Le Paralimpiadi e il culto della volontà

Abbiamo bisogno di raccontarle in un altro modo?

Almeno nel nostro Paese, le Paralimpiadi non avevano mai ricevuto la copertura e l’attenzione mediatica che hanno vantato nella loro ultima edizione, conclusasi da qualche giorno a Tokyo, con tante medaglie per l’Italia. Il movimento paralimpico, dalla sua nascita attorno alla metà del secolo scorso e dal decisivo impulso ricevuto a partire dagli anni Ottanta, sembra essere oggi in una fase di piena maturità, anzi di ulteriore ascesa. Alcuni degli atleti che si misurano nelle gare previste dalla manifestazione, pur non ricevendo gli stessi compensi dei campioni olimpionici, ne condividono e talvolta ne superano la notorietà sulla scena pubblica. Bebe Vio, “Italiana dell’anno” 2016, protagonista di un documentario su Netflix, volto di tante pubblicità e campagne di sensibilizzazione, nonché eroina su un libro per ragazzi e modello per una Barbie, è forse il caso più evidente, dopo l’incidente che ha interrotto (ci auguriamo provvisoriamente) l’attività competitiva di Alex Zanardi.

Rising Phoenix (2020), il docu-film di Netflix sulle Paralimpiadi

Certo, lo stesso non si può dire delle gare in cui questi campioni si confrontano, che hanno molto meno seguito rispetto alle prove olimpiche che ci hanno tenuti incollati allo schermo alcune settimane fa: non è un caso, per esempio, che la Rai abbia ottenuto i diritti per trasmetterle con relativa facilità, senza grossa concorrenza da parte delle pay-tv, particolarmente agguerrite quando si è trattato invece di mandare in onda le Olimpiadi. E questo, oltre a spiegare cinicamente le differenze di premio tra le medaglie olimpiche e paralimpiche (se si decide di stare alle norme del mercato e dell’audience, banalmente chi vende di più guadagna di più), mi porta direttamente al succo della questione. La celebrità mediatica di alcune delle figure di riferimento in questo ambiente si è imposta seguendo una logica ambivalente: da una parte, la fama di questi atleti ha permesso al movimento tutto di evolvere, offrendo ulteriori possibilità di inclusione e spazi di affermazione per gli sportivi che ne fanno parte, che possono contare adesso su federazioni più organizzate, calendari gare più ricchi, spazi e strutture più attrezzati e diffusi sul territorio. Dall’altra parte, però, questo è stato possibile solo (o prevalentemente) riconducendo il fenomeno dello sport paralimpico entro le logiche dello spettacolo, e soprattutto di quel messaggio che promuove un modello unico, normativo, di bellezza, di atletismo, di “eccellenza”, di corpi performanti, di spendibilità mediatica. Un modello “normocentrico” che, in quanto tale, esclude le figure e le performance non esattamente conformi agli standard (est)etici del gesto tecnico e del fisico atletico, fissati dagli atleti normodotati. Da qui, direi, lo scarto di audience delle Paralimpiadi sui canali nazionali: quei corpi che, nella straordinarietà delle loro gesta, non cessano di mostrarci la loro diversità, ci affascinano più per come riescono a fare quello che fanno che per quello che effettivamente fanno (per le loro gare, per la loro tecnica di corsa, eccetera).

Può essere una percezione sbagliata, e non ho esattamente il polso della situazione o statistiche su cui fare affidamento, ma da lettore di giornali e riviste e da frequentatore di social, mi sembra che la notorietà di questi atleti, almeno tra i non addetti ai lavori, sia dovuta più al potenziale evocativo (e, consentitemelo, strumentale) che le loro storie hanno nei confronti del modello dominante dell’individuo vincente che si impone su tutti e su tutto (e in primo luogo sui propri limiti), che non al coinvolgimento che le loro gare effettivamente suscitano nel pubblico, o al potenziale inclusivo che il movimento tutto è riuscito ad acquisire negli ultimi decenni – e che rappresenta l’aspetto positivo di questa realtà, anche dal punto di vista “critico” che sto presentando in questa riflessione, che non riguarda tanto gli atleti con disabilità, quanto il modo in cui le loro imprese vengono rappresentate (talvolta auto-rappresentate) sulla stampa, sui media, dal senso comune.

Le storie di vita di alcuni campioni paralimpici, fatte di rivalsa, di volontà e di incredibile, ammirevole determinazione, sono in effetti paradigmatiche in questo senso. Soprattutto, per come vengono raccontate: Se sembra impossibile, allora si può fare, recita il titolo di un best-seller di Bebe Vio (a tutti gli effetti un motto della schermitrice, nonché un richiamo, forse implicito ma evidente, all’“Impossible is nothing di Adidas); la campionessa di atletica Nicole Orlando, con Sindrome di Down, ha scritto con Alessia Cruciani, giornalista della Gazzetta, un libro autobiografico intitolato Vietato dire non ce la faccio; Con la testa e con il cuore si va ovunque, rimarca Giusy Versace nel testo in cui racconta la sua autobiografia; e non sto a riportare qui i commenti con cui le medaglie dei campioni paralimpici italiani a Tokyo sono stati presentati nelle settimane passate da giornalisti, titolisti, istituzioni, politici e privati cittadini (spesso persone che, verosimilmente, non avevano visto le gare), perché più o meno ne avete letti di molto simili tutti. Tutte varianti più o meno originali della stessa parabola dell’uomo (o della donna: interessante anzi notare che proprio in questo ambiente le figure archetipiche nell’immaginario sono anche donne), che attraverso il buon esercizio della volontà individuale riesce a imporsi sui propri limiti, che proverbialmente “non esistono”, o “sono solo nella nostra mente”, e su quelli “imposti” dalla società, vista appunto solo come ostacolo all’espressione della soggettività, dei desideri, del talento, delle aspirazioni.

Tutto questo ha come dicevo ricadute virtuose, nella misura in cui serve a offrire visibilità al movimento, e di conseguenza spazi e opportunità a un numero sempre crescente di persone con disabilità, per cercare di decostruire un approccio pietistico nei loro confronti ancora diffuso nella nostra realtà sociale e per ristabilire una relazione positiva con il loro corpo: come dice in un’intervista su l’Ultimo Uomo Martina Caironi, argento nei 100 metri femminili T63 a Tokyo, «lo scopo dello sport è anche quello di riuscire a spronare le persone che non hanno reagito in maniera positiva». Ma il messaggio centrato sulla volontà individuale come unico mezzo per la rivalsa, per l’affermazione sociale e per la realizzazione dei desideri è un messaggio che carica tutto il merito (o la colpa) del successo (o dell’insuccesso), e in definitiva della felicità (o dell’infelicità) sul singolo individuo, sollevando automaticamente la collettività da qualsiasi responsabilità o influenza in questo senso. È un messaggio che, misurando le possibilità di riuscita e di espressione del talento di ciascuno solo sulla sua iniziativa, ovvero su quanto egli o ella sia pronto/a a impegnarsi, dedicarsi, sacrificarsi per una causa, rimuove qualsiasi altro fattore (nella complessità dei fattori che ogni volta intervengono) dalla considerazione delle traiettorie di vita individuali e spazza via così qualunque ipotesi di una necessità di intervento politico, culturale, economico, sociale finalizzato a risolvere diseguaglianze o differenze di qualsiasi tipo: se ce la fanno loro che hanno perso una gamba o un braccio, tu che scusa hai? «If you have only one hand, don’t just watch football: play it, at the highest level», diceva la voce narrante di un recente, discusso ma incredibilmente efficace spot Nike, sulle immagini delle azioni di Shaquem Griffin, linebacker dei Miami Dolphins.

È un messaggio che ha trovato terreno particolarmente fertile nell’ambito dello sport, grazie all’azione convergente di mental coach, esperti motivazionali e marketing, ma che si applica trasversalmente a molti altri ambiti del sociale. È un messaggio, tuttavia, evidentemente fuorviante se inteso in senso assoluto, come mostrano per esempio le storie dei membri della Delegazione olimpica degli atleti rifugiati, istituita anche alle Paralimpiadi e composta di persone che nel loro paese non avrebbero potuto raggiungere i loro obiettivi, per quanto intensamente li potessero desiderare e instancabilmente perseguire, perché le condizioni sociali, economiche e infrastrutturali non glielo avrebbero permesso. Allora sono state costrette a emigrare, con tutti i rischi e le difficoltà che un percorso di questo tipo comporta, come sappiamo dal triste destino di Saamiya Yusuf Omar, la velocista somala morta annegata a ventuno anni nel tentativo di realizzare il suo sogno olimpico raggiungendo l’Europa e trovando qua un contesto in cui avrebbe potuto allenarsi liberamente, come non poteva fare nel suo paese: ne ha raccontata la drammatica vicenda Giuseppe Catozzella. A volte, insomma, «con la testa e con il cuore» non si va esattamente «ovunque»; tutto diventa possibile, ma se le condizioni lo permettono.

SAMIA (AP Photo/Mark J. Terrill): Saamiya Yusuf Omar ai 200 metri alle Olimpiadi di Pechino, nel 2008. Arrivò ultima, con ampio margine di distacco rispetto alle altre atlete in gara, ma fu acclamata dal pubblico, e la sua prova rimane uno dei momenti più ricordati di quei Giochi.

È una realtà con cui molte persone con disabilità, del resto, si scontrano quotidianamente, quando diventa impossibile (per fare un esempio scontato ma efficace) scalare con una carrozzina un marciapiede, quando delle barriere architettoniche non si occupa nessuno e ci si rende conto che, in certe circostanze, a qualcuno è preclusa non certo una vita da vincente, o addirittura da «supereroe» (come definisce gli atleti paralimpici la stessa Vio, nell’incipit di Rising Phoenix), ma anche una “banale” normalità. Una vita normale e dignitosa, per cui non dovrebbe essere necessario avere i superpoteri: dovrebbe bastare essere considerati soggetti di diritto.

Così, se da una prospettiva individuale il successo agonistico di questi campioni assume il sapore della rivalsa, o se non altro dell’accettazione, e del superamento, di una situazione di diversità potenzialmente discriminante (il che assume un significato anche sociale e collettivo, nella misura in cui lo sport si fa veicolo di valori virtuosi, che con la mediazione di figure carismatiche riescono a uscire dai ristretti ambienti di pratica), dall’altra ha l’effetto di scaricare la comunità (la politica, le istituzioni, il senso comune) da questa responsabilità. La possibilità di ristabilire un rapporto positivo con il proprio corpo attraverso lo sport, e di promuovere il movimento paralimpico nel suo complesso, e non solo nelle sue espressioni apicali, dovrebbero essere preoccupazioni collettive, politiche nel senso più ampio e nobile del termine, e non ricadere sulle spalle dei singoli. È evidente che nel caso degli atleti paralimpici questa possibilità passi in certa misura anche attraverso la risonanza mediatica che le loro imprese guadagnano, che porta attenzione, investimenti, e di conseguenza la possibilità di organizzarsi a livello istituzionale, accedere a strutture e a circuiti competitivi, riuscire a svolgere un’attività fisica. Ma è sufficiente? O non servirebbe piuttosto (ri)pensare alla società come parte costitutiva della soggettività, e dunque ambito di opportunità potenziali – oltre che di limiti – per l’espressione del talento e la soddisfazione dei desideri?

A questo fine, sono convinto che concentrarsi solo o prevalentemente sul plot narrativo dell’individuo che con la volontà e la costanza riesce a superare tutti gli ostacoli che la vita, o il destino, gli hanno posto davanti non sia la scelta più utile per il movimento nel suo complesso, che avrebbe bisogno di far arrivare al grande pubblico anche altre storie, altre “morali della favola”, di cui gli atleti che ne fanno parte, e gli ambienti in cui si preparano con fatica ogni giorno, sono ricchi. E qui – deformazione professionale – non posso fare a meno di lanciare un appello a una più attenta e programmatica analisi sociale e culturale di questi contesti, che coinvolga anche le realtà istituzionali e accademiche e che possa offrire agli atleti stessi, e a chi di volta in volta si incarica di raccontarne le gesta, argomenti per formulare narrazioni alternative, utili a cogliere la complessità del movimento e le condizioni sociali e culturali che rendono possibili le imprese dei singoli atleti.

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