Lo storico Claudio Pavone avvertiva, oltre vent’anni fa, che occorrono sempre tempi lunghi perché la coscienza collettiva elabori nuove sintesi a partire dai materiali che la ricerca storica fornisce.
Come ogni anno la solennità civile nazionale del “Giorno del ricordo” istituita quindici anni fa (legge 92, 30 marzo 2004) è stata terreno di strumentalizzazione da parte di personalità politiche, anche ai più alti livelli, associazioni, responsabili di media di tipo diverso. Il ministro dell’Interno è addirittura intervenuto minacciando chi da anni si impegna per trasmettere conoscenza sulle vicende del fascismo, della Resistenza, della Seconda guerra mondiale e che sulle foibe ogni anno organizza convegni e iniziative. Nonostante l’impegno delle storiche e degli storici, ormai quasi quarantennale, sulle vicende del confine orientale la strada della semplificazione è rimasta negli organi di informazione anche istituzionali quella più semplice, più usata e, riteniamo, più pericolosa. Occorre rispondere coi contenuti, col metodo storico, con la documentazione archivistica nel rispetto di chi ha perso la vita in quella che nella stessa legge istitutiva del Giorno del ricordo è la “più complessa vicenda del confine orientale”. Gonfiare le cifre delle persone uccise è una tecnica triste, non solo perché i morti qualunque sia il loro numero, sono sempre troppi; ma perché tende a costruire equiparazioni insostenibili, confondere le persone, agire sulla memoria collettiva in modo manipolatorio. Gli studi di Joze Pirjevec, Raoul Pupo, Eric Gobetti, Franco Cecotti e di molte altre studiose e studiosi – pure nelle loro differenze interne di interpretazione e impostazione della ricerca – arrivano a indicare un massimo di quattro-cinquemila vittime italiane per l’intero periodo dal 1943 al 1946 di cui sono responsabili le forze jugoslave. Non tutte sono riconducibili alla pratica dell’infoibamento, ma si indicano con quella cifra anche i morti nei campi di lavoro, i prigionieri di guerra morti nel contesto della fase più acuta della Seconda guerra mondiale, riconducibili all’area del confine italo jugoslavo.
Perché allora si fanno paragoni con la Shoah e si usano termini come genocidio? E perché analizzare storicamente il contesto dell’eredità di un territorio storicamente multiculturale e plurinazionale come quello dei Balcani nel primo mezzo secolo del Novecento viene tacciato di negazionismo e diventa occasione per rivendicazioni nazionalistiche? Si fa onore o si fa un torto alle vittime innocenti raccontando la storia in questo modo?
Abbiamo chiesto un commento a Silvia Folchi che oltre a presiedere l’Anpi di Siena fa documentari e dunque lavora con gli aspetti dell’immaginario, della memoria storica e del loro impatto culturale.
(redazione il lavoro culturale)
In un’epoca come la nostra, dominata dalla fretta di trovare soluzioni immediate senza curarsi di esaminare le radici dei problemi, è importante fare buon uso della memoria, ma la memoria in Italia, oltre a essere fragile, è anche perennemente divisa, con il risultato che le commemorazioni introdotte per legge sortiscono spesso l’effetto di favorire schematismi narrativi che eludono il nodo cruciale delle responsabilità.
Si intende, in questo caso, la responsabilità diretta del fascismo in entrambe le vicende che le date del 27 gennaio e del 10 febbraio chiedono di celebrare. Queste infatti, non sono scelte per caso e sulla loro scelta occorre soffermarsi. Perché proprio il 27 gennaio? Perché il 10 febbraio? A quali particolari vicende ci riconducono quei precisi giorni?
E se non c’è un nesso diretto che lega quelle date, perché qualche amministratore – come nei giorni scorsi il sindaco di Siena – non resiste alla tentazione di unificarne la celebrazione, scavalcando il legislatore e gli storici, con buona pace anche del rispetto per le vittime e per i reduci?
Nella città del Palio, in questi giorni, è nato il Comitato 10 febbraio, con – si legge nella sintesi dell’associazione – il «fine di riallacciare un legame culturale in nome di una riscoperta identitaria. Si tratta dell’identità italiana dell’Adriatico orientale, che venne brutalmente offesa dal regime nazionalcomunista titino, e che oggi vogliamo portare a nuovo splendore». Sulla brutalità con cui l’Italia fu offesa da vent’anni di dittatura nemmeno un accenno, né sulle forme di italianizzazione violenta delle comunità slave, su cui torneremo.
I fondatori del comitato sono tutti esponenti locali dei partiti di centro-destra e di organizzazioni politiche di estrema destra: Mattia Savelli (Fratelli d’Italia), Eleonora Raito (Lega), Sergio Fucito (Casa Pound), Gianfranco Maccarone (Casaggì/FdI) e Carlo Marsiglietti (Lista De Mossi). Per il 9 febbraio il Comitato ha organizzato un corteo commemorativo seguito da una conferenza, presso una sala comunale, tenuta da Alfio Krancic, (di origini fumane, la sua famiglia arriva a Firenze quando lui aveva un anno) disegnatore e fumettista, una vita nel Movimento Sociale Italiano dove rimase accanto a Pino Rauti anche dopo la “svolta” finiana di Fiuggi. Conferenza e corteo hanno ottenuto il patrocinio del Comune, con tanto di gonfalone e presenza di un assessore con la fascia tricolore.
Non tutte le associazioni di profughi, però, sono d’accordo nel consegnare all’estrema destra il monopolio politico della vicenda.
Giù le mani dalle foibe. È questo il senso della polemica che si sta consumando tra il mondo dell’esodo istriano-fiumano-dalmata e i patrioti di Fratelli d’Italia. Alle associazioni degli esuli è andato di traverso infatti il manifesto comparso qualche giorno fa sulla pagina Facebook di Giorgia Meloni, leader di FdI, che rivendicava come una propria vittoria il fatto di far trasmettere su Rai 3 in prima serata l’8 febbraio, due giorni prima del Giorno del Ricordo il film Red Land-Rosso Istria su Norma Cossetto, la giovane studentessa istriana infoibata dai partigiani jugoslavi nel 1943
Ancora sul film, inoltre, è interessante l’analisi di Nicoletta Bourbaki sulla gestazione di Rosso Istria che sarà prossimamente trasmesso in prima serata dalla Rai. L’articolo svela i committenti politici, le finalità propagandistiche e il processo generale di rapporto con le fonti, sostanzialmente privo di fondamento storico, dell’operazione. La ricerca della creazione di una memoria condivisa «sempre più cemento bipartisan per solidificare una versione della storia d’Italia reazionaria, edulcorata, vittimistica e omertosa (e stiamo usando eufemismi)», si arricchisce ora di un’intenzione sovranista, la stessa che sembra di ravvisare nella “riscoperta identitaria” cercata dai fondatori del Comitato 10 febbraio.
Ma torniamo alle date. Perché non possiamo accontentarci dell’appiattimento concettuale più volte insinuato (e purtroppo talvolta trasversalmente sostenuto), come se due leggi uguali e contrarie avessero imposto alla coscienza collettiva italiana di onorare le vittime di contrapposti schieramenti? Riunire le date, piangere ciascuno i propri morti, potrebbe avere, forse, un significato: se non quello di fare chiarezza storica sulle cause di quelle morti, almeno di cercare una ricomposizione, tardiva, degli effetti.
Così non è, naturalmente.
A partire dalle date scelte, che impongono una rapida ricostruzione.
Il 27 gennaio (1945), il giorno in cui si aprono i cancelli di Auschwitz, il mondo scopre le atrocità naziste, la cui enormità è tale da indurre a derubricare i crimini fascisti alla voce minore di colpevole collaborazionismo con l’alleato-occupante. Alleato a cui, in ogni caso, per convinzione ideale o per paura di rappresaglie, è dovuta obbedienza. Poco si ricorda di quelle leggi italiane che fin dal 1938 indicano nella razza ebraica il nemico del popolo, e che sanciscono, come atto inziale, l’allontanamento del nemico medesimo dalla scuola pubblica (studente, insegnante, bidello o dirigente: le leggi fasciste hanno la caratteristica di parificare generi, età, status, poiché l’unica livella che conta è quella, appunto, della razza).
Nel discorso che il 18 settembre 1938 tiene a Trieste, Mussolini annuncia di fatto la serie di provvedimenti che andranno sotto il nome di leggi razziali:
Il problema di scottante attualità è quello razziale, e in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio, occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico è dunque un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questa incontestabilità dei fatti. L’ebraismo mondiale è stato, durante i sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico inconciliabile del partito. Tuttavia, gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibilmente meriti militari e civili nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia. In quanto agli altri, seguirà una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi, più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che, i nemici di altre frontiere e quelli dell’interno e soprattutto i loro improvvisati e inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino
Giuseppe Di Vittorio aveva pochi giorni prima lanciato un accorato appello sul giornale degli antifascisti esuli in Francia “La voce degli italiani”: «Mentre la situazione internazionale si aggrava di ora in ora, sotto le minacce intollerabili degli aggressori fascisti, il delirio razzista è giunto al parossismo in Italia. Tutti i mezzi potentissimi di pressione morale e materiale di cui si è munito il regime, sono stati messi in azione per creare un’atmosfera di progrom» (In aiuto degli ebrei italiani!, in “La voce degli italiani”, 7 settembre 1938).
Il resto è storia nota, anche se è formidabile la tenacia con cui da ottanta anni continua a mantenersi il tentativo di deresponsabilizzare il governo italiano dalle colpe dirette (elenchi dei cittadini ebrei, arresti, confische, retate, deportazioni, uccisioni) e il popolo italiano da quelle meno dirette (dall’indifferenza alle delazioni).
Scegliere il 27 gennaio significa indicare il nazismo (e spesso la “follia nazista”, cioè nessun colpevole) come colpevole unico. Paradossalmente, possiamo celebrare ogni 27 gennaio proiettando la diapositiva dei cancelli di Auschwitz senza spendere una sola parola sul fascismo italiano.
Il 10 febbraio (1947), giorno scelto per commemorare gli italiani uccisi e gettati nelle foibe, è in realtà la data in cui vengono sottoscritti i trattati di Parigi, con cui le nazioni vincitrici dettano le condizioni della pace agli alleati della Germania (Italia, Ungheria, Bulgaria, Romania e Finlandia). Il 10 febbraio è la data in cui la delegazione italiana cerca di negoziare mantenendosi in bilico tra la posizione di paese aggressore alleato del nazismo, e paese che si è in parte riscattato con un colpo di coda finale, quando da alleato si è trovato occupato dalla Germania. Il 10 febbraio, per così dire, è la data della resa dei conti, in cui gli Alleati si sono divisi le spoglie dei frutti della politica imperialistica e aggressiva del governo fascista.

Con la ratifica dei trattati, l’Italia è costretta a rinunciare ai possedimenti coloniali (Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia), a cedere alla Grecia le isole del Dodecanneso, a rinunciare a ogni influenza sull’Albania, a cedere alla Jugoslavia i territori che aveva ottenuto in base al trattato di Rapallo del 1920 e la città di Fiume, perdendo anche regioni la cui sovranità italiana era stata sancita prima degli eventi bellici e prima dell’avvento del regime fascista.
Giova ricordare che in virtù delle clausole politiche degli accordi, le nazioni sconfitte si devono impegnare a garantire ai propri cittadini il godimento delle libertà fondamentali, comprese quelle di espressione, di culto, di stampa, e a non sanzionare coloro che durante la guerra avevano svolto azioni partigiane.
E’ previsto inoltre l’impegno a consegnare le persone accusate di aver commesso o ordinato crimini di guerra. L’Italia ottiene in seguito la cancellazione di questa clausola, impegnandosi a provvedere internamente al giudizio dei criminali di guerra. Il lavoro della commissione d’inchiesta italiana, tuttavia, si conclude con l’archiviazione di tutti i capi di accusa.
I governi sanzionati, infine, devono impegnarsi a impedire la riorganizzazione dei movimenti fascisti.
E il fascismo aveva picchiato duramente in quelle regioni. Il 20 settembre 1920, Mussolini, in un discorso tenuto a Pola, afferma:
Abbiamo incendiato l’Avanti di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata a Trieste e l’abbiamo incendiata a Pola. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche
Inizia così l’opera di de-nazionalizzazione di mezzo milione di sloveni e croati che, dopo la fine della Prima guerra mondiale, il nuovo assetto geopolitico aveva assegnato all’Italia, e che doveva portare alla cancellazione dell’identità culturale e linguistica delle popolazioni slovene e croate dell’Istria. Sono distrutti o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata, abolite le scuole, chiusi i giornali, proibito l’uso di lingue diverse dall’italiano, cancellate le insegne pubbliche, i nomi e le indicazioni stradali.
Con la guerra, il governo fascista istituisce tribunali militari per la repressione della resistenza. Quello di Lubiana giudicherà 13.186 persone, pronunciando 83 condanne a morte, 412 ergastoli e oltre 3.000 condanne a pene superiori ai trent’anni di carcere. In 29 mesi di occupazione, in quella sola provincia, saranno fucilati 5.000 civili presi come ostaggi durante i rastrellamenti, a cui si aggiungono circa 200 persone bruciate vive nelle loro case ed altre 7.000, in gran parte anziani, donne e bambini, morte di stenti nei campi di concentramento. Complessivamente oltre 13.000 persone, il 2,6% della popolazione, vengono sterminate in quel territorio.
Come ricorda Umberto Lorenzoni, partigiano e commissario del Battaglione “Castelli” della “Brigata Piave”, zona Cansiglio, da poco scomparso, «così si è allargata quella spirale di odio e di violenze il cui esito finale sono state le foibe. Tutto questo non deve suonare giustificazione del comportamento della dirigenza del movimento partigiano jugoslavo che, nella fase finale del conflitto, abbandonò i principi dell’internazionalismo e sposò la tesi della espansione nazionalista, lasciando libero corso nella Venezia Giulia alla falsa equazione: «italiano uguale fascista» (“Patria indipendente”, 3/2006).
È abbastanza chiaro che mescolare le due date, all’insegna di una commemorazione che accomuni le vittime di tragedie così diverse, significa togliere senso, e quindi intelligenza dei fatti accaduti. Non toglie, però, il nesso della responsabilità di un regime votato al culto della morte, della violenza e della sopraffazione. Se le due vicende, tanto diverse quanto a portata storica, hanno un punto in comune, questo sta nella matrice nazionalista e nella necessità della creazione di un nemico.
Piuttosto, come sostiene Lorenzoni nel medesimo scritto, «dobbiamo impegnarci a rilanciare una forte iniziativa culturale che finalmente faccia conoscere, a tutti gli italiani, le atrocità commesse dal fascismo nelle sue guerre di aggressione. Dobbiamo chiedere, con forza, l’istituzione di una “Giornata della consapevolezza” del male provocato, da queste aggressioni, ai popoli della Cirenaica, dell’Etiopia, della Grecia, della Jugoslavia, perché se vogliamo scongiurare il pericolo del ritorno di questo male bisogna farlo conoscere ed impedire che si continui, intenzionalmente, ad occultarlo».
*L’autrice è documentarista, ha lavorato su temi legati alla Resistenza. È presidente del Comitato provinciale ANPI di Siena