L’esperienza delle persone queer in “Oriente” e in “Occidente”

La connessione implicita tra queerness e bianchezza è una caratteristica fondamentale della liberalità occidentale

Fotografia di Oumaima Dermoumi, soggetto: Juliana Yazbeck, coreografia di Marwa Asserraji, dalla serie “Neither Here Nor There”

Recentemente mi sono imbattuta nel video in cui Sarah Hegazi augura un felice compleanno al suo avvocato. Il video è diventato virale nel giugno del 2020 e in esso, Sarah racconta di non aver avuto mai delle amicizie strette in tutta la sua vita. Questa dichiarazione mi ha colpita perché esprime un sentimento comune: Sarah era una delle tante persone arabe e queer e che, come tali, si sentono isolate in società che dicono loro che non esistono. Dove Sarah si trovasse – in Canada o in Egitto – non è rilevante: in entrambi i casi, Sarah si sentiva disconnessa da una parte di sé e non si sentiva parte di una comunità. Il suo suicidio ha causato reazioni contraddittorie, dall’incitamento all’odio contro la comunità LGBTQIA+ araba e mediorientale, alle dichiarazioni di solidarietà globale verso la stessa comunità – solidarietà che non ha avuto ripercussioni reali, di cambiamento, in Egitto. Tuttavia, interrogarsi su cosa sia cambiato o meno in Egitto non è la cosa importante; dobbiamo invece riflettere sulle condizioni di vita che Sarah e le molte altre persone queer e arabe affrontano sia nei loro paesi d’origine, sia nei luoghi dove cercano rifugio, in quelle che dovrebbero diventare le loro nuove case. Solo così possiamo cominciare a muovere i primi passi verso un futuro che sia inclusivo e luminoso per tutte le persone.

Secondo alcune note rappresentazioni, l’ “Oriente” sarebbe caratterizzato da una mentalità e una cultura dominante – la cultura araba – improntata alla cura degli altri. Tuttavia, questa volontà e questo dovere di cura non si estendono agli emarginati. Per gli esclusi, tale cultura collettiva esiste solo quando giudica le loro azioni e quando li colpevolizza, ricordando loro che le azioni compiute possono avere un’influenza negativa sul resto della collettività. La vergogna nasce proprio da qui, e coloro che vi si oppongono – chi sventolando una bandiera arcobaleno a un concerto, chi discutendo di argomenti ritenuti tabù – vengono respinti e puniti per la loro trasgressione. Tale mentalità è anche la ragione per cui molti in Medio Oriente vedono l’essere queer come un’ “azione”  che si intraprende, e non come un’identità. Del resto, il rifiuto dei governi mediorientali a migliorare le condizioni di vita delle persone LGBTQIA+ non è dissimulato, anzi, è esibito. L’Egitto nega che le persone queer esistano, quando spinto a riconoscere che le proprie politiche sono disumane e discriminatorie. Non solo i governi della regione si abbattono sulla comunità queer con violenza, ma persino chi osa sostenerne i diritti è punito. Le tensioni causate dal colonialismo e dal neocolonialismo giocano un ruolo importante nel determinare questa situazione, ed è ironico che le nazioni ex-colonizzatrici siano ora considerate liberali e pro-LGBTQIA+.

Ad uno sguardo superficiale, “Oriente” ed “Occidente” sembrano approcciarsi alla comunità queer in modi diametralmente opposti. Nella cultura dominante in Medio Oriente, l’omosessualità è associata alla devianza, qualcosa da deridere o da temere. Il linguaggio della devianza e della paura può essere utilizzato per alimentare l’odio verso gli altri e verso noi stessi. Naturalmente, sul linguaggio vi è un dibattito molto acceso. Il linguaggio quotidiano ospita parole ed espressioni escludenti, ed è facile pensare che “sia sempre stato così”. Tale linguaggio è pericoloso perché collegato alla questione morale: se la maggioranza ritiene che la queerness sia immorale, allora è del tutto comprensibile (e tristemente incoraggiato) che essa venga pensata come temibile e da controllare. L’incardinamento della sessualità nella questione morale è qualcosa che vediamo nella maggior parte dei paesi della regione, mentre in Occidente, la sessualità è discussa in quanto identità, cosa che ha contribuito a umanizzare il discorso pubblico e che ha portato a cambiamenti positivi nella legislazione e nella percezione sociale di cosa vuol dire essere queer. Questi cambiamenti impediscono che l’essere queer venga associato all’impulsività, alla malattia o alla follia, e che sia visto come parte di ciò che rende un essere umano tale. Ma questo non vale se i corpi queer non sono bianchi.

Sebbene le persone queer arabe e di provenienza mediorientale e nordafricana non godano di diritti umani fondamentali nella regione, una volta in “Occidente”, esse sono “ancora arabe” e solo in questo modo possono far parte della società. L’emarginazione e la discriminazione che affrontano in patria li costringono a emigrare, nella speranza di trovare un futuro migliore altrove, ma una parte fondamentale di loro “rimane indietro” una volta raggiunta una destinazione “liberale”.

Sembra esserci un’incompatibilità di fondo tra l’essere una persona araba e queer, e il far parte pienamente di una comunità. Sarah era vulnerabile e in Egitto, non le era permesso di amare apertamente e senza conseguenze. Ma in Canada, sebbene sperimentasse una maggiore accettazione della sua sessualità, ha dovuto affrontare il trauma dell’esilio, oltre a quello della violenza subita in Egitto per mano del regime.

Murale dedicato a Sarah Hegazi, Amman (fonte: Wikimedia Commons)

Sebbene l’ “Occidente” riconosca l’essere queer come un’identità e non come un’azione, esso non riesce a vedere l’intersezione tra sessualità ed etnia o nazionalità. La queerness bianca non contempla chi non si adatta ai suoi standard. L’essere “ancora arabi” per le persone immigrate e queer significa essere ritenuti non-includibili in “Occidente”. Una persona queer canadese e araba descrive la sua esperienza dicendo: “Non si può negare che essere una persona di colore è difficile in ‘Occidente’, ma lo diventa ancora di più quando si cerca di costruire un senso di appartenenza alla propria comunità: spesso si è rifiutati proprio perché non bianchi”. Chi si trova nella posizione di Sarah – continua – fatica a sentire un senso di appartenenza. “Mi ci è voluto molto tempo per riconoscere che non mi sono mai sentito accettato all’interno comunità queer locale e non credo che mi sentirò tale mai […] Essere un uomo di colore queer rende difficile lo ‘stare’ nella società e non si può negare che il suprematismo bianco esista nelle comunità queer canadesi”.

La connessione implicita tra queerness e bianchezza è una caratteristica fondamentale della liberalità occidentale. Ciò che le persone queer arabo-canadesi vivono nella loro vita quotidiana è altresì visibile in un altro ambito politico, ovvero il comportamento elettorale. Le abitudini di voto degli uomini queer bianchi in Europa e negli Stati Uniti rivelano che sono l’islamofobia e il razzismo a orientare il loro voto, prevalendo sul valore dato all’inclusione sociale e politica. Poiché il voto individuale incide così tanto sui processi e sulla partecipazione sociale, la scelta di votare per un candidato razzista o islamofobo è un atto di violenza politica che cancella il fatto che la queerness esiste ed è sempre esistita al di fuori della bianchezza.

La tensione tra l’inclusione e l’esclusione politica e sociale è evidente anche nel modo in cui chi detiene il potere fomenta l’esclusione, molte volte con conseguenze detrimenti per la vita di chi è escluso. In genere, inclusione ed esclusione sono visti come concetti coerenti e definiti, ma la realtà è più complicata. Ad esempio, non è corretto confondere l’islamofobia e le posizioni anti-immigrati, con l’omofobia. Nel 2017 in Francia, Marine Le Pen stava vincendo il voto gay nonostante le sue opinioni politiche islamofobe; ovviamente, la comunità gay musulmana in Francia non ha votato per Le Pen. E durante il mese del Pride nel 2019, Donald Trump ha parlato alla comunità LGBTQ dicendo: “Come vostro presidente, farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere i nostri cittadini LGBTQ dalla violenza e dall’oppressione di odiose ideologie straniere”. La distinzione “noi/loro” presente in questa dichiarazione suggerisce che le persone arabe e queer non godranno della stessa protezione riservata ai loro concittadini LGBTQ, e ribadisce la logica escludente che ha animato cosiddetto “Muslim ban” di Trump, il quale ha reso più difficile per le persone mediorientali e queer il cercare asilo negli Stati Uniti.

Possiamo essere davvero sorpresi se Sarah non ha trovato sostegno in nessuna parte del mondo? Possiamo essere davvero sorpresi che la notizia del suicidio di un’attivista queer egiziana nel paese in cui aveva chiesto asilo non abbia portato a nessun cambiamento nelle politiche relative alla protezione internazionale? La storia di Sarah Hegazi è emblematica perché mostra come le comunità queer arabe e mediorientali non trovino conforto né nei loro paesi d’origine né nei paesi dove cercano aiuto. Subiscono violenza in entrambi contesti, nonostante questi si presentino, pur in modi diversi, come inclusivi.

Sebbene le espressioni “Occidente liberale” e “Oriente oppressivo” siano frequenti nel nostro frasario quotidiano, esse non descrivono la realtà. Il mondo avrebbe potuto scegliere di agire in senso progressista dopo l’orribile notizia della morte di Sarah, ma questa sembra già essere stata dimenticata o messa da parte. Il bisogno di connessione umana e del sentirsi parte di una comunità è universale; le persone emarginate sono però private del diritto di appartenere, del sentirsi parte. Per andare verso un futuro più umano, i governi e i popoli devono rendersi conto di quanto siano complici della violenza che le comunità queer arabe, mediorientali e/o musulmane subiscono in entrambi i contesti. Senza un reale riconoscimento, ogni giorno mettiamo a rischio più vite.

La versione originale dell’articolo è apparsa su My Kali Magazine e fa parte del numero speciale “Emigration & Desolation”. Traduzione a cura di Paola Rivetti.

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