Intervista a Emanuele Mochi, lo sceneggiatore del “Legionario”.
Il film Il legionario, opera prima del regista italo-bielorusso Hleb Papou, racconta di un’occupazione ad uso abitativo e lo fa dalla prospettiva di due fratelli di origini africane, nati e cresciuti in Italia. Daniel e Patrick sono due ragazzi che, pur essendo cresciuti entrambi in un palazzo occupato, si vengono a trovare su fronti opposti: uno diventa celerino, l’altro resta occupante. La sfida del racconto cinematografico, sceneggiato dallo stesso Papou insieme a Emanuele Mochi e Giuseppe Brigante, è di entrare nelle vite di questi due fratelli, per comprendere le scelte fatte e così andare alle radici di uno scontro sociale, nel tentativo (arduo) di superarne gli stereotipi narrativi.
Il 6 agosto scorso il film è stato presentato a Festival del Cinema di Locarno nella categoria “Cineasti del presente” e ha ricevuto il “premio Pardo” per la migliore regia esordiente. Per tutti questi motivi ci sembra importante intervistare Emanuele Mochi, uno dei tre sceneggiatori della pellicola.
Nicola Cucchi: Questo film è lo sviluppo di un cortometraggio ideato durante il vostro percorso di studenti di sceneggiatura del Centro Sperimentale di Cinematografia. Come è nata l’idea di approfondire il tema delle occupazioni abitative?
Emanuele Mochi: Il nucleo narrativo del film – che prima è stato un cortometraggio – nasce dall’immagine di un poliziotto nero che venne in mente al regista. Il protagonista doveva essere un poliziotto d’origine africana nato in Italia. Partendo da questa immagine iniziale, lavorammo per molti mesi al Centro Sperimentale con Hleb e Giuseppe Brigante – il nostro co-sceneggiatore – per trovare una storia intorno a questo nucleo. Innanzitutto dovevamo capire che tipo di poliziotto fosse il nostro protagonista, per poi focalizzare come l’essere di origine straniera potesse metterlo in difficoltà, quindi siamo andati a documentarci sia con la polizia sia con le varie realtà con cui questa viene a contatto.
Alla fine ci siamo convinti che Daniel sarebbe stato un celerino e il “conflitto ideale” per questo personaggio sarebbe stato avere la famiglia all’interno di una casa occupata. Nel frattempo, infatti, avevamo scoperto come a Roma la questione delle occupazioni ad uso abitativo fosse una realtà con una lunghissima storia e quindi diventava ancor più interessante ambientare gli eventi nella capitale.
Tutto questo percorso ideativo, che avvenne al Centro Sperimentale, riguardò il cortometraggio (da cui nasce il film dal titolo omonimo). Il legionario fu infatti il cortometraggio che noi producemmo per la fine del terzo anno del corso CSC. Dopo mesi si lavoro l’opinione positiva del nostro docente, Giacomo Ciarrapico, sul soggetto del cortometraggio ci fece capire che eravamo sulla strada giusta. Poi il corto fu realizzato e ben accolto nei vari festival in cui venne presentato, inclusa la settimana della critica al Festival di Venezia del 2017. Da lì la casa di produzione “ClemArt” ci propose di sviluppare un film ispirato al cortometraggio.
N. C.: Il film è il risultato di un lungo approfondimento di due mondi contrapposti che raramente vengono raccontati: la vita nella celere e nell’occupazione abitativa. Come avete svolto la “ricerca sul campo”?
E. M.: Una volta trovata l’idea centrale – un poliziotto della celere che deve sgomberare la casa occupata in cui vive la sua famiglia – abbiamo subito cominciato la nostra ricerca sul campo, non conoscendo affatto i mondi che volevamo raccontare. Senza questa esperienza immersiva, la nostra scrittura sarebbe stata una presa in giro dello spettatore, che avrebbe visto riproposti proprio quegli stereotipi visti e sentiti, che noi al contrario volevamo superare. Ma per farlo non bastano le letture dei giornali, bisogna toccare con mano i contesti di cui si parla.
Così abbiamo cominciato a prendere contatti con chi vive e anima queste realtà: da un lato ci siamo avvicinati ai celerini conoscendo Drago, un veterano del reparto celere di Roma e abbiamo passato con lui diverse notti alla caserma del reparto mobile di Ponte Galeria. Mentre, dall’altro lato, abbiamo passato vari giorni nella più importante occupazione ad uso abitativo di Roma, a San Giovanni. Parliamo di una zona sorprendentemente centrale della capitale, nella ex sede dell’Inpdap, occupata dall’associazione Action dal 2013. Ci vivono dentro 150 famiglie di tutte le nazionalità, e non mancano anche moltissime famiglie italiane che, non potendosi permettere un affitto a Roma, sono costrette a vivere lì. A piano terra è stato allestito anche un centro sociale, Spin time, che organizza attività di aggregazione aperte a tutto il quartiere.
Da subito le persone di Action ci hanno accolto bene e questo ci ha permesso di conoscere anche molti abitanti. È stato un privilegio poter partecipare ad alcune “riunioni condominiali” e passare lì alcune notti, ospitati in una stanzetta all’ultimo piano, per comprendere davvero come si relazionano i vari gruppi etnici in quel contesto unico. Con abitanti che provengono dal Sudamerica, dall’Africa, dall’Asia e dall’Est Europa, ai quali si aggiungono gli stessi italiani, è evidente come non sia facile la convivenza. Tuttavia, stando lì molto tempo abbiamo capito che eravamo di fronte a un mondo speciale, che meritava assolutamente di essere raccontato.
L’opportunità di fare il film ci ha consentito di raccontare in modo (spero) onesto la vita all’interno dell’occupazione, mentre nei 13 minuti del cortometraggio non c’era stato il tempo di esplorarlo e lo stesso per quanto riguarda la vita nella celere. In entrambi i casi abbiamo cercato di superare i molti pregiudizi che accompagnano questi due mondi. Essendo infatti due parti duramente contrapposte nella rappresentazione pubblica, quelle rare volte in cui se ne parla si tende a favorirne una, dipingendo l’altra in maniera superficiale e monolitica. Viceversa noi ci siamo avvicinati a queste due realtà cercando il più possibile di raccontare la loro complessità, convinti che fosse importante farle conoscere al pubblico nelle loro multiple sfaccettature.
Io non avevo mai visto al cinema questo tipo di sguardo: la celere si vede rappresentata solo in modo negativo, mentre la questione delle case occupate si incontra raramente. Più in generale, è come se per il cinema italiano di oggi non ci sia niente di interessante da raccontare nel nostro paese. Invece dal nostro punto di vista c’è molto che non viene raccontato – o che magari viene presentato superficialmente – e che invece va fatto conoscere ad un pubblico più vasto possibile. Ci sono conflitti aperti all’interno della società che è giusto che la gente conosca e di cui si possa discutere.
N.C.: Sebbene voi raccontiate questa storia da una doppia prospettiva – quella della celere e quella degli occupanti – gli spettatori comunque tenderanno a prendere parte, non solo per i pregiudizi di partenza. Come vi aspettate che le persone recepiscano questa storia? Cosa vi augurate che questa visione generi nel pubblico?
E. M.: Avremo raggiunto l’obiettivo massimo se il pubblico, messo di fronte a realtà complesse, non riducibili a uno scontro “buoni contro cattivi”, inizierà a ragionare, a mettere in discussione almeno in parte caratterizzazioni superficiali spesso date per scontate. Se la visione del film riuscisse a stimolare un dibattito autentico, anche tra persone con differenti posizioni, sarebbe già un ottimo risultato. Viviamo in una società che cambia costantemente e dobbiamo fare i conti con tutte le facce dell’immigrazione, soprattutto con le vite di “nuovi italiani” a tutti gli effetti, per nulla “immigrati” perché nati in Italia seppure da famiglie di origine straniera. Dobbiamo chiederci (e raccontare) quali siano i rischi e le opportunità di fenomeni sociali ormai diffusi da decenni, che ci stanno trasformando profondamente.
La speranza di fondo è che si possa tornare a fare un cinema che scuota le coscienze, che (ri)svegli le persone, perché (mi pare) siamo un po’ addormentati. Sembra appunto che il cinema venga concepito da chi lo fa solo come spazio per anestetizzare il pubblico e fare incasso. Sembra che le storie non raccontino più nulla di reale e di vivo di ciò che avviene in questo paese. Invece noi vorremmo che gli spettatori escano dal cinema e discutano su quello che hanno visto; insomma un pubblico che ragioni e magari si indigni insieme a noi, o anche contro di noi se non è d’accordo.
N. C.: Quando hai scoperto di voler fare lo sceneggiatore?
E. M.: Io ho fatto un percorso abbastanza lungo per diventare sceneggiatore: mi sono laureato in lettere, poi ho fatto alcuni corsi di specializzazione e alla fine sono entrato al Centro Sperimentale nel corso di sceneggiatura. Lì ho conosciuto Hleb, Giuseppe e tanti altri amici con cui abbiamo collaborato in questi anni e con cui collaboro tutt’ora. Da alcuni anni posso dire di avere la fortuna di vivere facendo questo mestiere, e sinceramente mi sento un privilegiato, perché mi sveglio la mattina e faccio quello che amo. Chiaramente all’inizio non si ha bene idea di quale possa essere il proprio ruolo nel mondo del cinema, perché questo contiene tantissime competenze e professionalità diverse, ma d’altronde il bello è proprio questo: lavorare a contatto con tante altre persone specializzate in un ambiti differenti e pronte per realizzare qualcosa di unico.
Poi come dicevo, essendo molto curioso, adoro immergermi in realtà a me sconosciute e fare lo sceneggiatore è un passepartout per questo tipo di esperienza; è come vivere tante vite in una. La varietà del mondo ti sorprende sempre oltre l’immaginazione, offrendo talmente tanti spunti che nessun creativo potrebbe mai immaginare. E questa ricerca si traduce poi in un racconto che ci dà la possibilità di trasmettere agli altri queste vite.