegue il figlio in un labirinto di cespugli per ucciderlo. Le strutture labirintiche caratterizzano gran parte dei videogames di quel periodo e in ambito artistico l’autore ricorda la mostra di arte contemporanea organizzata a Milano nel 1981 e curata da Achille Bonito Oliva, in cui si presentavano opere sui temi del nodo e del labirinto da parte di artisti come Jackson Pollock, Giulio Paolini, Giacomo Balla, De Chirico, Mondrian. In ambito musicale Calabrese cita le circonvoluzioni di un Branduardi per quanto riguarda la musica leggera, o le annodature di alcune composizioni di Luciano Berio, per quanto riguarda l’ambito classico. Ma c’è anche il labirinto come modello del sapere, conL’Enciclopedia Einaudi pensata come “geografia di nodi tematici interconnessi fra loro”. Il modello è quello del rizoma, proposto da Gilles Deleuze e Félix Guattari [12], che non segue una logica di conessione ad albero, ma in cui ogni elemento è collegabile a un altro elemento, in percorsi liberi.
Infine segnalerei un’ultima caratteristica: l’estetica del pressappoco. Pare che l’universo dell’impreciso, dell’indefinito e del vago si mostri ricco di seduzione per il gusto estetico degli anni Ottanta. Una figura discorsiva ricorrente è quella dell’oscurità: nella cinematografia Calabrese cita la nebbia di Apocalypse now, come anche la nebbia che caratterizza diversi film di Fellini. L’imprecisione e l’approssimazione sono la cifra estetica di programmi cult come Quelli della notte di Renzo Arbore, dove il discorso erratico e sconclusionato diventa piacere ludico. Nelle arti i cosiddetti «nuovi-nuovi» (denominazione di Barilli) ricercano l’imprecisione naïf come effetto colto; negli Stati Uniti i «bad painters» e i graffitisti ricercano la sciatteria. In letteratura troviamo in alcuni autori il gusto per il «pressappoco linguistico», per le sgrammaticature e per i difetti sintattici: si vedano alcune opere di Busi, di Palandri, di Tondelli.
Il metodo
Abbiamo detto che l’obiettivo di Calabrese, sulla scia di precursori importanti, è quello di descrivere il «gusto della nostra epoca» (anni Ottanta), dunque. Ora vorrei soffermarmi però sul metodo di questa descrizione. Del resto qui siamo chiamati a riflettere sull’invenzione del barocco – nel mio caso sull’invenzione del neobarocco –, e il termineinvenzione è già di per sé molto eloquente: indica un atto di creazione da parte dell’analista. Vediamo dunque come l’analista si propone di inventare il neobarocco.
Primo problema: come selezionare certi fatti d’epoca che si ritengono rilevanti? Con una metafora efficace, Calabrese paragona l’insieme della cultura al listino della Borsa. Ci sono titoli solidi che vanno bene da sempre: non sono quelli che caratterizzano un certo andamento mensile. Ci sono poi dei titoli che improvvisamente rialzano o crollano: questi consentono di definire il tipo di orientamento del mercato, e ciò a causa dell’«eccitazione» che provocano nel pubblico degli operatori. Sono proprio questi titoli, secondo l’autore, a dare l’orientamento del mercato in un certo periodo, e uscendo dalla metafora sono questi oggetti culturali a qualificare la cultura di un’epoca o di un periodo. Quindi l’obiettivo è quello di trovare oggetti culturali particolari che possono delineare nuove tendenze.
Secondo problema: è lecito etichettare periodi della storia con motivi di ordine generale? In altri termini, è legittimo dire che siamo in un’epoca classica, o in un’epoca barocca, o neobarocca? Seguendo gli assunti epistemologici del Novecento, Calabrese afferma che il problema è quello di definire con precisione il punto di vista prescelto, e su quella base articolare il criterio di coerenza dei fenomeni analizzati. Quindi, è ovvio che qualsiasi momento storico è caratterizzato da fenomeni eterogenei, complessi, conflittuali e ben distinti, ma è anche vero che un analista può trovare somiglianze, tendenze, similarità e differenze sulla base di un proprio punto di vista ben esplicitato e di un metodo di lavoro coerente. Si tratta di cercare una «logica della cultura», dei «caratteri», delle «episteme», e qui è evidente il debito foucaultiano [13]. Cito questo passaggio che mi sembra molto preciso: “I fenomeni non parlano mai da soli e per evidenza. Bisogna «provocarli». Il che equivale a dire che bisogna costruirli come oggetti teorici. In altri termini, non esiste una oggettività immediata dei fatti, ma esiste solo la coerenza della prospettiva con cui li si interroga, dell’orizzonte entro il quale li si eccita a rispondere” [14].
Come si ottiene questa coerenza? Con tre mosse che ritengo fondamentali: la prima consiste nel prendere degli oggetti culturali – anche assai disparati tra loro – e considerarli fenomeni di comunicazione, cioè fenomeni dotati di una forma, di una struttura soggiacente. Che cosa fa l’analista? Prende un film, una scultura, un quadro, una partitura musicale, un programma televisivo, una serie di azioni di un gruppo di persone, ma non ne analizza le manifestazioni, eterogenee e composite: ne ricerca piuttosto unaforma soggiacente, che può essere narrativa, plastica, figurativa, tematica, e sulla base di questa forma procede alla comparazione per trovare differenze e somiglianze. E.T., Zelig,Il nome della rosa e la teoria delle catastrofi non sono omologabili sulla base delle loro manifestazioni percettive, tutte invero assai diverse, ma in virtù di un principio formale astratto, quello dell’instabilità e della metamorfosi di certe strutture. Si tratta quindi di partire dalla manifestazione ma di dirigersi subito alla ricerca di un principio astratto di organizzazione formale. Del resto Calabrese confessa di preferire il termine neobarocco rispetto alla categoria passe-partout di postmoderno perché crede che “molti importanti fenomeni di cultura del nostro tempo siano contrassegnati da una «forma» interna specifica che può richiamare alla mente il barocco” [15]. La seconda mossa consiste nel non concepire uno stile solo come una sommatoria di forme, ma anche come tendenza all’investimento di valore. Le categorie morfologiche sono sempre accompagnate da giudizi (etici, estetici, ecc.) positivi o negativi. La terza mossa consiste nell’uso di categorie operative che siano interdefinite: l’interdefinizione dei concetti garantisce infatti il controllo intersoggettivo dei risultati. Calabrese riprende questa “vocazione scientifica” da Greimas [16] e così propone coppie categoriali che si interdefiniscono e che vivono interrelate: ritmo e ripetizione, limite ed eccesso, dettaglio e frammento, instabilità e metamorfosi, disordine e caos, nodo e labirinto, complessità e dissipazione, distorsione e perversione, ecc.
Come si colloca questo studio rispetto agli studi formalisti sul barocco? Fondamentale è lo studio di Heinrich Wölfflin I concetti fondamentali della storia dell’arte [17], in cui si propone un metodo che si può riassumere così: a) ogni opera o serie di opere è la manifestazione di alcune forme astratte ed elementari; b) tali forme sono definite in liste di opposizioni e danno quindi luogo a un sistema di differenze («lineare»/«pittorico», «superficie»/«profondità», «forma chiusa»/«forma aperta», «molteplicità»/«unità», «chiarezza assoluta»/«chiarezza relativa»); c) uno stile è pertanto il risultato di una serie di scelte operate sui poli di queste opposizioni. Tuttavia Wölfflin è ancorato all’idea di storicità degli stili e sostiene una sorta di continuità evolutiva fra di essi, e quindi un “ritmo della storia”. La stessa impostazione evoluzionistica caratterizza per certi versi La vita delle forme di Focillon [18], e anche Dorfles [19] intende dare una dimensione storica al neobarocco, collocandolo in un periodo novecentesco già trascorso (cubismo, organicismo, neoempirismo). La storicità è invece negata da Eugenio d’Ors [20], che propone un’ipotesi metastorica del barocco, e da Sarduy [21], che definisce «barocco» non tanto un periodo specifico della storia della cultura ma un atteggiamento generale e una qualità formale dei fenomeni culturali.
Calabrese nota che negli studi formalisti c’è sempre una contraddizione irrisolta tra il concetto astratto di stile o di forma artistica e la sua colocazione storica. E anche quando si abbandona la storicità in favore della categorizzazione manca una rigorosa interdefinizione dei concetti: né Wölfflin, né Focillon, né d’Ors riescono a costruire un quadro concettuale articolato (Wölfflin per esempio non spiega la pertinenza reciproca delle categorie, e quindi potrebbero essere altrettanto valide altre coppie categoriali). Degna di nota è la proposta di Anceschi [22], il quale provava a risolvere la contraddizione proponendo di considerare il barocco come sistema culturale con determinate componenti formali, ma partendo da una sua precisa descrizione storica: solo dopo averne costruito teoricamente, ma anche storicamente, i confini e i caratteri, si sarebbe potuto allargarne l’applicazione ad altri periodi storici e ad altri sistemi culturali.
Si tratta senz’altro di una soluzione corretta, ma Calabrese ne propone un’altra che tenda a rendere «rigoroso» il formalismo. Ne ripeto in sintesi i preuspposti teorici: (i) analizzare i fenomeni di cultura come testi, evitando il ricorso a spiegazioni extratestuali; (ii) identificarne delle morfologie soggiacenti; (iii) analizzare il modo in cui queste morfologie vengono valorizzate in un dato sistema culturale; (iv) giungere alla definizione di un «gusto» o di uno «stile» come tendenza a valorizzare certe morfologie. Pertanto: “Non si tratterà più di confrontare, sia pure formalmente, momenti diversi e isolati di fatti storicamente determinati, bensì di verificare la diversa manifestazione storica di morfologie appartenenti al medesimo piano strutturale. La storia viene vista come il luogo di manifestazione di differenze, e non di continuità, la cui analisi empirica (e non deduttiva) permette di ritrovare modelli di funzionamento generale dei fatti culturali” [23].
Semiotica della cultura
Paolo Fabbri ha etichettato questo lavoro di Calabrese come uno studio di estetica sociale, ma io vorrei qui sottolineare che si tratta anzitutto di uno studio di semiotica della cultura, o meglio di un’analisi culturologica con un taglio strutturale e semiotico. Sullo sfondo c’è infatti Lotman, che con i suoi lavori ha gettato le basi per una semiotica della cultura. Sulla scorta di Lotman, Calabrese pensa la cultura come una spazio al centro del quale si collocano i sistemi più stabili e dominanti, alla periferia del quale si collocano invece i sistemi più flessibili, elastici, mobili [24]. Lo spazio culturale – definito da Lotmansemiosfera [25] – è, sempre in termini topologici, delimitato da un confine che segna la fine del proprio spazio e l’inizio di uno spazio culturale esterno, di un’altra semiosfera. Infatti se è vero che una cultura va pensata come uno spazio conchiuso, unitario e omogeneo, è altresì essenziale che si stabilisca un dialogo con una non-cultura, cioè con una cultura altra: è solo attraverso il dialogo con altri sistemi, infatti, che la cultura può produrre nuova informazione, può esprimere il suo dinamismo. Ma la cultura ha anche un suo dinamismo interno perché è un vasto spazio in cui coesistono molti sistemi di significazione: la scrittura, la moda, le arti visive, la religione, l’architettura, i comportamenti, i giochi, i miti, le fotografie, l’urbanistica, gli oggetti, la scienza, ecc. Secondo Lotman e gli studiosi della scuola di Tartu un sistema di significazione isolato non può costituire cultura perché la condizione minima è che sussista almeno una coppia di sistemi correlati: “I singoli sistemi segnici, pur presupponendo strutture con una organizzazione immanente, funzionano soltanto in unione, appoggiandosi l’uno all’altro. Nessun sistema segnico possiede un meccanismo che gli consenta di funzionare isolatamente” [26]. La semiotica della cultura dovrebbe proprio studiare la correlazione tra i diversi sistemi segnici che costituiscono una semiosfera.
Quando Calabrese descrive i sistemi culturali che forzano i confini e sperimentano l’eccesso, come quello neobarocco, al contrario dei sistemi più classici che sono orientati verso la stabilità del centro, riprende la metafora topologica lotmaniana: da questo punto di vista l’autore suggerisce peraltro di pensare lo spazio culturale neobarocco come uno spazio non euclideo, con forze che lo flettono, lo piegano, lo curvano, lo distorcono. Ma soprattutto Calabrese analizza la cultura neobarocca a partire dai suoi sistemi di significazione, ricercando una correlazione formale tra il cinema e la pubblicità, tra la televisione e i fumetti, tra i videogames e la musica, tra gli oggetti e i comportamenti, tra Derrida e Pippo Baudo, senza porre confini invalicabili tra cultura “alta” e cultura “bassa” – seguendo in questo la lezione di Umberto Eco – ma facendo interagire tutti i sistemi. Vorrei ricordare come nota positiva l’insistenza con cui si cerca, per esempio, una somiglianza formale-concettuale tra molti prodotti dell’estetica nell’era delle comunicazioni di massa e le ultime formulazioni della «nuova scienza» (per es. la teoria dei frattali o la teoria delle catastrofi). Un’analisi del genere produce un quadro culturale composito, variegato, dinamico, e infatti nelle conclusioni Calabrese ricorda che accanto alle forme neobarocche, così instabili e polidimensionali, convivono forme classiche molto tradizionali, stabili, ordinate: si pensi al grande successo che ebbero in quel periodo i Bronzi di Riace, o al successo del modello fisico di Stallone-Schwarzenegger, o alla diffusione delle pratiche del body building. Quello che si dà, quindi, è la coesistenza di forme conflittuali. Classico e barocco sono visti qui come modelli morfologici o forme del gusto che convivono e che si interdefiniscono: “L’uno non esiste senza l’altro, e anzi l’uno pone necessariamente l’altro in modo implicito (o addirittura esplicito). Classico e barocco pertanto non si rincorrono nella storia. Convivono. La storia è eventualmente il terreno nel quale si attuerà una prevalenza, quantitativa o qualitativa che sia. Osservarla, darà luogo a una storia delle forme. Descriverne i fondamenti dà luogo a una teoria delle forme” [27].
Pertanto sullo sfondo ci sono la concezione topologica della cultura elaborata da Lotman, le incursioni nei vari sottoinsiemi della cultura fatte da Eco soprattutto negli anni Sessanta, e la “vocazione scientifica” di Greimas. È in questo senso che L’età neobaroccarappresenta un passo avanti per la semiotica della cultura: esso fa interagire diverse anime della semiotica, con grande ambizione e con solide basi teoriche. È peraltro un libro di grande attualità, perché parlando di romanzi, di film, di oggetti e di comportamenti non si pone il problema – che angustia i semiologi di oggi – della differenza tra testi e pratiche, tra ricerche desk e ricerche etnografiche: non vi sono grandi differenze tra un romanzo, una trasmissione televisiva e il comportamento violento di un gruppo di tifosi perché la semiotica – come ho già detto – ricerca le forme soggiacenti, le strutture astratte, al di là delle manifestazioni concrete. L’unità di analisi è sempre il testo, così come viene costruito dall’analista.
Vorrei infine menzionare, rispetto a un’operazione culturologica di questo tipo, un precedente illustre, e cioè il Roland Barthes delle Mythologies [28]. Negli anni Cinquanta Barthes aveva provato a decodificare alcuni fenomeni della cultura di massa dell’epoca: i dischi volanti, lo striptease, la Citroën, il Tour de France, Marlon Brando, la Garbo, il music-hall ecc. Ricordo a tal proposito due cose. Analizzando questi fenomeni Barthes aveva un obiettivo ben preciso: voleva capire i meccanismi con i quali la società borghese tendeva a far sembrare naturale ciò che era storico e culturale; Barthes mostrava un interesse particolare, cioè, per quei meccanismi di mascheramento attraverso i quali il mondo della borghesia tendeva a naturalizzare ciò che invece era costruito socialmente. C’era quindi un intento politico-ideologico molto netto. Ma soprattutto Barthes aveva l’ambizione di dare un fondamento scientifico alle sue analisi, e nell’ultimo saggio usava le categorie semiotiche di denotazione e connotazione per spiegare questi meccanismi di occultamento sociale. Non mi soffermo sugli aspetti tecnici di questa proposta – aspetti ovviamente datati e sorpassati – ma mi interessa sottolineare un’esigenza sentita già da Barthes, e ancor di più dai semiologi di oggi: quella cioè di riflettere sul proprio metodo e di dare un fondamento scientifico alle proprie analisi. Fondamento scientifico, nelle scienze umane, significa ripetibilità delle procedure, interdefinizione dei concetti, controllo intersoggettivo dei risultati.
Intendiamoci: né Barthes né Calabrese arrivano a usare procedure d’analisi ripetibili o categorie rigorosamente interdefinite, e non producono quindi risultati del tutto controllabili. Ma almeno c’è quella che Greimas chiamava “vocazione scientifica”: c’è l’ambizione, il tentativo di dare al proprio sguardo un solido fondamento metodologico, in linea con gli intenti formalisti prima e strutturalisti poi. E questo mi pare già molto.
Note
[1] Omar Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari, p. VI.
[2] Gillo Dorfles, Architetture ambigue, Dedalo, Bari, 1985; e Elogio della disarmonia, Garzanti, Milano, 1986.
[3] Omar Calabrese, op. cit., p. 55.
[4] Roland Barthes, Fragments d’un discours amoureux, Seuil, Paris, 1979 (trad. it.Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1981).
[5] Omar Calabrese, op. cit., p. 95.
[6] Omar Calabrese, op. cit., p. 120.
[7] Benoit Mandelbrot,Les objets fractals, Flammarion, Paris, 1977 (trad. it. Gli oggetti frattali, Einaudi, Torino, 1986).
[8] Omar Calabrese, op. cit., p. 130-131.
[9] Omar Calabrese, op. cit., p. 135.
[10] Ilya Prigogine e Isabelle Stenghers, La nouvelle alliance, Gallimard, Paris, 1979 (trad. it. La nuova alleanza, Einaudi, Torino, 1981).
[11] Omar Calabrese, op. cit., p. 152.
[12] Gilles Deleuze e Félix Guattari, Rhizôme, Minuit, Paris, 1976 (trad. it. Rizoma, Pratiche, Parma, 1977).
[13] Si veda per esempio Michel Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris, 1969 (trad. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971).
[14] Omar Calabrese, op. cit., p. 10.
[15] Omar Calabrese, op. cit., p. 17.
[16] Greimas, Algirdas J. e Courtés, Joseph, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979 (trad. it. con integrazioni: Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, a cura di Paolo Fabbri, Bruno Mondadori, Milano, 2007).
[17] Heinrich Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, München 1915 (trad. it.Concetti fondamentali della storia dell’arte, Longanesi, Milano, 1953).
[18] Henri Focillon, La vie des formes, Flammarion, Paris, 1934 (trad. it. La vita delle forme, Einaudi, Torino, 1987).
[19] Gillo Dorfles, Architetture ambigue, op. cit.>
[20] Eugenio d’Ors, Lo Barroco, Madrid, 1933 (trad. it. Del barocco, Rosa & Ballo, Milano, 1945).
[21] Severo Sarduy, Barroco, Seuil, Paris, 1975 (trad. it. Barocco, Il Saggiatore, Milano, 1980).
[22] Luciano Anceschi, L’idea del barocco, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1984 (raccoglie vari studi sul barocco apparsi in varie sedi tra il 1945 e il 1966).
[23] Omar Calabrese, op. cit., p. 24.
[24] J. M. Lotman e B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975.
[25] J. M. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985.
[26] JIvanov V.V., Lotman J.M., Piatigorskij A.M., Toporov V.N., Uspenskij B.A., 1973, “Tesi per un’analisi semiotica delle culture”, in J. M. Lotman, Tesi per una semiotica delle culture, Roma, Meltemi, 2006, p. 107 (originale: “Tezisy k semiotičeskomu izučeniju kul-tur (v primenenii k slavjanskim tektstam)”, in Semiotyka i struktura tekstu. Studia święcone VII międz. Kongresowi slawistów, a cura di M.R. Mayenowa, Warszawa, pp. 9-36.
[27] Omar Calabrese, op. cit., p. 202.
[28] Roland Barthes, Mythologies, Seuil, Paris, 1957 (trad. it. Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974).