Lentamente l’Africa: quando il tempo si fa spazio

In un’epoca in cui ci si impegna a raccogliere le storie di chi approda sulle coste europee per sopravvivere a un destino che vuole cambiare, c’è qualcuno che sceglie di invertire la rotta e di impegnarsi a raccogliere le tracce del mondo da cui queste persone stanno fuggendo o semplicemente partendo.

Silvia Jop

Svincolandosi coraggiosamente dall’imperativo del dover sviscerare gli interstizi degli effetti che la “frontierizzazione” del contemporaneo sta producendo su chi emigra, Marianita Palumbo e Tobias Mohn hanno deciso di raccogliere frammenti d’Africa a bordo di una bicicletta. 6000 kilometri spalmati in duecentosettanta pagine per percorrere la geografia che si dipana tra la Spagna e il Mali a suon di pedali e ritmo di respiro.

Attraverso una sorta di “rewind narrativo” in cui si compie un percorso che ci porta a seguire una rotta con un vettore inverso rispetto a quello che in questi ultimi anni di narrazioni sulle migrazioni siamo stati abituati a incontrare, ci ritroviamo immersi in un viaggio a conclusione del quale abbiamo la sensazione di conoscere meglio le trame dei popoli che oggi, in misura sempre maggiore, abitano l’Europa.

Le architetture urbane della Spagna, le increspature oceaniche del Mediterraneo, i volti marcati del Marocco, le dune montane del Sahara, i sapori della Mauritania, i colori del Senegal, gli scrosci della Guinea, il chiasso di Bamako, la sabbia del Sahel, sono alcuni dei fotogrammi che abitano questa impresa all’insegna della ri-conquista del tempo in cui far abitare il mondo che si incontra.

Perché la scelta di pedalare per viaggiare anziché affidarsi a mezzi veloci capaci di trasportare da un punto a un altro del mondo, consente ai viaggiatori, e grazie a loro ai lettori, di sgranchire lo spazio interiore necessario ad accogliere l’altro da sé restituendo al corpo la centralità di cui necessita per tornare terreno attivo della relazione.

Liberi dall’articolazione saggistica, forse troppo ingessante per un viaggio di questo tipo, i due autori affidando a una manifesta semplicità narrativa il racconto di un percorso che a tratti sa dell’etnografia vecchio stampo e ad altri del romanzo di formazione. Attraversando lentamente l’Africa a bordo di una bicicletta, il tempo si fa spazio di riflessioni che non pretendono di significare il mondo ma che regalano con generosità la ricchezza dell’incontro con una dimensione che da altra diventa sempre più condivisa.

di seguito la presentazione di Marianita Palumbo e Tobias Mohn a Lentamente l’Africa, Ediesse, 2012

Seduti alla scrivania di una casa in qualsiasi città europea, l’immagine di due persone in bicicletta nel mezzo del deserto ha qualcosa di terribilmente fragile, coraggioso o semplicemente pazzo.

Quando però su quella bicicletta ci si è seduti, nessuno di questi sentimenti sembra descrivere come ci si sente veramente. Dopo poco tempo sulla strada, non ci si sente certo pazzi, tanto meno coraggiosi, e invece di sentirsi fragili si ha la netta sensazione che ciò che si sta facendo sia la cosa più giusta.

Scorrendo le pagine dei giornali oggi, le fotografie di uomini pesantemente armati che pattugliano le strade di Gao o i movimenti della Primavera araba, disegnano una nuova geografia degli spazi a noi accessibili. Alcuni paesi sembrano d’improvviso più vicini, altri progressivamente si allontanano dal nostro orizzonte. All’indomani delle minacce di demolire parte del patrimonio dell’umanità di Timbuktu da parte di un gruppo di ribelli fondamentalisti e a causa del numero crescente di stranieri sequestrati nella stessa zona, una testata tedesca si chiede: «Il Mali finirà come l’Afganistan?».

Cosicché il viaggio raccontato in queste pagine scivola sempre più lontano, offuscato da una patina di paura, incomprensione, diffidenza verso una diversità che appare inconciliabile con il proprio modo di vivere.

E allora viene voglia di resistere, nel nostro piccolo, all’impressione che ci sia sempre meno spazio in questo mondo per il gesto di accogliere. Se il nostro viaggio è stato motivato dalla curiosità e catalizzato dagli incontri, dedichiamo questo libro a chi, più o meno capendo, sopportando e supportandoci, ci ha permesso di andare lentamente. A chi apre la porta allo straniero, a chi è aperto abbastanza per entrarvi.

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