Le tecniche dell’osservatore, intervista a Luca Acquarelli

Intervista a Luca Acquarelli, curatore dell’edizione italiana del volume “Le tecniche dell’osservatore” (Einaudi, 2013) di Jonathan Crary.

Uscito nel 1990 negli Stati Uniti e tradotto recentemente in Italia, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo è un libro fondamentale all’interno dei visual studies.

A partire dall’analisi dei dispositivi della visione come il diorama, il fenachistoscopio o ancora il caleidoscopio, Jonathan Crary, docente della Columbia University, osserva come non ci si trovi in presenza di semplici oggetti d’intrattenimento ma piuttosto di veri e propri oggetti filosofici a partire dai quali è possibile interrogarsi sullo statuto dell’osservatore e sui cambiamenti che a partire dal 1820 si determinarono.
Abbiamo cercato di approfondire alcuni aspetti di questo testo con Luca Acquarelli, curatore dell’edizione italiana e attuale membro del CEHTA (Centre d’Histoire et Théorie des Arts) presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Paris. Acquarelli attualmente sta lavorando alla pubblicazione di una serie di studi sul rapporto tra immagini e potere politico durante il fascismo in Italia.

Marco Mondino: Gli apparecchi ottici vengono definiti da Crary come «punti di intersezione dove discorsi filosofici, scientifici ed estetici si intrecciano a tecniche meccaniche, esigenze istituzionali e forze socioeconomiche» (p.11).
A partire da questa citazione è possibile sin da subito individuare il richiamo a un’impostazione foucaultiana. Proviamo a definire in che modo Crary lavora a questa “archeologia” della visione.

Luca Aquarelli:  Mi fa piacere poter cominciare con questo riferimento perché abbiamo così la possibilità di disperdere da subito quel possibile fraintendimento che potrebbe minare le basi dello sviluppo teorico su questo volume. Le “tecniche” di cui parla Crary sono più precisamente dei “dispositivi”, nel senso che Foucault dà a questo termine. L’analisi dello storico dell’arte americano risulta quindi essere ciò che di più lontano ci possa essere da ricerche nutrite da determinismo tecnologico.

Benché, in effetti, quello di Crary sia un approccio ormai consolidato fra le scienze umane che si occupano di tecniche e tecnologie, mi sembra che questo lavoro (ad oggi uno dei pochi studi di questa portata sul tema, ad eccezione del suo successivo Suspension of perception, non ancora tradotto in italiano) possa decisamente contribuire a rendere tutta la complessità epistemologica di questo tipo di riflessioni. A questo proposito è opportuna una citazione lapidaria ma quanto mai emblematica di Deleuze, ripresa dallo stesso Crary: «una società è definita dalle sue leghe e non dai suoi utensili».

Gli apparati analizzati da Crary dunque, la camera oscura, così come lo stereoscopio, lo zootropio e tutte le altre tecniche di visione apparse nel ventennio che precede la fotografia, non sono né più né meno che dei modelli di soggettivazione, che si intrecciano ad attanti singoli e collettivi, a pratiche e relazioni, attualizzando percorsi di soggettivazione e virtualizzandone altri.

Bisogna poi ricordare come nell’ambito delle tecniche, sempre alla stregua di Foucault, si debba necessariamente includere l’istituzionalizzazione dei vari saperi sulla regolazione e sul comportamento degli individui, tappa fondante della modernità del XIX secolo. Nel caso di Tecniche dell’osservatore si tratta delle procedure normative basate per lo più sugli studi di fisiologia dell’occhio, che faranno dell’osservatore un oggetto di studio e un luogo di fenomeni quantificabili per regolarne l’attività nei più diversi settori.

Crary si interessa cioè a quel polo delle tecnologie del potere che Foucault chiama “anatomo-politica” del corpo umano e che sono volte a disciplinare le forze degli individui per renderle docili e funzionali alla produttività del capitalismo moderno. Sappiamo come il filosofo francese procederà successivamente verso il secondo polo delle tecnologie del potere, quelle dirette al corpo-specie, al corpo come luogo dei processi biologici, quel campo così fecondo della “biopolitica” discusso a partire dalle lezioni al Collège de France del 1976 e dall’uscita nello stesso anno del primo tomo della Storia della sessualità.

Questo avanzamento degli studi foucaltiani, protagonista dei dibattiti filosofici da oltre trent’anni, sembra restare solo sullo sfondo del libro di Crary: senza riprenderlo, l’autore si limita a delegare la citazione del termine “biopolitica” alle parole di Deleuze e del suo Foucault (pp. 84-85)[1].

M. M.: A modificarsi nel XIX secolo non è solo la sfera della visione ma la soggettività stessa, insieme a molteplici settori della sfera sociale.
Vale la pena soffermarsi e approfondire il problema della soggettivazione della modernità che sta alla base del lavoro di Crary.

L. A.: Una volta che si adotti rigorosamente la scelta genealogica, cioè quella storia che renda conto delle condizioni di possibilità dell’emergere delle trasformazioni (in senso ampio), si possono documentare momenti impensati di cambiamento che mettono seriamente in discussione le periodizzazioni canoniche. Nella ricerca di Crary viene individuata un’inedita fase, quella fra gli anni’ 20 e gli anni ’40 dell’Ottocento, dove il soggetto moderno prende forma: in questa trasformazione i dispositivi della visione hanno un ruolo centrale e, allo stesso tempo, offrono un modello epistemologico da poter esportare anche in altri campi.

L’osservatore incorporeo cartesiano, soggetto della camera oscura, che escludendo l’opacità del corpo e del processo percettivo razionalizzava la visione e le sue istanze, si dissolve nello spazio della visione corporea dell’ottica fisiologica, di cui l’immagine postuma e la disparità binoculare sono solo due dei sintomi più conosciuti.

Ma l’archeologia dei saperi di Crary ci propone una riflessione che va ben al di là di una trasformazione da un modello dominante ad un altro. Il nuovo paradigma moderno si apre infatti in una sorta di oscillazione tensiva tra due nuovi modelli di soggettività apparentemente antitetici ma strutturalmente rispondenti alle stesse condizioni di possibilità.

Da una parte la visione si emancipa dall’esteriorità della camera oscura e dalla sua nozione di “mondo reale”, e viene a collocarsi direttamente nella corporeità per dare così vita ad una serie di astrazioni visionarie che saranno condivise sia da scienziati che da artisti, origine, secondo Crary, di quello che sarà più avanti chiamato modernismo artistico. Dall’altra il nuovo regime scopico sarà alla base di una serie di strategie disciplinari in linea con lo sviluppo del nascente capitalismo: prodromi delle industrie dello spettacolo e del sorvegliare del XX secolo (Crary, in effetti, tenterà una mediazione fra le tesi di Debord e di Foucault, concepite come inconciliabili all’epoca della loro formulazione).

Ecco allora come i riferimenti alla Teoria dei colori di Goethe, uno dei primi testi che irrompe nello spazio protetto della camera oscura con la variabile incontrollabile dei colori fisiologici e della trasmissione ottica che si apre ad una temporalità durativa, possano trovare una eco nei dispositivi di controllo dell’attenzione delle istituzioni disciplinari (scuole, fabbriche, burocrazie etc.) che si nutrono di teorie pedagogiche basate sullo studio quantitativo della visione (da Herbart a Fechner).

M. M.: A differenza del panopticon di Bentham studiato da Foucault nel testo di Crary l’accento non si pone tanto sui soggetti osservati in contesti di controllo ma piuttosto si sottolinea come la visione diventa essa stessa una disciplina.

L. A.: La scelta del termine “osservatore” non è casuale per Crary. La sua radice etimologica ci riporta nell’ambito semantico delle regole e delle discipline. L’osservazione, cioè, è frutto di una mediazione sociale e culturale che si spiega all’interno di una cornice fortemente normata.

A questo proposito, anche il panopticon di Bentham può essere considerato come un dispositivo di controllo basato sulla visione: da un unico punto di vista è possibile osservare un “paesaggio circolare”, quello abitato dai carcerati, nei suoi minimi dettagli, tale da indurre «nel detenuto uno stato cosciente di visibilità, che assicura il funzionamento automatico del potere»[2]. Foucault ipotizza infatti che Bentham potesse aver preso a modello il meccanismo dei “panorami” dove il visitatore occupava «esattamente il posto dello sguardo del sovrano». Ed è noto quanto i regimi di visibilità contino in generale per l’archeologia dei sistemi di assoggettamento che propone il filosofo francese.

Detto questo, sappiamo come nell’ultima decina d’anni della sua vita, Foucault operi un passaggio dallo studio dell’assoggettamento per così dire “dall’esterno” (sulle forme del sorvegliare e della disciplina) a quello “dall’interno” (argomento centrale dei tre volumi sulla storia della sessualità). Da una parte, cioè, una certa gradazione di passività del soggetto, fronte ad un sistema di coercizione, dall’altra l’intensificazione di un soggetto attivo, frutto di tecniche e pratiche del sé.

Foucault sposta gradualmente l’interesse politico verso il secondo polo, tanto da affermare nel 1982 che è «forse un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, quello di costruire un’etica del sé, se è vero dopotutto che non c’è un altro punto, primo e ultimo, di resistenza al potere politico se non nel rapporto di sé con il sé»[3].

Crary sembra più interessato al primo Foucault e intende gli apparati che fondano e trasformano il soggetto moderno come dei sistemi di possibile coercizione, cercando, come lui stesso scrive, di indagare la formazione del “modello dominante” di osservatore nel XIX secolo e di lasciare ad uno studio successivo la questione delle forme di resistenza a tale modello.

Ad un primo sguardo, in effetti, lo studioso americano dirama la trama delle relazioni di potere/sapere sullo sfondo, seppur stemperato dall’approccio stesso, della classica ipotesi repressiva della concezione negativa del potere.

Ma a veder bene le cose, si possono interpretare diversamente alcuni esiti del libro di Crary riprendendo ciò che ti dicevo rispondendoti alla domanda precedente. Il terzo capitolo, ad esempio, si addentra nella critica de Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer e di come il filosofo tedesco riveda questo monumentale scritto tra le due edizioni, quella del 1819 e quella del 1844, integrando la scienza della fisiologia alla sua concezione apparentemente opposta di un’apprensione estetica liberata dalla volontà e dal corpo.

La parcellizzazione degli organi e dei sensi studiata da Bichat come da Flourens danno infatti la possibilità a Schopenhauer di immaginare la percezione come isolata dal resto delle funzioni del corpo. Le tecniche del corpo per raggiungere l’“intuizione pura” a seguito del “silenzio completo della volontà”, descritte da Schopenhauer, hanno cioè le stesse basi conoscitive delle tecniche del corpo volte al suo controllo e alla sua efficienza produttiva.

Allora non siamo più all’interno di un’ipotesi repressiva del potere a cui deve per forza di cose rispondere un antipotere per raggiungere una liberazione, ma piuttosto all’interno di un modello di un potere soggettivante che può aprire potenzialmente alla repressione ma anche alla cura del sé. Lo stesso discorso si può fare per ciò a cui accennavo sulle sperimentazioni artistiche.

M. M.: Lo studio dei testi letterari non può rivelarsi utile per provare a ricostruire il ruolo che hanno svolto i dispositivi della visione? E che ruolo ha avuto il libro di Crary in questo campo di studi?

L. A.: Sì non c’è dubbio, la questione è stata al centro di una recente ricerca tra vari atenei italiani e che si è dispiegata in una serie di libri usciti per Meltemi (in particolare La Finestra del Testo a cura di Valeria Cammarata).

Utilizzando altri termini per ripetere ciò che ho già sviluppato, direi che il dispositivo della visione apre una serie di problematiche che trascendono ampiamente il problema della tecnica e che sono di ordine antropologico e fenomenologico ma anche di “governamentalità” del corpo e quindi di potere. La letteratura è un luogo eccellente per sperimentare la critica di tale complessità. Sono quindi le “scienze letterarie” che devono adeguarsi a tale luogo della sperimentazione che è la letteratura.

Il volume di Crary non si occupa esplicitamente di letteratura se si fa eccetto dell’interessante comparazione tra le diverse letture che danno del caleidoscopio Baudelaire, da una parte, e Marx e Engels, dall’altra. Crary, tuttavia, ci offre una modellizzazione genealogica dei dispositivi di visione che ci permette di integrarli nelle analisi letterarie. Il suo volume schiude i fasci di pertinenza di singole tecniche, (lo farà approfonditamente per lo stereoscopio), rendendo possibili nuove prossimità e permeabilità e ritraducendo le aspettative di chi si occupa di analisi di testi letterari.

M. M.: Sempre nell’introduzione ti soffermi sul dialogo che il libro di Crary può instaurare con la teoria sociosemiotica. Mi chiedo se non sia possibile pensare i dispositivi della visione in quanto ibridi, riprendendo alcune sollecitazioni di Bruno Latour ampiamente utilizzate nell’ambito di una semiotica dell’oggetto. E lo stesso Crary che afferma come «la relazione tra l’occhio e gli apparati ottici divenne metonimica» (p.135).

L. A.: Latour ha avuto il grande merito di orientare su impianti sociologici (che volente o nolente godono di una maggiore mediatizzazione e volgarizzazione) delle intuizioni e delle teorie che erano già ampiamente presenti in Foucault, Deleuze e nella sintassi attanziale di Greimas.

È stata proprio la nozione di attante a liberare una certa sociologia d’ispirazione latouriana dalle differenziazioni di superficie riguardanti gli attori, permettendo di arrivare ad una teoria di “mediazione interoggettiva” che sospende la problematica della dicotomia soggetto/oggetto. Se questo libro fosse riscritto oggi, il sociologo francese sarebbe senza dubbio ampiamente citato e si attenuerebbe maggiormente la tendenza di Crary ad aderire all’ipotesi della negatività del potere a cui accennavo prima.

Nel preciso passaggio che citi, in effetti, Crary andrà oltre, o, sarebbe meglio dire, si ferma al di qua di un’interoggettività, individuando un inglobamento dell’uomo come parte della macchina secondo una prospettiva marxista.

M. M.: Il libro di Crary contesta fortemente una concezione evoluzionista dei dispositivi della visione secondo cui si passa da un modello a un altro in maniera perfettamente lineare. Si tratta di una tesi forte che insiste sulle discontinuità e sulle differenze. Come è stata accolta questa rottura epistemologica?

L. A.: Crary non nega una continuità formale fra la camera oscura e la fotografia, anche se considera non ininfluente il fatto che l’esperienza fenomenologica della proiezione della camera oscura e quella della fotografia siano pressoché incomparabili.

Quello che però è essenziale per lui è il fatto che il modello dell’osservatore della camera oscura (diciamo del modello dominante di tale strumento – Crary studierà la complessità della questione) viene meno a seguito del riposizionamento a cui abbiamo già ampiamente fatto cenno. Quindi se continuità formale esiste, essa diventa insignificante agli occhi di una ricerca che tenga conto delle tecniche come reti di relazioni e modelli epistemologici.

È ovviamente un punto centrale della tesi di Crary, che sottintende una critica più generale alla storia concepita come linearità evolutiva. Per l’autore statunitense, inoltre, la fotografia, al pari del denaro, diventa uno dei principali componenti dell’economia culturale del valore e dello e scambio, ulteriore elemento che la distanzia dalla camera oscura.

Diciamo quindi che gli attacchi che Crary porta ai lavori del paradigma “continuista” – fra tutti prenderà di mira la connazionale Svetlana Alpers – sono legittimati dal fatto che a differenza della gran parte degli storici dell’arte che nel suo libro si criticano, lui è il primo ad avere un approccio genealogico.

A mia conoscenza, ma ammetto che possa essere limitata, per adesso i numerosi studi che hanno ripreso questo volume, fra tutti in Italia il lavoro di Casetti, L’occhio del Novecento, lo hanno fatto assimilando entusiasticamente le sue tesi. Non c’è stata una vera e propria polemica – il che non è del tutto positivo poiché sta anche a significare che il mondo della storia dell’arte tradizionale abbia ignorato le critiche.

M. M.: Nell’analizzare il modello della camera oscura e il suo superamento, Crary da storico della cultura non si limita a sottolineare semplicemente le implicazioni filosofiche ma piuttosto si sofferma anche ad analizzare alcune opere pittoriche di artisti come Vermeer o Turner. Prima avevamo parlato della letteratura, tuttavia anche i testi pittorici diventano un banco di prova per chiarire meglio come cambia l’osservatore.

L. A.: Forse l’espressione “banco di prova” può risultare fuorviante soprattutto per come Crary introduce l’opera di Turner (i due quadri di Vermeer sono in effetti utilizzati a livello più semplicemente dimostrativo per esemplificare il paradigma della camera oscura).

Utilizzare tale espressione potrebbe infatti dar adito alla possibile critica sul fatto che il libro riduca l’arte pittorica ad un semplice epifenomeno di movimenti che avvengono in altre sfere della cultura. Al contrario, anche per quello che abbiamo detto sinora, sono proprio le ricerche visionarie di Turner, l’apparentemente ossimorico progetto di omologia fra occhio e sole, fra visione e abbagliamento, che a posteriori danno forma all’immaginazione per ripensare i progetti scientifici di Purkinje o di Plateau. E viceversa.

Insomma non credo che si debba procedere pensando ad un nucleo di idee che vengano successivamente esemplificate e confermate nei discorsi ma piuttosto come, da una rete di discorsi, si possa trovare quell’intreccio immaginativo che ci permetta di individuare e di pensare una rottura epistemologica.

M. M.: Soffermiamoci sul presente. Il libro di Crary è uscito oltre vent’anni fa e solo ora è arrivato in Italia. Tuttavia partire da un’archeologia dei dispositivi della visione, con tutte le implicazioni filosofiche e i cambiamenti epistemologici sottolineati da Crary, può essere utile per ripensare oggi la questione dell’osservatore.
Del resto è lo stesso Crary che nel primo capitolo si chiede: «in che maniera il corpo, a partire da quello dell’osservatore, sta diventando una componente delle nuove macchine, delle nuove economie e dei nuovi apparati, siano essi sociali, di organizzazione della libido e tecnologici?».

L. A.: Da una parte c’è l’invito di Crary a rileggere foucaultianamente i dispositivi della visione attuali (per lui quando scriveva, venti anni fa, ma la domanda vale ancor di più oggi).

Dall’altra c’è la questione di vedere la storia non come insieme di processi progressivi, ma piuttosto come serie di intensità che si realizzano, a svantaggio di altre che si potenzializzano, ma che si ritrovano poi in competizione o in cooperazione con quest’ultime. Ecco perché è importante individuare la fase di rottura che approfondisce Crary: in un certo senso è questa stessa breccia che irrora delle sue potenzialità irrealizzate le sperimentazioni visive odierne, sia di ordine scientifico che artistico.

Rispondendoti un po’ generalmente, penso che sia importante, seguendo attentamente le premesse di questo libro e restando indifferenti alle sirene del determinismo tecnologico o della concezione della storia in termini di progresso, attivare, ad esempio, uno studio simile sulle immagini scientifiche con particolare dedizione a quel campo così prolifico delle immagini e dei dispositivi di visione come quello medico.

E, in modo incrociato, continuare a studiare, alla stregua di ciò che è stato fatto per il cosiddetto expanded cinema negli anni ’70 e che è parzialmente di nuovo in voga attualmente negli studi critici sulla New Media Art, la grande varietà di sperimentazioni artistiche nel campo dei dispositivi visuali.

O ancora seguire da vicino l’opera artistica come riflessione esplicita sulle macchine di visione e le strategie di potere e penso in questo caso ad alcuni recenti lavori di Harun Farocki come War at distance o Prison Images.

Note

[1] Deleuze G., Foucault, Feltrinelli, Milano, 1987.

[2] Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993, p. 219.

[3] Foucault M., L’herméunetique du sujet, Seuil-Gallimard, Paris, 2001, p. 241 (citato in A. Davidson, Dall’assoggettamento alla soggettivazione: Michel Foucault e la storia della sessualità, in aut aut, n. 331).

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