Le geografie critiche di Artsforthecommons

A4C – ArtsForTheCommons: visualizzare la complessità del vivente, per una decolonizzazione della geografia.

“I am not proposing a return to the Stone Age. My intent is not reactionary, not even conservative, but simply subversive. It seems that the utopian imagination is trapped, like capitalism and industrialism and the human population, in a one-way future consisting only of growth. All I’m trying to do is figure out how to put a pig on the tracks
– Ursula K. Le Guin

A4C – ArtsForTheCommons è una piattaforma collaborativa che intende riunire artisti e attivisti su temi legati alle migrazioni, ai confini, alla giustizia ecologica e all’estrattivismo. Fondata dall’artista e attivista ecuadoriana Rosa Jijón, e dall’attivista e ricercatore italiano Francesco Martone ha iniziato le sue attività concentrandosi sulla mobilità umana, le cartografie mediterranee e le narrazioni decoloniali, con installazioni e performance a Roma, Quito e Slovenia [1]. Nel 2019 A4C ha pubblicato un libro su migrazioni e arti contemporanee per la casa editrice italiana ManifestoLibri, dal titolo Dreamland, i confini dell’immaginario”[2]. Il libro è stato poi presentato in varie occasioni con la partecipazione di accademici, critici d’arte, curatori, artisti e attivisti sui diritti dei migranti, tra cui i capitani di Open Arms e Mediterranea.

Negli ultimi anni la ricerca di A4C si è concentrata sugli effetti dell’estrattivismo e della globalizzazione, e in particolare sugli spazi “extrastatali”, come le smart city. Questo lavoro, svolto nella smart city coreana di Song-Do in oltre tre anni ha prodotto una prima mostra alla Bienal NOmade di Guayaquil, Ecuador nel luglio 2021. Intitolata Have a wonderful time” [3] l’opera è  esposta a Quito in ottobre [4]. Il suo scopo è quello di rappresentare come l’espansione esponenziale della finanza globale e delle bolle speculative stia alterando confini e paesaggi, trasformando la natura in una merce e la terra in un bene da sfruttare e monetizzare. Le connessioni ancestrali tra comunità e luoghi vengono rielaborate per dare spazio alla creazione di zone di libero scambio, forme amministrative immateriali e autonome che trascendono i sistemi legali sovrani e creano nuovi corpi e territori, fisici e concettuali.

Inoltre, Song-Do è considerata e vantata come la vetrina della “green economy”, costruita a costo dello spostamento di un delicato ecosistema dove vivevano ben 11 specie di uccelli migratori, tra cui la “Platalea Minor”, un sito di grande importanza per la convenzione di Ramsar. Le centrali a zero emissioni trasformano le maree in energia, distruggendo fragili habitat costieri [5]. Che tipo di tempo meraviglioso è possibile in una città intelligente, o più semplicemente come una città intelligente considera il concetto di tempo? Nei prossimi 70 anni Song-do sarà sostituita da progetti più futuristici, già esposti nel museo della Incheon Free Economic Zone. E poi saranno necessari altri 70 anni per dare una nuova “anima” alla città.  Se la stessa non verrà nel frattempo sommersa dall’innalzamento della superfice del mare a causa dei cambiamenti climatici. Il concetto di tempo è quindi alterato in una città intelligente, poiché il futuro in termini puramente neoliberali deve essere prevedibile, pianificato dall’alto. Tuttavia, come dice il Manifesto for a Necronautical Society: “il tempo è, ed è sempre stato, fuori sesto – una formulazione che rivolge tutta la teleologia, improvvisamente e sostanzialmente, al suo contrario. Il passato non è passato, il futuro si ripiega su sé stesso, e il presente è attraversato da flussi di passato e futuro che lo destabilizzano”.

Have a wonderful time” nasce da un atto di attivismo di uno dei due autori che si è recato più volte a Song-Do negli ultimi anni per sostenere le delegazioni dei popoli indigeni che partecipano alle riunioni del Green Climate Fund (il fondo per il clima che dovrebbe sostenere programmi di attuazione degli impegni presi alla Conferenza ONU di Parigi sui cambiamenti climatici), la cui sede è a Song-Do.  Nei suoi frequenti viaggi, l’autore si è impegnato in esplorazioni e “derive” nella città in costruzione, che è letteralmente cresciuta sotto i suoi occhi e ha raccolto materiali, souvenir, opuscoli di propaganda, immagini, foto, video e suoni.  Il suo corpo ha sfidato la struttura della città intelligente, attraverso una sorta di “flaneur” in uno spazio che inibisce ogni senso di navigazione, e la consapevolezza dello spazio, così come la capacità di sperimentare lo spazio urbano in modo casuale.

Così sono affiorati piccoli dettagli che sembrano insignificanti, e che per contro offrono percorsi critici di esplorazione. Una bandiera ecuadoriana su una limousine nera, parcheggiata presso la sede centrale del governo della Incheon Free Economic Zone, svela la storia del sogno fallito di esportare il modello di smart city nelle Ande ecuadoriane, con la Città della Conoscenza, Yachay. I giardinieri che falciano i prati del Song-do Central Park, gli elettricisti che riparano un’insegna al neon su uno dei bar rimasti nella città vecchia, due donne anziane che raccolgono erbe sotto i nuovi grattacieli. La resistenza di un gruppo di attivisti per salvare le specie di uccelli migratori colpiti dalla costruzione della città. Tutti scompaiono in questo spazio segregato dove coloro che svolgono il lavoro quotidiano per mantenere la città sono resi invisibili. Atti e segni di resistenza o di esistenza portano alla luce ciò che la città intelligente, per sua natura, rende invisibile. Un gruppo di studenti che giocano a calcio “violano” la città intelligente attraverso il gioco, le candele accese in un tempio buddista ricordano un passato che sembra essere andato per sempre.  I loro atti e l’atto di portarli alla luce sono sovversivi sia in termini politici che estetici.

Lo stesso accade quando si “hackerano” le tecnologie attuali come il GIS e il GPS in riferimento ai territori minacciati dall’espansione dell’estrattivismo in fragili ecosistemi che ospitano specie in pericolo e dove popoli e comunità indigene vivono in armonia da tempi immemorabili. Territori e luoghi che sono solo marcatori su mappe tracciate da GIS e immagini satellitari per identificare nuove zone di sacrificio o aree di espansione ed estrazione.

La geografia, e le tecniche geospaziali (compresi in tempi più recenti i sistemi di geoposizionamento come il GPS) sono sempre state discipline legate al colonialismo, alla spinta di una élite globale, inizialmente europea, a misurare il pianeta. Gli strumenti geospaziali sono stati utilizzati fin dal XV secolo per ridefinire i territori da porre sotto il controllo e la dominazione europea, mentre le mappe sono state uno strumento per imporre la schiavitù e accaparrarsi terre in territori lontani, espandendo al contempo la dominazione coloniale e capitalista. Una dominazione che ha seguito diverse fasi, dal genocidio, all’estrazione di materiali, all’espansione delle monocolture. Fino alla colonizzazione della Natura, e al dominio di un’unica epistemologia antropocentrica che nega il diritto della Natura e degli ecosistemi a prosperare, sopravvivere e riprodursi. È quello che Macarena Gomez-Barris descrive nel suo “The extractive zone, Social Ecologies and Decolonial Perspectives” come “colonialismo digitale e tecnologico” in cui “la sorveglianza, la raccolta di dati e la mappatura dei territori ricchi di risorse lavorano insieme come complessità interconnesse, e queste forme coordinate di dominio funzionano attraverso la mappatura delle aree ricche di risorse del mondo e servono come porte visive per gli investimenti statali multinazionali e internazionali nelle industrie estrattive”.(traduzione degli autori)[6]

Parallelamente alla “geografia” e alla cartografia ufficiale, i sistemi di geo-posizionamento hanno iniziato ad essere utilizzati in maniera critica soprattutto da comunità di popoli indigeni che “hackerano” la modalità dominante della cartografia, stimolando un significativo processo di decolonizzazione della cartografia. Il loro scopo è quello di “svelare” le storie di un luogo per rivisitare la prospettiva dominante su cui viene rappresentato il mondo.  La geografia critica e la cartografia assumono così una prospettiva decoloniale fondata sulla “agency” di quelle comunità e popoli “fino ad allora subalterni” che si appropriano di quelle tecnologie per offrire una diversa visione del mondo, dove le mappe sono composte da sistemi di conoscenza scientifica e tradizionale, cosmologie e sistemi di sussistenza tradizionali collettivi. Scardinando così una visione antropocentrica dello spazio e degli ecosistemi, disvelandone la complessità, le interconnessioni, i valori spirituali ed ancestrali.

Un processo che ha parallelamente dato vita ad un movimento globale per i diritti della Natura. All’indomani della Conferenza Mondiale dei Popoli sul Cambiamento Climatico e i Diritti della Madre Terra tenutasi a Cochabamba, Bolivia nel 2010 e sulla base della Dichiarazione Universale sui Diritti della Madre Terra ivi adottata, movimenti sociali, comunità e accademici hanno iniziato a sviluppare e implementare strumenti legali per il riconoscimento dei diritti della Natura, la cosiddetta Giurisprudenza della Terra. Questo movimento nasce sulla scia dell’inclusione , per la prima volta nella stria, dei diritti della Natura in una costituzione, quella dell’Ecuador e su sviluppi simili in Bolivia oltre che da azioni legali per il riconoscimento dei diritti o della personalità giuridica di ecosistemi in pericolo. Prima in Nuova Zelanda con il fiume Whanganui, e in Ecuador con il fiume Vilcabamba, così come in Colombia prima con il fiume Atrato o in Bangla Desh e in India con lo Yamuna e il Gange, i fiumi e bacini idrologici hanno ottenuto la personalità giuridica o sono stati riconosciuti come esseri viventi con diritti propri. Sono state create coalizioni globali come la GARN[7] (Global Alliance on the Rights of Nature) ed il Tribunale Internazionale sui Diritti della Natura[8], che ha analizzato molti casi nelle sue sessioni fino ad oggi. Tuttavia, è con i fiumi e i loro diritti che è stata lanciata la spinta a sviluppare sistemi di diritto, e nuove categorie o diritti, che completano i tradizionali sistemi di diritti umani antropocentrici con un approccio più ecocentrico. Vale a tal riguardo ricordare la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Fiumi[9].

L’hacking delle tecnologie geospaziali può quindi offrire la possibilità al non-umano di essere rappresentato o di emergere, e quindi sfidare l’epistemologia dominante, creando una sorta di circolo “posizionamento-spostamento” mentre la definizione di un luogo porta con sé un “spostamento” della sua rappresentazione canonica. Ciò a sua volta permetterebbe – parafrasando le parole di Macarena Gomez-Barris – di far emergere la prospettiva “sommersa” ed offrire gli strumenti necessari per stabilire una relazione tra l’uomo e la Natura in quelli che lei descrive come: “spazi di transizione e immateriali come geografie che non può essere completamente contenuto dall’etnocentrismo dello specismo, dall’oggettivazione scientifica o dalle tecnocrazie estrattive che fanno avanzare i giacimenti petroliferi, costruiscono oleodotti, deviano e riducono i fiumi, o franare montagne attraverso l’estrazione mineraria. Vedere e ascoltare questi mondi presenta alternative non dipendenti dal percorso alla valutazione capitalista ed estrattiva”. Il filosofo camerunense Achille Mbembe chiude il suo  saggio “Brutalisme” accennando alla necessità di ricostruire le relazioni tra l’uomo e le altre forme di vita, in particolare: “negoziare e risolvere i conflitti che sorgono intorno a modi di vivere nel mondo diversi e antagonisti, verso un ampia ristrutturazione delle relazioni. La riparazione richiede la rinuncia a forme di appropriazione esclusiva, riconoscendo l’esistenza dell’incalcolabile e dell’inappropriato, e che di conseguenza non vi deve essere possesso o occupazione esclusiva della Terra. Come istanza sovrana essa appartiene solo a se stessa, e la sua riserva di materia germinale non può essere appropriata né ora né per l’eternità” (traduzione degli autori).

Reinterpretare uno spazio e un ecosistema usando il GPS in modo critico come fanno i popoli indigeni con la cartografia critica e allo stesso tempo riprodurre quegli spazi in modo tale che questi possano essere riassemblati in una nuova totalità può così contribuire a fornire una potenziale nuova visione dei diversi mondi del mondo. Trasformare quelle coordinate in suono, e poi in note e poi in una composizione da suonare ha lo scopo di svelare una realtà diversa da quella che viene normalmente identificata dall’uso delle coordinate GPS e una modalità    alternativa di relazione tra umano e il resto del vivente. Quindi, “hackerare” uno strumento utilizzato per colonizzare un territorio offre la possibilità di decolonizzare e de-umanizzare la natura e raccontare una storia diversa, quella degli ecosistemi nella loro complessità e nei loro diritti intrinseci. Questo il senso del lavoro “Vilcabamba. De Iura Fluminis et Terrae[10] che parteciperà alla prossima Biennale di Sydney nel marzo 2022 dedicata ai fiumi [11].

Altri due recenti lavori  riguardano le lotte urbane contro l’estrattivismo e sono idealmente connessi. Il primo è “Quito sin mineria”[12] un video girato a Pacto, Ecuador, nel territorio urbano della sua capitale Quito, in un presidio permanente contro l’estrazione dell’oro e in occasione di una manifestazione a Quito per chiedere una consultazione cittadina contro l’estrazione mineraria nel Chocó andino. Oltre ai diritti della natura la costituzione ecuadoriana riconosce il diritto alla resistenza, il diritto alla consultazione pubblica, tutti e tre invocati dalle comunità in resistenza. La seconda è una performance, “Lacus, legalis naturae[13], organizzata insieme al collettivo artistico italiano Stalker, e che ha avuto luogo al lago Bullicante (Ex-Snia) nella periferia di Roma nel corso della quale è stata letta la dichiarazione dei diritti del lago Erie. Il lago è sorto spontaneamente in un’area originariamente occupata da una fabbrica di tessuti sintetici e poi occupata da movimenti sociali. Da allora è fiorito di biodiversità fino a diventare l’unico lago urbano di Roma, e allo stesso tempo minacciato dall’espansione di interessi speculativi. Negli stessi giorni in cui è stato girato il video a Pacto, i movimenti a Roma bloccavano le ruspe che cercavano di abbattere alberi e preparare il terreno per la costruzione.  

 

[1] www.artsforthecommons.wordpress.com

[2] https://www.lavoroculturale.org/ai-confini-dellimmaginario/rosa-jijon-e-francesco-martone/2020/

[3] https://vimeo.com/558203388

[4] https://n24galeria.com/project/have-a-wonderful-time/

[5] https://www.qcodemag.it/archivio/2018/04/09/song-do-yachay-il-paradosso-della-metropoli-perfetta/

[6] Macarena Gomez-Barris: “The Extractive Zone

Social Ecologies and Decolonial Perspectives” Duke University Press, Settembre 2017

[7] www.rightsfnature.org

[8] www.rightsofnaturetribunal.org

[9] www.rightsofrivers.org

[10] www.voicesofrivers.net

[11] www.biennaleofsydney.art

[12] https://vimeo.com/550300864

[13] https://vimeo.com/592015244

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