Le bombe, la rassegnazione e poi il miele. Bianciardi verso il 25 aprile

Quest’anno il lavoro culturale festeggia il 25 aprile con un testimone d’eccezione, Luciano Bianciardi.

Alla fine del 1943 lo scrittore grossetano venne chiamato alle armi. Ricevuto l’addestramento partì per la Puglia, dove visse il bombardamento di Foggia (22 luglio), la caduta del regime (25 luglio), l’armistizio e lo sbando delle truppe italiane (8 settembre), l’arrivo dei battaglioni inglesi, a uno dei quali si aggregherà come interprete fino alla fine della guerra. I brani che seguono sono tratti dai suoi Diari di guerra 1944-1946 e dal racconto Natale con il miele (1965): Bianciardi giovane soldato con vaghe idee liberal-socialiste percorre le strade di un paesaggio lunare, fitte di cadaveri e devastazione; il lusso di un po’ di miele con la ricotta in un Natale ancora di guerra, ma da cobelligerante. L’impotenza di fronte all’incontro con l’onnipervasività della morte, la speranza di un avvenire di pace, l’importanza della scoperta di un alveare di fronte ai grandi accadimenti della storia. Una lettura ironica dell’orrore della guerra, quella bianciardiana che qui vi proponiamo, per puntellare attivamente la memoria della Liberazione dal nazifascismo, lontano dalla mummificazione delle celebrazioni ufficiali.

Da Diari di guerra 1944-1946 in L’antimeridiano. Opere complete. Volume primo, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, Isbn Edizioni, pp. 1978-1983

Nella fattoria dove ci eravamo spostati il mio plotone alloggiò in una stalla, gli altri in certi ripostigli per le macchine agricole. Vicino a noi cinquanta prigionieri sudafricani, tutti bei ragazzoni alti e biondi. Il rancio lo andavamo a prendere alle vecchie casematte, distanti quattro chilometri: in totale sedici chilometri al giorno con la gavetta in mano, nella seconda metà di luglio, a Foggia. […]

Poi il 22, la giornata nera. […] Il bombardamento durò (tre ondate a breve distanza) circa mezz’ora: mi parve colorito di un certo romanticismo ed ero contento. Nel pomeriggio cambiai tono. […]

Il bombardamento ha un senso tutto particolare originalissimo: credo che non sarebbe possibile creare artificialmente una città bombardata. Particolarissime buche, alberi schiantati in una maniera inimitabile, case sfondate tutte allo stesso modo ed anche i morti, animali e uomini, erano caratteristici. Il volto scuro, la pelle colorita di un bruno scuro, come se fossero stati rotolati nella polvere, i cavalli con la pancia gonfia, enorme. […]

Intorno al palazzo Incis c’erano molti cadaveri. Il primo che vidi era un ragazzo di circa diciassette anni, con la carne bruciata, cotta dall’esplosione. Contro il muro un ammasso di carne, stoffa e capelli (seppi poi che era una donna). Dall’altra parte un soldato con le gambe fratturate. Cominciava il lavoro. […] Ricordo un cadavere che spinsi con una pala sopra la persiana, carne e sangue che rimaneva attaccato all’asfalto. Sentivo che lo stomaco cedeva, non potevo continuare: pregai i miei compagni di risparmiarmi quel lavoro infame e mi incaricai di tener lontani i curiosi. Non avevo avuto paura di morire ma non me la sentivo di toccare i morti. Quella morte nel suo aspetto più brutale e più osceno mi faceva male. Ricordo una vecchia col pugno stretto rivolto in alto, pareva una maledizione. E una ragazza bellissima, intatta (l’esplosione aveva rovinato dentro, evidentemente), seminuda, con le gambe aperte; tentarono di congiungerle, ma la morte l’aveva irrigidita così. La coprirono con un altro cadavere.

Tre bambini distesi sul marciapiede, ed un uomo che piangeva, con un dolore abbandonato e senza speranze. Presero i tre cadaveri e li gettarono sul carro: la scena mi fece quasi impazzire e ordinai gridando, bestemmiando a due signori di portar via il padre. Io stesso lo presi per un braccio, con violenza e lo tirai via.

Non c’era altro da fare. […]

***

E cominciò a circolare la voce che Mussolini se n’era andato, dapprima vaga, poi più insistente. Cominciammo a crederci, e vedevamo la fine di tante sciagure. Mi rialzai, presi il mio carico, raggiunsi la stazione. In treno, rannicchiato sopra una panca, mi addormentai col solito sonno duro, completo, incosciente. Al mattino, a Lecce, i giornali confermavano la grande notizia. “La guerra continua” concludeva il comunicato, “Ma per poco” dicevamo noi. Ed infatti a Copertino aspettammo l’armistizio, ma siccome non si vedeva nulla, decidemmo di non aspettarlo più. Poi si sparse la voce di un prossimo ritorno a Stia, ma la voce fu smentita e ci rassegnammo a restare. Poi lo sbarco in Calabria, e ci rassegnammo a non tornare mai più. Poi l’armistizio, la speranza (quasi certezza questa volta) di tornare a casa, ma anche allora nulla, e ci rassegnammo a restare ancora. Per quanto? Chissà!
Ci rassegnammo anche a non aver più notizie da casa, a sentire che le nostre città andavano in aria e che la nostra gente moriva.

Ci siamo rassegnati a troppe cose, e siccome rinunciare è bello, ma non serve più a nulla quando non c’è più nulla a cui rinunciare, visto che non sarebbero rimasti forse neppure gli occhi per pianger (o il culo per cacare, tanto per fare uso di un’espressione equivalente, ma molto meno retorica e molto più espressiva) dicemmo a noi stessi che probabilmente ci avevano preso in giro e decidemmo di farla finita. Tanto è vero che, appena possibile, abbiamo rinunciato anche alla “dignità del signor ufficiale” e ce ne siamo andati a fare i pastori, gli attori, gli interpreti, i cuochi, i camerieri, i mandriani, gli insegnanti, i manovali, i meccanici, tutto quello che potesse permetterci di non portare più le stellette addosso.

***

Da Natale con il miele in L’antimeridiano. Opere complete. Volume primo, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, Isbn Edizioni, pp. 1701-1716

Ecco fatto: entravo nella maggiore età, caporal maggiore io stesso dell’esercito pugliese, piccolo ma già cobelligerante con le più gigantesche armate del mondo, futuro cittadino di uno stato democratico. E forse anche repubblicano, se dopo la liberazione di Roma sballava quella storia della luogotenenza voluta soprattutto dal senatore B. Croce, preoccupato che l’Italia ritornasse come ai tempi di G. Giolitti. Forse uno stato democratico-repubblicano e basta a sentire il dott. Cifarelli, su a Bari, forse addirittura democratico-repubblicano-popolare, se si voleva dare retta a Velio Spano e a quell’altro, Ercole Ercoli, annunciato già in arrivo dalla Crimea, il quale avrebbe portato, dicevano, tante belle novità anche per noi soldati, insieme alla rivelazione del suo nome vero, perché è impossibile, a lume di naso, che uno si chiami proprio Ercole Ercoli. Cittadino maggiorenne di questo stato, io avevo già diritto al voto, anche se per adesso nessuno parlava di elezioni, e col mio voto avrei deciso se farlo essere repubblicano, e magari popolar-democratico. Quel voto mio contava quanto il voto del senatore B. Croce, del dott. M. Cifarelli, e persino di Ercole Ercoli. Era, il mio privato ventunesimo natale, una solennità irripetibile, che forse bisognava celebrare in qualche modo. […]

La masseria era un edificio rustico a un solo piano, col tetto a terrazza, i comignoli, ma di colombi nessuna traccia. Stavamo per ridiscendere, quando Carlo vide un’ape: usciva a volo da una fessura del muro. Andò a guardare da vicino. Dietro la fessura ci doveva essere un alveare, perché battendo con le nocche suonava come se fosse vuoto.

«Guarda» fece subito Carlo. «Scendi giù e chiama anche Pasqualetti. Portate una coperta.» […]
Pasqualetti era fortissimo, ma pesava un quintale e durò fatica a venire su per il rampicante, che minacciò di svellersi, di scosciarsi. Io portavo la coperta in spalla, e avevo in tasca mezzo pacchetto di Milit. […] Si era accostato al muro, mise la bocca alla fessura e ci soffiò dentro il fumo. Ora cominciavo a capire, e a turno ognuno espulse la sua boccata là dentro. […] Quando a Carlo parve smettemmo le fumigazioni. Una lastra di pietra, mascherata dall’intonaco, chiudeva l’imbocco del rustico alveare. Carlo scalzò in giro con la punta della baionetta, poi fece leva, e finalmente comparve il favo.

«A me la coperta» comandò Carlo. Se la mise in testa, la drappeggiò intorno al viso, come fanno le contadine di quelle parti, in modo da lasciare scoperti appena appena gli occhi e il naso adunco. Pareva la Befana. Anche le mani teneva sotto la coperta, impugnando un pezzo di legno a uncino e facendo forza sul favo per staccarlo. Non fu semplice, ma alla fine crollò a terra. Qualche ape tentò di levarsi a volo per assalirci, ma ormai rintontita dal fumo ricadde pesante. […]

Rimediai da un contadino mezza fiscella di ricotta e l’impastai con il miele. Ricordavo che a casa mia usa questo tipo di leccornia, ricotta impastata con zucchero e un po’ di caffè, o anche di cacao, ma poco perché è tanto caloroso per i bambini. Si mangia spalmato sul pane. Col miele era una novità. Io stavo appunto impastando dentro il coperchio della gavetta, facevo forza coi denti della forchetta contro la pasta densa della ricotta, che in Puglia è più burrosa che da noi, e ha un sapore più forte, quasi di formaggio. Ogni tanto assaggiavo, trattenendo le lacrime, per quanto era buona. Stavo seduto sul pagliericcio, e feci male. Perché intorno mi si formò quasi subito un capannello di ghiottoni che stavano a guardarmi senza dire niente. […]

Traversai lo spiazzo in mezzo alle baracche, girai dietro a quella vuota, buia, mezza distrutta per fare legna da ardere, raggiunsi le latrine, mi sedetti in un angolo con le spalle alla stuoia, e mangiavo il miele con la ricotta. Era freddo, ma non ci feci caso.

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