Alcune considerazioni sull’uso politico del mito di Lepanto
A pochi giorni dall’anniversario del celebre scontro tra Turchi e Cristiani e sulla scorta delle voci contraddittorie su un possibile coinvolgimento italiano nei raid aerei anti-Isis, proponiamo una serie di considerazioni che mirano a decostruire alcuni luoghi comuni sui quali è nato il mito di Lepanto, archetipo dello scontro di civiltà tra musulmani e cristiani.
Tu Turcho e tu Christian per mio decreto più non
andate come andaste inanti: il Turcho faccisi più
avanti e tu, Christiano, ariento
(Scolio, Il Settennario)
Islam punk, Islam punk, Islam-punk-und-punk-Islam
Punk Islam, punk Islam, punk-Islam-und-Islam punk
(CCCP-Fedeli alla linea, Punk Islam)
Un vessillo dalle dimensioni gigantesche: sette metri e mezzo di lunghezza per quattro di larghezza; sfondo azzurro, trapuntato da un enorme crocifisso e da una massiccia catena dorata che teneva strette insieme le insegne dei partecipanti alla Lega. Questa la finitura dello stendardo che Don Giovanni d’Austria, comandante della Lega Santa e fratellastro di Filippo II di Spagna, fece issare sul pennone maestro della sua Capitana la mattina del 7 Ottobre 1571. La data è di quelle che non si dimenticano facilmente; vuoi perché i tanti anni di buongiorniano Lascia o Raddoppia? hanno contribuito ad indirizzare il sentimento nazionale verso una spiccata tendenza al nozionismo, vuoi perché la battaglia di Lepanto rappresenta uno di quegli eventi che continuano a plasmare l’immaginario collettivo per i secoli successivi al loro accadimento, finendo col trascendere completamente l’oggettività del dato storico.
Immediatamente dopo la vittoria della flotta cristiana a Lepanto, in tutta Europa si assistette alla pubblicazione senza precedenti di un numero incredibile di opere celebrative della battaglia. Memorie, libelli, canzoni ed orazioni tennero incessantemente occupati i torchi di tutte le stamperie del continente. Il valore dimostrato dall’esercito della Lega diventò materia per affreschi ed arazzi, tavole e dipinti su tela, in cui la sconfitta della flotta di Selim II venne rappresentata come il segno evidente della superiorità del Dio cristiano sulla falsa fede dell’Islam. Come è stato giustamente scritto, la battaglia combattuta nelle acque del golfo di Lepanto perse quasi subito il carattere oggettivo del fatto, trasformandosi molto velocemente in una specie di sineddoche dello scontro culturale tra il mondo islamico e quello cristiano.[1]
Non c’è da stupirsi allora se, pur avendo smesso da più di quattro secoli di turbare i sogni degli ottomani, il fantasma del grande vessillo continua ancora ad aleggiare sul dibattito politico italiano. In tempo di rinnovate crociate anti-Islam, infatti, niente si dimostra più redditizio della tecnicizzazione del Mito di Lepanto a scopi elettoral-propagandistici. Alimentata dal carburante delle cosiddette ”emergenze nazionali” – dall’avanzata nera del Grande Califfato all’esodo biblico dei migranti nel Mediterraneo – la Macchina Mitologica di Destra[2] appare impegnata giornalmente in una reinterpretazione strumentale degli eventi del 1571. In queste ricostruzioni, dunque, Lepanto viene sempre rappresentata come il prototipo della vittoria cristiana; scontro in grado di ispirare nuove e più remunerative crociate contro la rinnovata minaccia islamica.
A questo proposito, negli ultimi anni abbiamo assistito a più riprese ad una serie di sgangherati tentativi di utilizzare il Mito di Lepanto quale strumento finalizzato ad allargare la base elettorale del consenso politico. Iniziando dalle deliranti iniziative pubbliche organizzate dall’omonima Fondazione[3], e proseguendo con la presentazione alle Camere di un disegno di legge per l’istituzione della cosiddetta ”Giornata di commemorazione della Battaglia di Lepanto”, le molteplici Destre del panorama politico italiano non hanno perso occasione per deformare la storia ad uso proprio. O meglio, per dirla con le parole del promulgatore del già citato DdL, per difendere il patrimonio storico culturale europeo dalla minaccia della scristianizzazione[4].
Senza voler fare un torto all’inestimabile valore della proposta di legge leghista, l’esempio più autorevole di come la storia di Lepanto abbia subìto negli anni un’evidente torsione a destra ci è dato da una ben nota presa di posizione di Indro Montanelli sul «Corriere della Sera». Ribattendo ad un lettore che gli chiedeva se la vittoria dei turchi avrebbe potuto essere causa di una islamizzazione forzata dell’Occidente, Montanelli rispondeva strizzando l’occhio al latente anti-islamismo della domanda e affermava senza mezzi termini che: «in nessun paese che batta bandiera della Mezzaluna possono nascere o rinascere i valori della Ragione e della Libertà». Ora, per chiunque abbia una visione dei fenomeni storici un po’ meno semplicistica di quella espressa da Montanelli, è evidente come l’uso di quantificatori universali quali «tutti» o «nessuno», impiegati per interpretare i fatti umani, denoti quantomeno una scarsa preoccupazione per la complessità del passato. Tuttavia, è proprio analizzando la faciloneria con cui vengono tagliati i giudizi di questo tipo che è possibile comprendere al meglio la veste mitica di cui spesso sono stati rivestiti gli eventi accaduti nel 1571. In questo senso, citare la domanda che il lettore poneva a Montanelli può costituire sicuramente un buon punto di partenza per riassumere alcuni dei luoghi comuni più diffusi su Lepanto. Ecco di seguito il testo della lettera:
Desidererei la sua opinione su un fatto storico di cui da poco si è festeggiato il 429° anniversario: la battaglia di Lepanto. In quell’occasione l’Occidente cristiano mise da parte odi e divisioni e si impegnò in uno scontro decisivo contro i Turchi che stavano aggredendo e cercando di cancellare dalla storia proprio quella civiltà. I cristiani riuscirono quanto meno ad arrestare l’avanzata dell’Islam nel Mediterraneo [….]. Ora le chiedo: se quel giorno i Turchi avessero vinto, cosa sarebbe accaduto? L’occidente si sarebbe islamizzato e quindi, con molta probabilità, non avrebbe creato la società democratica e liberale come noi oggi la intendiamo, oppure no?[5]
Nonostante il debole tentativo finale di dare un tono dubitativo al periodo – l’Islam è tutto ”Cattivo” oppure sarebbe potuto anche esistere un Islam ”Buono” – la posizione del lettore è evidentemente quella di chi si aspetta una e una sola risposta. E la risposta puntualmente arriva: per Montanelli la civiltà islamica è geneticamente ostile ai valori della Libertà e della Democrazia che solo l’Occidente Cristiano è in grado di partorire e, proprio per questo motivo, di difendere. L’aspetto più importante della battaglia di Lepanto è dunque la ritrovata unità politica delle nazioni cristiane, innalzata a difesa dell’identità culturale europea contro le armate del Turco. Se divisi si soccombe, uniti si difendono democrazia e libertà.
A questo punto, è arrivato il momento di sottolineare come questa parziale ricostruzione dei fatti si fondi su tre elementi essenziali tra loro interconnessi e presenti in tutte le narrazioni di Destra della battaglia: a) l’inequivocabile carattere anticristiano dell’impero Ottomano; b) la presunta compattezza della Lega Santa e lo spirito di crociata che animava i suoi partecipanti; c) la natura capitale e ultimativa della battaglia combattuta il 7 Ottobre 2015. Continuiamo allora col mettere in questione la supposta realtà storica di questi tre assunti.[6]
a) I difensori della lettura di Destra di Lepanto sostengono che l’impero ottomano perseguì, in modo quasi scientifico, la distruzione politico-militare dell’Occidente cristiano. In realtà, per comprendere tutta la vacuità di una simile affermazione, basta semplicemente ricordare qui il carattere essenzialmente sincretistico del dominio turco in Europa. Come noto, infatti, la gigantesca estensione dei territori direttamente controllati dalla Sublime Porta aveva imposto un’organizzazione burocratico-amministrativa del sultanato improntata alla tolleranza religiosa nei confronti delle comunità cristiane che vivevano entro i suoi confini.
Soprattutto nel caso delle comunità cristiane dei Balcani, gli ottomani attuarono quindi una politica d’integrazione forzata dei loro membri all’interno della struttura amministrativa dell’impero. Per raggiungere un tale obiettivo, ogni cinque anni i funzionari inviati da Costantinopoli si occupavano della cosiddetta Devşirme, ossia la pratica secondo cui i giovani cristiani più promettenti venivano condotti a nella capitale dove, dopo essere stati convertiti alla fede islamica, erano avviati senza eccezioni alla carriera di funzionari pubblici. Al tempo di Lepanto, pertanto, tutti i membri del Divan erano cristiani convertiti che avevano raggiunto posizioni apicali nella gestione del potere governativo. Considerazione che vale anche per il più abile capitano della flotta ottomana, il rinnegato calabrese Uluç Alì – il famoso Uccialì del Don Chisciotte – che comandava il fianco sinistro dello schieramento turco il giorno della battaglia.
Contrariamente a quanto sostenuto dalle posizioni ”alla Montanelli”, inoltre, nei mesi a ridosso dello scontro molte delle comunità cristiane di Cipro e di Creta salutarono addirittura con gioia l’arrivo della flotta turca e si sollevarono a più riprese contro il pesante giogo coloniale veneziano. Ben lungi dal considerare l’arrivo degli ottomani come una maledizione divina, le comunità contadine delle due grandi isole mediterranee preferirono dunque allearsi con i turchi pur di sbarazzarsi del dominio di altri cristiani come loro. E questo innegabile fatto, non solo smentisce ulteriormente quanto affermato dalle interpretazioni di Destra, ma apre la strada alla discussione del secondo dei luoghi comuni ricordati sopra:
b) la presunta compattezza del blocco cristiano che si oppose all’avanzata della flotta turca.Con tutta evidenza, anche la fondatezza di questa affermazione, acriticamente assunta dalle narrazioni destrorse di Lepanto, non regge difronte ad una ricostruzione puntuale della vicenda. È risaputo, infatti, che i rapporti tra i diversi alleati che presero parte alla Lega Santa non erano per niente animati da stima reciproca. Su tutti, soprattutto la collaborazione tra la Repubblica di Venezia e il re di Spagna Filippo II fu segnata fin dal principio da una reciproca diffidenza.
A questo proposito, è bene ricordare come, già a partire dalla primavera del 1570, il bailo veneziano a Costantinopoli cercò più volte di dirottare verso un intervento antispagnolo la flotta turca che, nel frattempo, era stata inviata dal Sultano alla conquista di Cipro. Nei numerosi colloqui con il Gran Visir Mehmet Sokollu, l’ambasciatore prospettò al primo ministro turco la necessità di dare manforte alla rivolta dei moriscos spagnoli, così da tenere impegnato il comune nemico sul fronte interno. D’altra parte, anche per gli spagnoli valeva più o meno lo stesso discorso; cosa dimostrata inequivocabilmente dall’atteggiamento ambiguo tenuto dal loro re durante i primi mesi della guerra. Dalle disposizioni segrete che Filippo II inviò ai suoi emissari alla corte di Papa Pio V, infatti, emerge chiaramente la volontà di ritardare a tutti i costi la partenza delle galere reali per permettere ai turchi di assediare l’isola di Cipro.
Inoltre, per assicurarsi che la sua strategia andasse in porto, il Re Cristianissimo la comunicò segretamente anche al suo più fedele alleato, il capitano genovese Gian Andrea Doria, proprietario delle galere liguri impegnate nella Lega. Anche il Doria, infatti, tentò con successo di posticipare la data della partenza della flotta cristiana alla volta dell’Oriente, sia allo scopo di mettere in difficoltà lo sgradito alleato veneziano sia – mostrando con ciò di essere un vero genovese – con l’intento di preservare le sue galere dal logorio della battaglia. D’altronde, che il Doria fosse un tipo abbastanza prosaico ci è testimoniato anche da una serie di lettere da lui indirizzate al Viceré di Sicilia in cui più volte si fa beffe dello spirito crociato che avrebbe dovuto animare l’impresa.
Ben lungi dal poter essere interpretate solo come piccole scaramucce personali, le vicende accennate fin qui servono dunque ad erodere la granitica certezza di quanti ancora sostengono che il blocco cristiano della Lega Santa combatté unito in nome di fantomatici, e non meglio precisati, ”Valori Europei”. Al contrario, come argomentato sin qui, appare davvero impossibile ricondurre a rigidi schemi binari la politica diplomatica degli Stati impegnati a Lepanto. In questo senso, è bene ricordare anche come, sempre in quegli anni, gli ottomani avessero stretto una solida alleanza in chiave anti-spagnola con il re cristiano di Francia. Così come Venezia tentò più volte di convincere i sovrani della dinastia persiana dei Safavidi ad entrare nel conflitto al suo fianco. In entrambi i casi, dunque, il presunto scontro di civiltà tra cristiani e musulmani venne abbondantemente sotterrato in nome delle più concrete esigenze geopolitiche di lungo periodo. Osservazione questa che ci porta ad analizzare il terzo ed ultimo dei punti citati in precedenza:
c) il carattere capitale e ultimativo dello scontro di Lepanto. Come nel caso degli altri due elementi già analizzati, anche quest’ultima affermazione risulta quantomeno approssimativa nella sua unilateralità. Al di là dei risvolti simbolici collegati agli eventi del 1571, tutti gli storici concordano nel dire che la vittoria cristiana a Lepanto non produsse quasi nessuna conseguenza di rilievo. Nei fatti, anche se la colossale flotta musulmana venne completamente distrutta nello scontro, già a partire dalla primavera del 1572 i turchi avevano nuovamente messo in acqua un numero di galere sufficiente a difendere il loro dominio marittimo. Inoltre, per quanto roboante fosse stata, la vittoria di Lepanto venne comunque ridimensionata dalla conquista ottomana di Cipro a danno dei veneziani. Una perdita che per la Serenissima si rivelò molto più importante del bottino di guerra che ricavò dal saccheggio delle navi ottomane.
In questo senso, chi davvero si arricchì enormemente dal saccheggio furono solo i capitani cristiani i quali, più che farsi ispirare dall’evangelico spirito di carità, pensarono soprattutto al loro personalissimo interesse. Nei giorni che seguirono la battaglia, tra i banchi delle galere della Lega ci si accorse subito che la volontà dei capitani non sarebbe stata quella di puntare su Costantinopoli al fine di continuare una guerra che avevano osteggiato fin dall’inizio. I lunghi mesi di navigazione, uniti alle cattive condizioni del mare e al ricco bottino conquistato, convinsero Don Giovanni d’Austria e il suo Consiglio di Guerra a dirigere la flotta su Messina, rinunciando così a capitalizzare maggiormente le conseguenze politiche della vittoria.
Una volta ritornati in Europa, gli stessi capitani che avevano preferito il soldo alla prosecuzione della guerra col Turco vennero comunque acclamati come i veri salvatori della Cristianità contro la barbarie islamica. Tra di loro vi era anche Marcantonio Colonna — comandante delle galere pontificie e fiduciario di Pio V — il quale, tornato in pompa magna nel suo feudo di Marino, venne accolto eroicamente dalla folla festante. Con tutta probabilità, anche queste prime manifestazioni di giubilo popolare contribuirono a dare inizio alla costruzione originaria del mito di Lepanto. Un simbolo che, entro i confini del nostro paese, è stato quasi sempre utilizzato in forma tecnicizzata allo scopo di manipolare i mobili umori dell’opinione pubblica.
In questo senso, l’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita dal regime fascista il Primo Maggio del 1925, seppe immediatamente riconoscere il valore politico del mito, assegnando il titolo di Sagra Nazionale alla locale Festa dell’Uva dei Castelli. Durante la sagra, che si svolge ancora ogni anno nel vecchio feudo che fu del Colonna, la vendemmia del novello viene celebrata insieme al ricordo delle gesta dei crociati lepantini. E tra un bicchiere e una risata, il mito di Lepanto continua a rivivere, mescolandosi al vino nuovo nel vecchio calice della Storia e accompagnando il ritmo scanzonato degli stornelli popolari.
Su viett’a divertì, Nannì… Nannì…
Note
[1] La definizione è di A. Wheatcroft, Infedeli. 638-2003: il lungo conflitto fra cristianesimo e islam, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 7.
[2] Nel caso di costrutti quali Cultura di Destra e Macchina Mitologica si rimanda a F. Jesi, Cultura di destra, a cura di A. Cavalletti, Nottetempo, Roma 2011.
[3] La Fondazione Lepanto, il cui fine a dir poco ambizioso è niente di meno che la difesa dei principi e delle istituzioni della Civiltà Cristiana.
[4] Mischiando un inusuale paneuropeismo con il più tradizionale regionalismo padano, l’On. Bitonci tiene a ricordarci anche che gli eventi di Lepanto sono fondamentali non solo per il tutto il continente europeo, bensì anche per la storia patria del Veneto. Peccato che l’Onorevole non ricordi o, più verosimilmente, non sappia, che tra l’inverno del 1570 e la primavera del 1571, la Repubblica di Venezia tentò ripetutamente di concludere una pace separata con l’impero ottomano, poco curandosi sia di un eventuale voltafaccia nei confronti degli altri alleati cristiani, sia della difesa di quelle che lui definisce confusamente come comuni radici europee.
[5] La domanda del lettore compare nella Stanza di Montanelli inserita nel Corriere della Sera del 19 Ottobre 2000.
[6] Per non appesantire l’articolo ho deciso di condensare in un’unica nota tutti i riferimenti a piè di pagina che necessariamente avrei dovuto inserire da questo punto in poi. Pertanto, tutte le informazioni contenute nelle pagine che seguono sono reperibili in A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Laterza, Roma-Bari 2010.