L’Egitto tra malcontento, tagli e repressione

Fonte: Nena News

Molto tempo fa i Sanculotti – persone senza le culotte – hanno guidato la più famosa delle rivoluzioni (quella francese, ndr). Se le proteste in Egitto si fossero trasformate in qualcosa di più grande, l’avrebbero definita Thawrat al-galabiyya (la rivoluzione della galabiyya, la veste tradizionale che spesso denota personalità religiose o cittadini di estrazione contadina, ndr).

Questa frase, riportata dal portale Raseef22, ben descrive la composizione sociale delle proteste che hanno animato, seppur per pochi giorni e con numeri esigui, le strade egiziane nelle scorse settimane. Già lo scorso anno le grandi città del paese si sono riversate in strada per protestare contro le demolizioni delle abitazioni da parte del governo dopo il varo della nuova legge sulle costruzioni. Nonostante non abbiano avuto una risonanza mediatica, soprattutto per l’immobilità delle città, di fatto militarizzate, le manifestazioni delle ultime settimane sono indicative di quanto il regime sia di fatto delegittimato da un’ampia fetta della società.

Tra demolizioni e nuove costruzioni: la guerra alle periferie e alle aree rurali

Le demolizioni portate avanti dal regime nell’ultimo anno sono il risultato della legge sulle costruzioni abusive che mira a demolire le abitazioni che non rientrano nei canoni della legge. Secondo le stime ufficiali, in Egitto esistono circa 2,8 milioni di case, distribuite in 236 città nei diversi governatorati del paese, che non rispettano tali canoni. L’alto numero delle abitazioni abusive ha spinto il governo a varare una sanatoria per consentirne la regolarizzazione attraverso il pagamento di un’ammenda evitando così una crisi che aumenterebbe il malcontento dei milioni di egiziani che vi risiedono. Nonostante ciò, secondo le stime governative, soltanto un terzo del totale ha aderito alla sanatoria mentre il resto degli “abusivi”, a causa delle poche possibilità economiche, non ha presentato alcuna domanda. Questo avviene soprattutto nelle zone rurali e delle periferie urbane e non è un caso che le proteste delle scorse settimane abbiano avuto luogo lontano dai grandi centri abitati. Ma le recenti demolizioni nelle zone rurali rappresentano solo la punta dell’iceberg dell’aggressione del regime alle classi popolari egiziane.

Già nel 2014 il regime di al-Sisi avviò, con la scusa di creare una zona cuscinetto per contrastare il terrorismo islamista, una campagna di demolizioni nella penisola del Sinai provocando la rabbia di migliaia di famiglie le quali, successivamente, sono state costrette ad evacuare dalle loro case senza alcuna garanzia di un’abitazione sostitutiva. Nel 2017 è toccato all’isola al-Warraq, al Cairo, che si è resa protagonista di tre anni di resistenza civica contro le demolizioni che avrebbero costretto alla fuga più di 90,000 abitanti.  Durante le prime proteste di queste ultime settimane il governo aveva promesso abitazioni sostitutive alle classi meno abbienti. Tuttavia secondo M. S., attivista politico, “considerando la situazione di crisi economica e il Covid, il governo oggi non è in grado di poter mantenere la promessa. Per questo motivo la gente è scesa in strada. Troppe promesse non mantenute”.

Il regime, intanto, difende le demolizioni definendole azioni per regolarizzare e rendere più trasparente l’amministrazione delle città. Tuttavia queste hanno un altro obiettivo: fare spazio alle grandi opere infrastrutturali per “modernizzare il paese”. Se il regime egiziano agli occhi di molti osservatori esterni è il regime della repressione, in patria è considerato il governo del cemento. Sin da suo insediamento, al-Sisi ha portato avanti la retorica dell’ammodernamento infrastrutturale del paese. Nel giro di pochi anni ha raddoppiato il canale di Suez con l’obiettivo di ricevere ricavi dal passaggio delle navi commerciali (con risultati alquanto scarsi); ha costruito una “nuova capitale amministrativa” a 35 km dal Cairo, un mostro ecologico che ha (o forse aveva) lo scopo di alleggerire la città dal punto di vista della gestione della burocrazia, ma che oggi sembra sempre più una cattedrale nel deserto; infine, ha espresso la volontà di costruire un’autostrada che taglia in due la piana delle piramidi di Giza per metter fine all’annoso problema della viabilità nella capitale. Tali investimenti hanno di fatto falcidiato l’intero sistema paese. Con un sistema pubblico ridotto all’osso a causa delle politiche di riforma economica dettate dal Fondo Monetario Internazionale e con l’avanzare della crisi sanitaria, il paese continua a navigare in cattive acque.

Fonte: Limes

Covid, la riforma del settore pubblico e fallimenti programmati

La diffusione del Coronavirus nel mondo ha di fatto accentuato le disparità sociali, acuendo la crisi economica di molti governi tra cui l’Egitto. Indebolito da decenni di austerità, l’Egitto è uno di quei paesi che, a causa della cronicizzazione delle difficoltà economiche, ha dovuto ricorrere ai prestiti degli istituti di credito internazionali per rilanciare l’economia e sopperire all’incapacità di un settore pubblico corrotto e, dal 2013, per buona parte, nelle mani dell’esercito.

Nel paese oggi si contano, secondo le stime ufficiali, 100,000 casi con circa 5,000 decessi. Sin dall’inizio della pandemia, molti regimi della regione -come molti governi occidentali- hanno giocato al ribasso con i numeri dei contagi soprattutto per dimostrare l’efficienza dei servizi sanitari pubblici e per evitare sommosse popolari. La sanità pubblica in Egitto è ormai ridotta all’osso con ospedali, soprattutto nei mesi di maggio e giugno, al collasso e privi dei più basilari strumenti di protezione per il personale. Molti medici ed infermieri nei mesi passati sono stati arrestati con l’accusa di interruzione del servizio pubblico poiché, visto l’aumento dei contagi all’interno degli ospedali pubblici, avevano indetto uno sciopero di settore per protestare contro la mancata distribuzione di mascherine e guanti. Oltre a ciò, vi è una vera e propria guerra intestina tra il regime e il settore privato sanitario il quale ha più volte espresso la volontà di mettere a disposizione, a pagamento, le strutture per effettuare tamponi e test rapidi. Il Ministero della salute egiziano, tuttavia, ha proibito ai laboratori privati di effettuare test, agevolando un rapido sviluppo del mercato nero dei test soprattutto all’interno dei laboratori privati. Di fronte ad un’impennata dei contagi, il governo successivamente ha affidato ad una sola azienda privata (Prime Speed Medical, una multinazionale dei servizi sanitari) la realizzazione dei tamponi, nella quale il maggior investitore è Wajih Tamer molto vicino al Generale al-Sisi e al suo regime. Di fronte all’evidente meccanismo clientelare, ad oggi in Egitto un tampone costa circa 2,000 lire egiziane (108 euro) quasi il doppio del limite posto dal governo. È così che si spiegano i pochi tamponi effettuati: come per la sanatoria delle abitazioni, quasi nessuno se li può permettere, a meno di non presentare evidenti sintomi e quindi avere la fortuna di accedere ai servizi pubblici.

Stretto tra i “compiti” dettati dal FMI e la crisi sanitaria, il regime di al-Sisi ha dovuto ricorrere a un’accelerata delle privatizzazioni e liberalizzazioni di alcune aziende pubbliche del paese. Se le proteste di settembre contro le demolizioni sono state quasi ignorate dai media, gli scioperi e le manifestazioni di dissenso da parte dei lavoratori di queste aziende pubbliche hanno invece destato un certo clamore. La riforma del settore pubblico, uno dei punti fermi del piano di riforma voluto dal FMI, è al centro di una forte polemica tra il governo egiziano e i lavoratori delle industrie pubbliche del paese. Già nel febbraio del 2020, la liquidazione della compagnia egiziana di navigazione, costituita nel 1873, aveva destato polemiche poiché, secondo alcuni, il governo non ha fatto altro che accompagnare l’azienda verso una morte pianificata.

La tattica del governo egiziano è molto chiara. Con l’obiettivo di alleggerire il settore pubblico del paese, molte compagnie vengono lasciate morire con la scusa dell’improduttività e dell’arretratezza dei mezzi di produzione. Ora sembra essere arrivato il momento del settore siderurgico e della Iron and Steel Company, un gigante della produzione di ferro ghisa e acciaio del paese. Negli ultimi mesi, successivamente alla legge sulla trasparenza nel settore pubblico, sono stati pubblicati i bilanci dell’azienda che di fatto risulta moribonda, causa le grandi perdite economiche. Il governo, secondo quanto riporta il portale indipendente Mada Masr,  ha affermato che la produzione è diminuita drasticamente e che presto provvederà alla sua divisione in due società con iniezione di fondi esteri per risanare i conti. Tuttavia, non c’è da stupirsi se molti, soprattutto all’interno dell’Unione Generale dei Lavoratori della Siderurgia, Meccanica e dell’Elettricità, hanno protestato contro la mossa del governo per timore che l’azienda sia avviata verso una morte programmata come accaduto alla compagnia navale.

Certi del successo di tale strategia, per limitare al massimo l’opposizione a tali politiche, il regime ha, inoltre, varato la legge sulla rappresentanza all’interno delle aziende pubbliche. Secondo il nuovo emendamento, i lavoratori e gli impiegati delle aziende pubbliche, che prima rappresentavano circa il 50% all’interno dei consigli di amministrazione, scenderanno a numeri esigui (1 o 2 rappresentanti a seconda del numero di lavoratori impiegati). In più i bonus annuali, precedentemente non legati all’andamento aziendale, sono diventati proporzionali ai profitti, applicando le politiche manageriali del settore privato alle aziende pubbliche. Anche in questo caso, la strategia del governo è molto chiara e punta a privare i lavoratori di potere decisionale all’interno dei consigli di amministrazione (seppur molto spesso i rappresentanti fossero cooptati dal regime stesso) e di evitare che intervengano qualora si presentasse l’opportunità per il governo di liquidare una determinata azienda.

Fonte: Open online

La forza della debolezza del regime

Il dissenso in Egitto ha subito un duro colpo in questi sette anni di governo militare. Arresti, sparizioni forzate e repressione generalizzata sono all’ordine del giorno. Attivisti della prima ora come Alaa Abd al-Fattah, Mahienur al-Masri o Haitham Mohammaddin sono da anni rinchiusi dentro il carcere di sicurezza di Tora, dove anche Patrick Zak è detenuto. Le proteste dell’anno scorso, in meno di una settimana, avevano portato dietro le sbarre circa 3000 persone e in queste ultime, oltre a due vittime, sono state arrestate circa 600 persone in tre giorni.  Questa dimostrazione di forza da parte del regime non è nient’altro che la prova della sua debolezza. Delegittimato internamente e senza il sostegno popolare che bene o male aveva accompagnato il colpo di stato nel luglio del 2013, al-Sisi e il suo governo ricorrono sempre più ad azioni repressive contro chiunque metta i bastoni tra le ruote alle pratiche governative.

I vari tagli ai servizi e l’aumento delle disparità sociali, accentuate dalla crisi sanitaria, hanno di fatto ricreato le condizioni (semmai fossero state diverse) del pre-2011.  Non sappiamo se arriverà un movimento di massa più ampio, anche se ad oggi è quasi impossibile immaginarlo, ma i diversi segnali di impazienza dei milioni di egiziani impoveriti e le violazioni sistematiche delle libertà private e dei diritti umani nel paese stanno pian piano facendo emergere le crepe del regime. Se Hosni Mubarak aveva dovuto attendere due decenni per udire slogan contro la sua persona (negli anni precedenti, soprattutto negli anni ’90, i manifestanti prendevano di mira il governo o il parlamento, mai la figura del presidente), oggi, al contrario, questo malcontento contro la presidenza è di fatto già esplicito. Probabilmente non vedremo nel breve futuro un’altra Piazza Tahrir, ma una cosa è certa: “il popolo vuole (o almeno vorrebbe) la caduta del regime”.

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