Quando il 16 agosto i Talebani hanno preso il controllo dell’Afghanistan, c’è stato un senso di déjà-vu. Vent’anni dopo l’undici settembre – nonostante le critiche al femminismo bianco che ha giustificato la “Guerra al Terrore” in nome della salvezza delle donne musulmane siano ormai consolidate – la storia si ripete. Ho seguito le notizie attraverso i canali di informazione mainstream – CNN, Sky News, BBC – che mostravano gli appelli delle giornaliste e delle artiste afghane. Piangevano e supplicavano la NATO e il mondo occidentale di proteggerle dai Talebani, come avevano promesso di fare già due decenni prima. Quello che mi ha colpita è stata l’attenzione dei media, tutta rivolta alle donne: mi è sembrata la stessa preoccupazione strumentale esibita anni fa, la stessa che aveva spianato la strada all’invasione statunitense dell’Afghanistan.
Le donne afghane si sono sentite tradite dai negoziati che gli Stati Uniti hanno condotto con i Talebani alle spalle del governo afghano per salvaguardare il cosiddetto processo di peace building. L’attivista Mahbouba Seraj, fondatrice dell’Afghan Women’s Network, lo ha detto direttamente, chiedendo agli uomini di potere che decidono: “Siamo… solo pedine nelle vostre mani?” Il tradimento statunitense è stato poi confermato dal presidente Biden, quando ha affermato che “la ricostruzione nazionale post-bellica” non era tra gli obiettivi della missione statunitense. C’è un po’ di verità in queste parole, nel senso che, nonostante l’uso strumentale del “mito” dell’emancipazione femminile per giustificare la guerra in Afghanistan, questo non ha mai rappresentato un interesse reale per gli Stati Uniti. Tuttavia, l’affermazione di Biden è allo stesso tempo una menzogna, dal momento che la ricostruzione nazionale sarebbe stata necessaria per liberare le donne afghane e permettere loro di scegliere senza paura se darsi lo smalto alle unghie o meno, come l’allora first lady Laura Bush aveva evidenziato. Nel 2017, questa aveva addirittura pubblicato con il George W. Bush Institute un libro dal titolo We Are Afghan Women: Voices of Hope, che presentava le storie di 28 donne afghane e articolava chiaramente questa promessa di liberazione e sicurezza. Comunque, i recenti negoziati tra i Talebani e gli Stati Uniti, e il sottrarsi di questi ultimi alla responsabilità di ricostruire una nazione dopo averla invasa, costituiscono un tradimento verso i molti che hanno creduto alla narrazione statunitense.
Nondimeno, le descrizioni fatte dalle donne afghane degli atti orribili perpetrati dai Talebani tanto durante il precedente regime quanto in tempi più recenti, così come trasmesse dai media occidentali, sono rivoltanti e lasciano impietriti. A giugno, un anziano leader talebano ha ordinato alle donne nubili tra i 14 e i 40 anni di sposare i combattenti dopo la loro conquista della provincia settentrionale di Takhar. Un uomo del distretto di Rustaq è stato obbligato a cedere la figlia quindicenne ai miliziani. Dopo essersi assicurati il controllo di Kandahar in luglio, un talebano ha rastrellato le impiegate da un ufficio e ordinato che fossero i loro parenti maschi a prenderne il posto. Nonostante le rassicurazioni dei portavoce talebani, la maggior parte delle donne non crede affatto che il nuovo governo consentirà loro di lavorare e ricevere un’istruzione. Molte temono che l’esplicita richiesta di “mogli” preannunci leggi più estremiste rispetto alle precedenti, probabilmente per influenza dell’ISIS, che praticava la schiavitù sessuale sulle donne in Iraq e Siria. Le donne sono già state avvertite pubblicamente di coprirsi il volto per la loro incolumità. Quelle cresciute negli ultimi vent’anni hanno vissuto in modo differente rispetto alla generazione precedente che ha conosciuto la legge talebana, e hanno paura di perdere tutto.
Queste notizie terribili hanno fatto il giro del mondo: lo vedo, nel mio piccolo, dalle bacheche dei miei canali social, inondate dagli appelli di donne liberali bianche che si stracciano le vesti per il destino delle donne afghane. Ma, oltre a loro, sono tante le donne che esprimono sincera preoccupazione e vicinanza, e che si ingegnano per aiutarle.
Anch’io ho paura per le donne afghane e i loro diritti. Questo tipo di cambi di regime è sempre sanguinoso e, considerando i precedenti, è impossibile credere che i Talebani risparmieranno la libertà o addirittura la vita delle donne. La mia paura per le donne afghane, tuttavia, non cancella i decenni di povertà e le migliaia di morti causati dalla guerra e dalla lunga vicenda coloniale. In particolare, non ci si può dimenticare della distruzione perpetrata in nome della Guerra al Terrore da parte statunitense. So benissimo che le donne musulmane in Afghanistan, in Arabia Saudita, in occidente, nei campi di internamento per Uiguri in Cina, le donne Rohingya, così come le donne non musulmane di colore e/o queer, hanno bisogno di solidarietà e sostegno nelle loro lotte. Non posso smettere di pensare alle donne Rohingya ripetutamente stuprate che vivono ai margini della società bengalese. Oggi passo notti insonni come le passavo tempo fa dopo aver letto le esperienze di violenza delle donne rinchiuse nei campi per Uiguri, e non mi ricordo di molte donne bianche addolorate o preoccupate per la sorte di queste. Questa solidarietà selettiva ci dice qualcosa circa l’uso strumentale e la mercificazione dell’interesse per la violenza sulle donne.
Nel 2013, l’antropologa Lila Abu-Lughod smontò le femministe occidentali e la loro “missione salvifica” verso donne musulmane, da proteggere dal fondamentalismo islamico, nel suo libro Do Muslim Women Need Saving? (Harvard University Press, 2013). Oggi tutti i media mainstream occidentali, raccontando della vittoria talebana, hanno deciso che le donne afghane hanno effettivamente bisogno di essere salvate. Ma queste non hanno bisogno di protezione; hanno bisogno piuttosto di solidarietà. L’impulso di “salvare le donne musulmane” e compatirle è il frutto della conoscenza coloniale, che nasconde così le profonde diseguaglianze strutturali e di genere interne allo stesso mondo occidentale. Questa retorica salvifica è intimamente legata alla missione civilizzatrice dell’egemonia coloniale, che racconta della superiorità occidentale nel campo delle gerarchie di genere. Questa stabilisce che le società occidentali hanno sconfitto la subordinazione delle donne, che le donne del sud del mondo devono mettersi in pari, e che tale progresso può essere raggiunto solo seguendo il percorso intrapreso dalle donne bianche occidentali. Si ignora che il patriarcato produce disuguaglianze in modo diverso perché esso esiste in società differenti. È un guardare dall’alto in basso le donne musulmane, adottando un punto di vista razzista e suprematista bianco, che non riconosce i decenni di lavoro fatto dal femminismo postcoloniale per rivelare i limiti del complesso salvifico del femminismo bianco.
L’eco della missione salvifica del colonialismo può sopravvivere nonostante l’indipendenza nazionale. Quando ero bambina, essa non era completamente scomparsa: sono cresciuta sentendo frasi come “ma ci hanno dato le ferrovie, l’istruzione e la disciplina!”. Oggi, grazie alla critica postcoloniale, il concetto di “colonizzazione della mente” e lo smantellamento dell’immagine redentrice della colonizzazione europea sono perlomeno consolidati. La citazione di Spivak circa “il maschio bianco che salva la donna scura dall’uomo scuro” (in Can The Subaltern Speak?) divenne una delle frasi più ricorrenti nei circoli accademici e intellettuali. Non ero ancora nata al tempo della dominazione britannica, ma sono grande abbastanza per ricordare le conseguenze dell’undici settembre e della “missione per salvare le donne” con la guerra in Afghanistan.
All’opposto della paura che i diritti delle donne vengano violati dai Talebani, alcuni rinomati studiosi di sinistra hanno interpretato la vittoria talebana come mezzo per l’emancipazione popolare e come un nuovo inizio per il popolo afghano. Slavoj Žižek, un filosofo famoso tra molti studiosi maschi che conosco, la sta già immaginando come la “vendetta dei repressi in forma di azione collettiva ed emancipatrice”. Interpretazioni simili sono proposte anche da altri studiosi maschi cosiddetti postcoloniali che vedono l’occupazione talebana come la fine di una lunga storia di colonizzazione dell’Afghanistan, che va dall’invasione britannica all’imperialismo statunitense. Questi studiosi e intellettuali ignorano il fatto che quello che loro considerano come il raggiungimento della libertà in Afghanistan, ammesso che sia così, significa libertà per meno della metà della popolazione nazionale. Le donne e le minoranze sessuali, che hanno combattuto per decenni per la loro libertà, sono interamente cancellate da questa narrazione, come se non avessero i requisiti necessari per essere oppresse anche loro.
Per di più, queste posizioni confondono la fine del colonialismo con un cambio di regime. Ignorano deliberatamente come le teorie femministe e queer antimperialiste abbiano problematizzato la cancellazione della storia e del protagonismo dei gruppi emarginati tanto dalla narrazione coloniale bianca, quanto da quella nazionalista indigena e postcoloniale. Non comprendono che il colonialismo può essere perseguito da gente di ogni colore di pelle e nazionalità. In risposta a queste false narrazioni di decolonizzazione, Priyamvada Gopal ha twittato che “invadere, distruggere, e poi lasciare i nativi in un bagno di sangue e senza più niente è parte del dispositivo imperiale, non la sua fine”, affermando inoltre che “ogni reale impegno per la ‘decolonizzazione’ deve coinvolgere una valutazione critica non solo del colonialismo ma anche degli altri regimi oppressivi che lo intersecano, dal patriarcato al sistema delle caste, dal maschilismo allo sciovinismo religioso”. I Talebani sono una creazione della colonizzazione e dell’imperialismo, che hanno beneficiato di patriarcato e fondamentalismo religioso: non sono affatto agenti antimperiali. Nel nome di una posizione antimperialista, questi intellettuali (perlopiù) maschi ignorano l’effetto deleterio del fondamentalismo sulle donne.
Le donne afghane lottano per i loro diritti sia contro l’imperialismo sia contro l’oppressione fondamentalista. Al di là della retorica salvifica occidentale, l’unico modo per aiutarle è prendere una posizione solidale con la loro lotta. Nel mondo, le femministe fanno sentire la propria voce in proposito. Nandini Dhar, per esempio, spiega in un post su Facebook che “[quando] un mondo diviso in e tra imperialisti e fondamentalisti sembra non lasciarci spazio per agire, bisogna condannare entrambi. La questione non è’ ‘o, o’. La questione è ‘né, né’”. Le femministe – che, tuttavia, rimangono inascoltate dalla maggior parte dei media mainstream – rifiutano tanto la missione salvatrice del femminismo bianco e la una funzione ancillare alla guerra imperiale, quanto la sinistra che cancella le donne e il genere dalla politica.
È ora di finirla con la retorica del salvare le donne afghane per costruire, invece, una solidarietà femminista transnazionale che non possa essere usata per mercificare la loro vulnerabilità a vantaggio della macchina della guerra. È tempo di prendere atto degli errori commessi per non ripeterli. È tempo di prendere le distanze dai poteri imperialisti e colonialisti, dai femminismi bianchi a questi alleati e dai progressisti che vedono nei Talebani dei combattenti per la libertà. Creare una solidarietà femminista anticoloniale, che può fare più rumore rispetto alle narrazioni salvifiche occidentali e alle interpretazioni maschiliste di sinistra, è il primo passo per ottenere questo risultato.
Articolo originale al link https://shuddhashar.com/do-afghan-women-need-saving/, pubblicato il 27 agosto 2021. Tradotto da Giacomo Tagliani e Paola Rivetti.