Pubblichiamo un testo del filosofo francese Michel Surya, contenuto nel libro Les Singes de leur idéal. Sur l’usage récent du mot «changement», edito da Lignes.
Quinto volume della serie De la domination, le variazioni di cui il testo è composto furono scritte in concomitanza con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Francese, proprio quando il termine «crisi», quale strumento privilegiato di legittimazione del governo, andava repentinamente sostituendo quello di «cambiamento», attorno al quale si era ricostituita l’affezione politica degli elettori, in particolar modo di sinistra. Un’affezione presto avvilita da un operato che nella perfetta continuità rispetto a quello dei suoi predecessori trova il proprio contrassegno, secondo i rigidi assiomi mediante i quali l’ipercapitalismo esercita la propria dominazione. La traduzione è di Marco Tabacchini.
1. Il 6 maggio 2012, la versatilità inerente al suffragio universale scaccia dal potere quelli che la stessa vi aveva portato cinque anni prima – spregevole sollievo. Nessuno sa bene per quali ragioni in definitiva, né su cosa queste ci istruiscano. Il disgusto suscitato dal presidente uscente ha senza dubbio vinto (di poco, ad ogni modo); non il disgusto della sua politica. La prova è che la destra e l’estrema destra (come distinguerle d’ora in avanti, o seguendo quale inedita distinzione?) restano maggioritarie (risultati del primo turno).
Il 6 maggio, la variante dura del potere (la più dura da molto tempo in Francia) ha ceduto il posto alla sua variante detta morbida (ammorbidita). L’essenziale tuttavia non si troverà cambiato – limiti del sollievo, perfino spregevole.
2. Lunga sequenza surritualizzata: campagne, dibattiti, scrutini, risultati, etc. Fatta affinché tutto il mondo sia giustificato a parlare di politica e di democrazia – affinché nessuno dubiti più dell’una come dell’altra.
La politica? Mantenerne l’illusione. Che non si sappia che la sorte ne è stata regolata una volta per tutte (dai mercati). Dire: l’ipercapitalismo ha trionfato su ogni politica, sarebbe come dire in effetti che vi è ancora politica, per quanto ve ne possa ancora essere, solo in quanto anti-ipercapitalista (ma in un senso o nell’altro, è come non dirne niente).
La democrazia? Dirla «pacificata». Non dirla che pacificata, con una soddisfazione gli uni degli altri, per dirselo a se stessi e mostrare a tutti la maturità infine raggiunta dei suoi procedimenti – per non dover confessare la loro estinzione.
3. Forme di questa pacificazione: l’enfasi finale della sequenza detta del «passaggio dei poteri», la sola realmente in grado di testimoniare di ciò che la politica è divenuta: una delle forme, esagerate o euforiche, del divertimento generalizzato.
4. Il passaggio dei poteri, o la «continuità dello Stato», secondo gli elementi del linguaggio che le élites – politiche o mediatiche – condividono. Eloquente condivisione, grazie alla quale noi avremmo dovuto sapere in anticipo che questa continuità sarebbe stata assicurata qualunque fosse stato il cambiamento a cui si fosse saputo esporla. I media, del resto, non hanno atteso i risultati delle elezioni per testimoniare al nuovo potere annunciato un attaccamento pari almeno a quello che essi prima avevano mostrato al vecchio. Si può d’altra parte formularne l’ipotesi: sono le élite mediatiche ad essere ora incaricate di questa continuità senza la quale le apparenze della politica non potrebbero essere salvate.
Dieci anni fa, si sarebbe detto di esse: per non restare più a lungo senza padrone; oggi bisogna dire: affinché qualsiasi potere sappia quali padroni ha.
5. È tutto sommato logico che siano queste élite recenti (mediatiche) a essere incaricate di questo potere, esse che hanno reso la politica il divertimento che è. Dipende dunque da loro che questa rimanga tale. A questo scopo hanno preso tutta la parte che incombeva loro in quel che la sinistra si è intestardita a considerare come un cambiamento, ma che per esse non costituiva semmai altro che uno scambio; scambio secondo cui la sinistra costituirebbe in effetti questo divertimento che Sarkozy e i suoi avevano fortemente alimentato, prima di deluderlo alla fine.
6. In realtà, il divertimento non regola né scambi né cambiamenti, si accontenta di fare in modo che gli scambi e i cambiamenti si costituiscano seguendo la sua regola. Esso preferisce tutto sommato che la politica passi per un divertimento, affinché non si veda che il divertimento è la sua regola.
7. Può dunque accadere che il grande coito elettorale partorisca una volta o l’altra in Francia (ogni cinque anni al massimo) dell’«alternanza» (tripudio, lacrime, ecc.) nella quale le congratulazioni dei vincitori si compiacciono allora di vedere la validità del cambiamento, quando tutt’al più non vi si dovrebbe vedere che la varietà dell’assoggettamento (la diversità delle sue forme possibili).
8. «Il cambiamento, è ora». Slogan povero (cosa che si è spesso detta)? Al contrario, slogan perfetto, che la versatilità dell’opinione era libera di interpretare come il programma di una politica possibile, reale promessa di «cambiare» (cambiare cosa? è quel che ci si è precauzionalmente astenuti dal dire), mentre non si trattava in realtà che di procedere al cambiamento delle élite passibili di conferire alla stessa politica (o quasi) la variante che l’avrebbe salvata.
9. La stessa politica o quasi, detto diversamente: che procederà alla regolazione di ogni politica della fine della politica sugli interessi dell’ipercapitalismo. I quali interessi concederanno – ai margini – degli aggiustamenti di principio, non perché si stabilisca il principio, anche ristretto, di una qualche giustizia, ma per consolidare il principio della loro dominazione.
10. Non lo si è detto abbastanza: Sarkozy e la sua cricca esecrabile, a causa dei loro eccessi (di quali eccessi non si sarebbero resi colpevoli se la campagna fosse dovuta durare più a lungo!), erano arrivati al punto di recar danno agli interessi della dominazione (li minacciavano). È per una bizzarra pigrizia di spirito che ci si ostina a rappresentare quest’ultima sul modello delle grandi dominazioni passate. L’ipercapitalismo non separa produttori e consumatori; gli sembrò perfino, ormai molto tempo fa, che un lavoratore immigrato senza documenti non valesse meno di un lavoratore «francese» (autoctono, “vero”, etc.); che anzi valesse di più, in quanto la sua precarietà inerente valeva per lui quale esperienza – possibile inizialmente, in seguito esemplare – per ogni precarizzazione del lavoro a venire.
11. «Il cambiamento, è ora», detto altrimenti: «Cambiamo ora d’assoggettamento».
12. Cosa che si è liberi di intendere in questo modo, ancora: il mantenimento dell’assoggettamento passa per il suo cambiamento, secondo la maniera che l’alternanza incoraggia e permette.
13. L’assoggettamento non è totale se non a condizione che i partiti d’alternanza l’assumano a turno, amministrando in tal modo la dimostrazione della sua perfezione senza alternative.
In cosa la dominazione è perfetta? Nell’aver ridotto la sua alternativa al rango d’illusione. Illusione essa stessa perfetta, che vuole che pensino di votare contro la dominazione quegli stessi che la riconducono all’identico (o quasi: ad eccezione dei suoi eccessi).
14. Questo perché la politica si è interamente spettralizzata. Spettralizzazione (altra parola per qualificare, ma cupamente, il divertimento) quasi identica a quella di Dio, dopo che Nietzsche ne ebbe tuttavia constatato la morte; di cui annunciava – annuncio presto ignorato – che non si sarebbe peraltro cessato di mostrarne dappertutto gli spettri, di fronte ai quali non ci si sarebbe prosternati meno che davanti a Dio stesso, vivente.
Ecco quel che è tanto affascinante, insomma: che non si smette di credere a ciò a cui non dovrebbe più esserci nessuno a potervi realmente credere. Che la credenza si sia essa stessa nel frattempo spettralizzata (spettralizzazione al quadrato). Prosternandosi davanti a essa stessa, in mancanza di disporre della potenza di formare una qualsiasi nuova figura. Prosternandosi, in mancanza, davanti alle sue figure perdute, soltanto per far sì che non cessi la propria prosternazione.
La prosternazione: stato nel quale la credenza deve mantenersi per continuare a sperare che una qualche figura possa eventualmente derivarne – una figura che la giustifichi e, a maggior ragione, la salvi.