Le prime ore di una parola neonata

L’invenzione del termine petaloso da parte dello studente di terza elementare Matteo T., la lettera che la sua maestra Margherita Aurora ha inviato all’Accademia della Crusca per accertarsi della sua correttezza e la risposta affermativa che è arrivata in pochi giorni da Firenze, hanno messo al centro del dibattito una questione linguistica che troppo spesso è considerata, in Italia, materia da puristi, frequentatori di biblioteche, saputi filologi che si divertono a fare le pulci a chi scrive sui giornali o parla in televisione.

Un neologismo è senza dubbio un evento da festeggiare per ogni lingua del mondo, come la nascita di un figlio, e petaloso non aveva che poche ore di vita ed era già l’aggettivo più condiviso su Twitter: un successo tale che perfino Michele Serra ha cercato di sfilarne la paternità allo studente ferrarese (scherzosamente s’intende). Sull’onda di quel fiocco azzurro, abbiamo visto addirittura riportare l’ultima raccomandazione dell’Accademia della Crusca, un’istituzione solitamente ignorata dalla nostra stampa, che riguardava il termine da usare al posto di stepchild adoption, di cui in quei giorni si discuteva la possibilità di allargamento alle coppie omosessuali. Francesco Sabatini, il presidente onorario dell’Accademia, ha proposto adozione del configlio: un’iniziativa lodevole che ha messo al corrente del secondo neologismo in pochi giorni.

Stepchild adoption – scrive Sabatini – richiede una certa perizia nell’uso dell’inglese, e anche in Parlamento più di un senatore ha mostrato qualche impaccio di pronuncia […] La proposta alternativa è adozione del configlio, fermo restando che la già circolante e più analitica perifrasi adozione del figlio del partner è di per sé una soluzione accettabile e comunque preferibile all’espressione inglese. L’accettazione di partner, anzi, ci aiuta a sgombrare la strada dalle obiezioni di coloro che attribuiscono a xenofobia le nostre caute raccomandazioni.

È interessante quest’ultima postilla dell’Accademia, che dimostra con quanta ritrosia vengano accolte le sue indicazioni. Siamo lontani dal prestigio di cui gode, per esempio, la temuta Academie française, che salvaguarda la lingua di Racine con un rigore che in Italia sarebbe giudicato del tutto fuori luogo.

Del mio esame in Sociolinguistica ricordo una frase di Italo Calvino, scrittore che usava una lingua così razionale da ricordare, secondo Pasolini, proprio il francese: «Ogni volta che ho effettuato è messo al posto di ho fatto, la lingua italiana viene uccisa». L’esempio voleva dimostrare quanto la lingua dovesse essere, nella concezione di Calvino, asciutta e precisa; e aggiungeva:

L’italiano avrebbe possibilità che molte altre lingue non hanno, ma la necrosi che tende a farne un tessuto verbale in cui non si vede e non si tocca nulla lo sta cancellando dal numero delle lingue che possono sperare di sopravvivere ai grandi cataclismi linguistici dei prossimi secoli.

Calvino sottolineava la necessità di una lingua che attecchisse alle cose concrete, che vi fosse più possibile abbarbicata, come l’edera a una parete. Ancora adesso, quando uso quel verbo omicida, effettuare, lo faccio con un mal dissimulato senso di colpa, eppure dall’intervento di Calvino (1981) sono accadute tante cose che quella sua distinzione fondamentale appare oggi, per così dire, ingenua, sorpassata dall’avverarsi della sua stessa analisi. La genericità e l’astrazione che denunciava sono aumentate, e si è rafforzato un nucleo di politichese e burocratese che lo scrittore di Santiago de Las Vegas chiamava antilingua: «la sua motivazione psicologica è la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi». Quel grumo oscuro mi sembra anzi rafforzato, oggi, da un’imponente lista di forestierismi che non aiuta la comprensione dei complessi temi che si pongono all’attenzione dei cittadini, come se per ogni neologismo ci sforzassimo a cancellare due parole dal nostro dizionario.

A me piace usare à la page, assist, bazooka, black out, candid camera, demodé, fast-food, frappé, goal, hamburger, j’accuse, ketchup, macho, motel, pamphlet, prêt-à-porter, puzzle, realpolitik, replay, shampoo, skipass, souvenir, spleen e vodka, perché mi permettono di essere preciso e conciso, ma il barbarismo inarrestabile di questi anni ha assunto una tale pervasività che è diventato un serio problema anche per chi adora citare le lingue altrui. Non c’è che ripercorrere il dibattito politico dell’ultimo decennio per rendersene conto: bipartisan ha sostituito “bilaterale”, welfare ha sostituito “stato sociale” e leader ha preso il posto di “capo” (o “segretario”); ma non sono che i casi più famosi di una minuziosa opera di sostituzione che ha portato in breve tempo all’adozione d’impeachment, governance, no-fly zone, road map, peace keeping, partnership, privacy, raid, green economy, new economy, spin doctor, team, top, top management, trend (magari negativo), tycoon etc… Tutti termini che potrebbero essere espressi con parole più asciutte e precise: tutti, per l’amarezza di Calvino, ho effettuato al posto di ho fatto.

I forestierismi sono belli quando sono trattati come ospiti e, in quanto tali, oggetto di ogni cura: li si dovrebbe collocare al posto giusto e chiamare in causa seguendo il protocollo; fu così per abat-jour, gentleman e niet (il famoso niet russo, che indicava un no secco, più duro di un no normale, perché aveva valicato gli Urali). Oggi si è ristretta la platea delle lingue che desideriamo ossequiare, ma questo ha a che vedere con circostanze geopolitiche che esulano il tema di questo articolo: ciò che mi preme sottolineare è la mutazione nell’uso stesso del forestierismo: coincide ormai quasi completamente con anglicismo, questo lo abbiamo visto, e non lo si usa più soltanto se presenta chiari vantaggi di precisione, eleganza e/o sinteticità, ma ogni volta che desideriamo mostrarci al passo coi tempi, à la page, insomma sulla cresta dell’onda: un atteggiamento tipico dei parvenu di ogni epoca he Leonardo Sciascia descriveva in questo (Todo) modo:

Don Gaetano […] versò il vino a tutti, lodandolo da intenditore, ma con quelle parole francesi che ora usano i non intenditori.

In Italia, va detto, il dibattito è viziato da un’improvvida iniziativa dello Stato fascista, che nel 1940 obbligò a preferire le parole italiane (“tassì” meglio di taxi, “fiaschetteria” meglio di bar, “vendutissimo” meglio di best-seller) e così, quando si fa notare a qualcuno l’uso improprio di un’altra lingua, non è raro sentirsi rispondere: Ma che sei un nostalgico del fascismo? No, non sono un nostalgico del fascismo, tutto il contrario, ma credo che l’assurdità di quella misura risiedesse nell’obbligatorietà, e non nella nostranità dei termini che si volevano imporre. Lo dico soprattutto a difesa del forestierismo, il quale, se privato della sua eccezionalità, è destinato a perdere gran parte della sua affascinante malizia: è lui la prima vittima di un’apologia della parola straniera che lo vorrebbe insostituibile anche nei casi in cui non ne avremmo alcun bisogno: un segno di necrosi che neppure il talento di Matteo T. potrà ricompensare.

Da qualche tempo a questa parte è come se gli italiani dovessero non solo prendere esempio dagli altri paesi, ma imparare anche le loro parole: come se per superare i pregiudizi secolari che li attanagliano, fossero costretti a chiamare l’adozione del configlio, appunto, stepchild adoption: l’inglese ha il ruolo di propulsore, di carburante linguistico che dovrebbe proiettarci ai livelli di civiltà presenti altrove (senza peraltro riuscire nell’intento).

Gl’interrogativi a cui è necessario rispondere, per giudicare un tale fenomeno, sono almeno tre: davvero così facendo si favorisce la comprensione dei temi che l’attualità pone all’attenzione dell’opinione pubblica? Non si tratta invece di un trucco che ci si rivolgerà contro? E, last but not least, il diritto all’informazione può davvero dirsi garantito se si nascondo i termini di questioni così delicate? A costo di apparire un nostalgico del fascismo, sostengo che quel diritto è seriamente minacciato dai continui, sistematici e, in alcuni casi, interessati, richiami a concetti estranei alla realtà in cui viviamo. Chi può assicurare, infatti, che il titolo Salta stepchild adoption? Vittoria del Family Day (ilfattoquotidiano.it del 23/02/2016) sia compreso da un comune cittadino che non trascorra frequenti soggiorni di studio in Inghilterra? Chi si preoccupa di spiegargli la vera posta in gioco che si nasconde dietro quel titolo? Insomma, un distacco accumulato in decenni non si supera con gli escamotage, perché si rischia di mettere a disposizione del parlante una cesta di termini e visioni del mondo ancor più ristretta di quanto facesse il protezionismo alla D’Annunzio.

L’aspetto più inquietante, mi sembra, è che un simile uso dei prestati non può che rispondere a un interesse di segregazione, come quando Don Abbondio latineggiava con Renzo Tramaglino per dirgli che il suo matrimonio con Lucia Mondella non s’avea da fare: una tecnica di offuscamento, una strategia del depistaggio attraverso la quale si discute sull’adozione del configlio per le coppie omosessuali ma si obbligano i diretti interessati a scervellarsi sul Collins per capire cosa sarà di loro e della loro progenie.

L’arena pubblica, in questo modo, si riduce a uno spazio semantico in cui è sin troppo facile scorrazzare indisturbati, evitando le obbiezioni (ma anche le approvazioni) che i necessari cambiamenti legislativi susciterebbero se le cose venissero chiamate con il loro nome; si vorrebbe nascondere il cuore del problema per esaltarne la cornice: la rincorsa a una modernità balbuziente, e invece si svuota di senso la realtà che ci attende. Calvino concludeva che «la lingua vive di un rapporto con la vita che diventa comunicazione, di una pienezza esistenziale che diventa espressione». Se scolleghiamo la nostra lingua da quella pienezza esistenziale che la deve vivificare, nessuno ne trarrà vantaggio: né gli opinion leaders, né i politically corrects, né gl’intenditori dell’ultima ora che vorrebbero far le scarpe ai nostri più famosi top writers.

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