Un lessico (aperto) per tempi interessanti

Tra gli eventi organizzati per il festeggiamento del secondo anno di riapertura, il Teatro Rossi Aperto di Pisa ha deciso di ospitare una “Conversazione su tempi interessanti” a partire dalla presentazione del volume Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, a cura di Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini (Mimesis, 2014). il lavoro culturale, in collaborazione con il Teatro Rossi Aperto, ne offre oggi un’articolata restituzione.

 

La discussione con i tre curatori e con due delle autrici e autori delle voci del libro, Cristina Morini e Michele Spanò (introdotta da Enrico Gullo, con interventi di Sandra Burchi, Federico Oliveri e Francesco Biagi) è stata progettata come un’interlocuzione, in un luogo non neutro, da cui farsi attraversare: a partire da quattro termini del “lessico politico” del volume – Bene comune, Crisi, Legalità, Precarietà – la conversazione ha preso le mosse dall’esperienza passata, dalla condizione presente e dalle prospettive future di un luogo come il Teatro Rossi Aperto. Due anni di “riapertura”, come si preferisce dire al TRA, una trattativa lunga ed estenuante, la complessità della condizione delle/degli occupanti e la difficoltà connessa di procedere a misure di autoreddito, la conseguente scelta di intraprendere la strada della trattativa istituzionale affrontando il rischio della cattura, ma anche cercando di segnare alcuni risultati passo dopo passo, sono alcuni degli argomenti che hanno potuto essere messi in discussione e sfruttati per verificare la tenuta della “cassetta degli attrezzi” proposta da Genealogie del presente. Con l’effetto di far proliferare altro lessico – realizzando così quella che era l’ispirazione originaria del progetto: fare del libro una piattaforma di dibattito, un’occasione di discussione di temi e problemi urgenti per la ricomposizione di una soggettività politica antagonista, un lavoro costitutivamente in divenire, che non può che aprirsi a nuove proliferazioni, a nuove voci, a nuove soggettività.

Teatro Rossi Aperto, Pisa, 25 settembre 2014

Conflitto: Quale luogo migliore di un teatro occupato per tornare a parlare di conflitto? Proprio in apertura di presentazione si è infatti ribadita la centralità del concetto di “conflitto” nell’impostazione metodologica e nella prospettiva teorica che hanno presieduto alla nascita del progetto Genealogie del presente. Resistere alla pax semantica imposta al linguaggio politico dalla nuova ragione del mondo neoliberale, spezzare la forclusione del conflitto riscoprendo, grazie al lavoro genealogico, le potenzialità eterotopiche di parole progressivamente ridotte a idoli totemici e a strumenti di governo: ecco, in breve, l’intento programmatico di un lessico per tempi interessanti. Il che però porta subito a domandarsi, come in effetti si è fatto a Pisa da più parti, quale sia oggi il soggetto capace di farsi interprete di questa rinnovata carica antagonista. Si è così ad esempio notato come il lavoro cognitivo, pur guadagnando sempre maggiori spazi di autonomia, appaia però ad oggi restio a reagire conflittualmente al ricatto del capitale. Ciò detto, nulla è scontato: la frammentazione del corpo del lavoro vivo determinata dai processi di precarizzazione può però sempre ribaltarsi in potenza trasformativa dell’esistente.

Dipendenza: Alla domanda consegnata in apertura di conversazione dagli occupanti del teatro su “come condurre una buona vita” nel tempo segnato dalla crisi e dalla precarietà, la risposta – ancorché parziale – è venuta articolandosi attorno al concetto di “dipendenza”. Il pensiero femminista, poststrutturalista e queer, ciascuno secondo i suoi tempi e le sue forme, hanno d’altronde insistito proprio su questo concetto, ponendolo alla base, alternativamente, tanto di un’ontologia del soggetto, quanto di un’aspirazione normativa. Tutt’altro che privi di aporie, questi due momenti dell’analisi si sono riproposti – e arricchiti di nuove suggestioni – durante la conversazione. A dispetto della struttura tardo-settecentesca (già densamente stratificata) dell’autonomia individuale, funzionale all’organizzazione sociale della dominazione capitalistica, il soggetto – si è ribadito – non è mai autonomo, bensì sempre dipendente da “strutture” per la propria emersione e per la propria soggettivazione, sotto il profilo corporeo (ad es., le relazioni di cura), sotto il profilo psichico (ad es., l’amore, il riconoscimento), sotto quello sociale (ad es., il welfare). Tale dipendenza relazionale non è che il sintomo più evidente di una vulnerabilità costitutiva: se, da un lato, dunque, si tratta di non espungere questa vulnerabilità da qualsivoglia processo trasformativo, ma di farsene carico in tutta la sua interezza, dall’altro si è insistito sull’importanza di sottrarre questo concetto a quelle retoriche che vorrebbero proporne una versione ambiguamente egualitaria, neutralizzata, o estetizzata, così da occultare gli odierni processi di distribuzione diseguale della vulnerabilità (al ricatto, alla necessità, ecc.) – per porre questo concetto al centro di una definizione normativa di buona vita, imprescindibile da un’idea di “eguaglianza”, come qualcosa che bisogna “fare”, e non desumere.

General intellect: Il general intellect è uno degli strumenti ermeneutici chiave nell’analisi della fase attuale del capitalismo (quella cosiddetta “post-fordista”) portata avanti dalle aree di movimento che si richiamano in vari modi all’eredità dell’operaismo. Nel corso dell’incontro pisano, si è discusso di alcune delle criticità relative al concetto, a partire dalla costatazione condivisa delle impasse in cui sembra incorrere quando in esso venga ricercata l’emergenza di un nuovo soggetto emancipatorio. Innanzitutto, si è sottolineato come il riferimento al general intellect e al capitalismo cognitivo rischi di riprodurre in parte il vieto dualismo mente/corpo e di occultare così il profondo coinvolgimento della materialità del cognitariato nelle odierne dinamiche di valorizzazione e sfruttamento. Meglio sarebbe allora parlare di biocapitalismo, in cui il prefisso sta a ricordare la sussunzione vitale (e totale) dell’esistenza della lavoratrice/del lavoratore (corpo e anima, se si vuole) sotto il comando capitalistico. Si è poi ragionato sullo statuto “ontologico” del general intellect. Sarebbe fuorviante, si è detto (benché l’obiezione non abbia incontrato il consenso di tutti i relatrici), interpretarlo come una sorta di attributo essenziale della natura umana, sostanzialmente inattingibile dal capitale. Il pericolo è quello di ricadere negli errori della Gattungstheorie feuerbachiana (e marxiana), postulando un’essenza unitaria dell’umano immodificata dai processi che la mettono a lavoro e capace quindi di costituire immediatamente – senza cioè l’apporto di alcuna mediazione politica – una forma di resistenza al dominio capitalistico. È necessario, cioè, indagare la natura ambigua del concetto di general intellect, stretto tra un dover essere in sé fattore di potenziale liberazione e autonomia e viceversa l’essere catturato, tramite forme di espropriazione da parte del capitale.

Giudizio: A dispetto della sua cattiva reputazione, si tratta di una parola che ricorre più volte nel corso della conversazione, esibendo una propria pregnanza analitica, performativa e propositiva: i concetti di “crisi” e di “giudizio”, già connessi etimologicamente e genealogicamente, sono risaldati a doppi nodi, in due direzioni opposte e tuttavia indisgiungibili. Da un lato, si pone in evidenza, il dispositivo della crisi si configura come instrumentum regni (molto efficace sotto un profilo retorico) mediante il quale si procede a un’amministrazione e a una valorizzazione differenziale dei soggetti (in modo, tuttavia, da scombinare le differenze e le gerarchie di genere, sessuali, razziali ecc., mettendole a lavoro), facendo leva sulla produzione di fenomeni psichici quali la colpa, la cattiva coscienza, la melanconia – fenomeni, questi, ancillari al giudizio di quali vite siano, o meno, “degne di lutto”, di protezione, di supporto. Dall’altro lato, il giudizio, e non la sua sospensione, viene invocato – innanzitutto performativamente – come pratica, come lavoro “critico” collettivo e permanente di soggetti che questionano e mettono “in crisi” gli effetti che il giudizio biopolitico (e, oggi, sempre più necropolitico) sortisce sul proprio vissuto, anzitutto in termini di precarietà e di vulnerabilità al ricatto. Questa invocazione performativa, durante il dibattito, viene rafforzata dalla meditazione su un uso spre-giudicato del diritto, pubblico e privato, come ciò che apre allo spazio del “comune”. Grande pratica discorsiva da cui siamo determinati, il diritto, se ripensato al di fuori della gabbia della non-comunicabilità tra legalità e illegalità (questione centrale, ad esempio, nelle forme di occupazione, che altro non sono se non pratiche collettive di giudizio), potrebbe essere lo spazio in cui testare il giudizio dei mezzi, per una politica del presente.

Normalizzazione: La giustificazione politico-mediatica dell’ondata di sgomberi e arresti che si è recentemente abbattuta sui movimenti sociali – dal Cinema Volturno a ZAM, dal Teatro Valle all’Ex-Q di Sassari – ha prepotentemente riportato la normalizzazione al centro del discorso pubblico. Come è emerso nel corso della conversazione, il concetto è legato a doppio filo alla retorica della legalità, ma conserva rispetto a essa un’eccedenza semantica “oscena”, che sporge in direzioni diverse: la fredda norma statistica, l’asfissiante normalità piccolo-borghese, la normalizzazione poliziesca come riproposizione fantasmatica – ma non per questo meno efficace – di una sovranità in crisi. È allora su questo crinale che bisogna giocare per scardinarne il dispositivo, attraversando spregiudicatamente e senza ipoteche morali il confine tra legalità e illegalità, andata e ritorno, continuando a sperimentare e a forzare i limiti del diritto per creare sempre nuove eccezioni rispetto alla norma neoliberale dominante.

Occupazione: Come mostrato anche dall’esperienza del Teatro Rossi Aperto, il percorso di un’occupazione oscilla alternativamente tra la declinazione di uno spazio occupato come spazio di nuove possibilità, e la tentazione di farsi ente istituzionalizzato sotto l’ingiunzione del ricatto lavorativo. Solo nell’apertura di nuove possibilità, lo spazio si propone come liberato, restituito alla città o perfino creato per e da una comunità fino ad allora impensata; quando ciò non accade, esso diventa al contrario modello immaginifico e identitario, finendo per alimentare retoriche o romanticismi della sovversione destinati a infrangersi, ben prima che sulla loro inefficacia, anzitutto sulla mancanza di soggettività in grado di incarnarle. Il gesto di occupazione – e l’esperienza che ne scaturisce – sono così modalità di sperimentazione di azione e vita in comune, in grado di riarticolare linguaggi apparentemente estranei od ostili.

Sciopero: L’attacco ai salari, la compressione dei diritti sindacali, la dequalificazione e l’aziendalizzazione della formazione e della ricerca, la nuova disciplina della mobilità della forza-lavoro, lo sfruttamento del lavoro migrante: le politiche neoliberali di austerità e lo smantellamento del welfare massimizzano la vulnerabilità di soggetti “non degni di lutto”, accentuando le diseguaglianze e il ricatto della precarietà. In questo contesto, da più parti, si invoca la necessità di uno sciopero sociale, previa riarticolazione delle lotte e delle istanze – le quali, tuttavia, in assenza di un soggetto politico coeso negli obiettivi (e non nelle appartenenze), che possa farsene attivamente carico rischiano di cadere nel vuoto. In particolare, nel corso della conversazione si è posto l’accento sul livello di consapevolezza, e sull’intento, che dovrebbero innescare una sospensione prolungata delle condizioni che rendono oggi insopportabile la vita sociale – non già per mezzo dell’ennesima dimostrazione paternalistica dell’utilità sociale della popolazione precaria, bensì attraverso un un’azione finalmente all’altezza delle nuove dinamiche di sfruttamento, che si estendono ormai ben al di là delle mura della fabbrica e che annullano il confine tra tempo di lavoro e di non lavoro.

Soggetto politico: Le recenti analisi sulla precarietà, condotte innanzitutto a livello di movimento, in un amalgama costante tra azione e riflessione (ad es. San Precario), hanno evidenziato come essa non si limiti ad agire come mero dispositivo economico e governamentale, bensì come una nuova configurazione delle forme di vita. Una precarietà ontologica che si declina in ogni faglia dell’esistenza, intaccando così la costituzione stessa delle soggettività, esposte a una labilità fino ad oggi inaudita. Una condizione sociale che non si può tramutare precisamente in un’unica e omogenea classe sociale, detto che il concetto di classe è inadatto a nominare il corpo sociale composito del lavoro nel biocapitalismo cognitivo. Da qui la fatica più volte ammessa, anche dai partecipanti del Teatro Rossi Aperto, a mantenere una dimensione collettiva del soggetto politico, sempre in bilico tra la dispersione e la concentrazione identitaria. In tale clima, l’unica via di fuga sembra consistere nel continuare a pensare le pratiche, senza smettere di farle, con la consapevolezza che in ogni pratica accadono più cose di quante se ne possano prevedere. Resta tuttavia gravida di implicazioni la costante mancanza di un soggetto politico – constatazione, questa, che già pervade tutte le pagine di Genealogie del presente. Quelle riguardanti un “popolo” che non può darsi se non nella sua mancanza, quelle sul “precariato” esistenziale il cui diretto corollario è il dissolversi della dimensione di “classe”, quelle sul “movimento”, così intempestive nella loro analisi. Solo una prassi capace di fronteggiare le mancanze, i cedimenti o le dissolvenze a cui le soggettività politiche oggi vanno incontro, potrà perseguire un’attività di ricomposizione di nuove e forse ancora inaudite forme di resistenza. Delle forme che possano interessare non solo le università e i teatri, ma anche le periferie e i tutti i luoghi in cui il lavoro, in ciascuna delle sue forme, fa sentire il suo giogo.

Traduzione: Uno dei problemi sollevati durante la discussione dei testi di Genealogie del presente riguarda la difficoltà di individuare il pubblico cui dovrebbero essere diretti. A chi parla Genealogie? E da dove? Anzitutto, si sono rilevate le criticità implicite in un lessico che, pur volendosi strumento di lotta, si trova in gran parte costituito a partire dalle parole dei vincitori. Un lessico del linguaggio politico-mediatico, dunque, che rischia con ciò di concedere una primazia simbolica al potere, di farsene dettare l’agenda. Tuttavia, se è ancora possibile trovare un terreno comune di lotta entro il perimetro che tali parole disegnano, questo è perché, a fronte della loro confisca nelle maglie del dominio, resta ancora aperta la possibilità di restituire loro consistenza politica e dunque conflittualità. È qui che si tocca con mano la necessità di un’operazione di traduzione, sviluppata in momenti successivi e articolata su diversi piani: de-gergalizzazione e de-tecnicizzazione del linguaggio critico, passaggio continuo e circolare dalla teoria alla pratica, attraversamento di spazi e luoghi diversi (dal centro alla periferia e ritorno). La pratica, e la politica, della traduzione, che si fonda su un costante processo di disfacimento e di rifacimento (linguistico, concettuale, programmatico), altro non è che una delle tante forme di relazione che si tratta di percorrere fino in fondo, dimenticandosi – almeno per un momento – di dipendere da ciò che siamo, per scorgere insieme ciò che potremmo diventare.

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