Per classificare il mondo c’è bisogno di metodo. Per ordinare il futuro post-pandemia, di una biblioteca.
Le biblioteche non sono immuni a questi tempi incerti. Tutti i luoghi della cultura, tradizionali o innovativi, sono in sofferenza durante questa pandemia, luoghi caratterizzati da una forte attenzione mediatica e da una scarsa tutela sociale. In poco tempo il virus ha esasperato problemi pre-esistenti e preteso soluzioni nuove e differenti per non far annichilire questi presidi di prossimità. Tempi, linguaggi e metodi con cui la biblioteca comunicava sé stessa sono necessariamente mutati e messi in discussione. In breve tempo, e molto spesso acriticamente, le biblioteche hanno dovuto trovare nell’azione comunicativa metodologie altre per tentare di coinvolgere le proprie utenze. Molte biblioteche italiane scontano un forte divario digitale e di divulgazione, un utilizzo carente dei servizi online e poca attenzione all’innovazione. Questo è dovuto a fattori differenti, burocrazia e burocratismo, approccio conservativistico, la mancanza di mezzi, studio e infrastrutture. Il ricorso obbligato al digitale di queste settimane e la propensione dei bibliotecari a muoversi velocemente come rete di saperi ha portato, nondimeno, in breve tempo al superamento e al rilancio delle attività in chiave nuova, empatica, e coinvolgente. Le biblioteche stanno esprimendo forme differenti e fluide del loro agire, resistenti e innovative. Proponendo contenuti digitali, cassette degli attrezzi, didattica a distanza, visite virtuali, incontri, e inventando modi per coinvolgere il proprio pubblico, provano a sopperire a una mancata fisicità.
Espandendo i propri orizzonti cercano nella contemporaneità digitale una chiave per non soccombere. Alcune biblioteche sparse per l’Italia sulla scia delle librerie hanno aperto, o sono state spinte dalle proprie amministrazioni, al prestito a domicilio in varie forme e dimensioni. Questo ha portato a un serrato dibattito, senza soluzione, sulla liceità e lungimiranza di questa azione. Sia che venga appoggiata questa scelta o meno è un altro modo per rivendicare la propria esistenza e il proprio servizio pubblico in questo tempo incerto. Chiaro e lampante, però, è che questa crisi ha ampliato la portata dei servizi online, rilevando come sempre più le biblioteche siano, e siano percepite, come luoghi ibridi del fare e del pensare, dove il prestito è solo una delle componenti attive che compongono un insieme più ampio e variegato di attività.
In questi giorni di crisi la maggioranza delle biblioteche sono attive per continuare a offrire un peculiare contributo alle proprie basi di prossimità. Nel sapere, nella cura, nel benessere e nella ricerca continua di un accesso il più diffuso, aperto, possibile, ed orizzontale, alla conoscenza e al conosciuto. Esserci per non essere dimenticati. Questi presidi culturali si interrogano costantemente su che forma avrà il proprio lavoro e il proprio agire nel contesto del domani, consapevoli che il mutamento prodotto dal virus sarà qualcosa di inevitabile, profondo e da interrogare. Un settore quello culturale già minato da anni di precarizzazione del lavoro, contrattualistica scadente, cronica e fisiologica scarsità di fondi, privatizzazione dei beni pubblici, ricorso al volontariato per sopperire alla mancanza di personale professionalmente addestrato, carenza di concorsi, poca attenzione verso il mondo che ruota attorno all’open access e al pubblico dominio, carenza legislativa e di tutela, perdita di contatto, ipertrofia comunicativa, mancanza di visione e rappresentanza nel discorso pubblico. Questi problemi si intrecciano e si ibridano con il portato del virus allarmando i lavoratori e i fruitori di questi spazi sia fisici che digitali. Come sarà la fase due dell’epidemia al momento nessuno può saperlo con chiarezza. L’unica certezza è che questa fase sarà complicata, una sfida che vedrà un tipo di lavoro mutato ovunque. Nelle biblioteche sarà necessario porre maggiore attenzione a come si lavorerà, se si lavorerà. Probabilmente ci sarà un prezzo alto da pagare, molte biblioteche chiuderanno e molti bibliotecari verranno assegnati a compiti non pertinenti, oppure i meno tutelati faticheranno, ancor di più, a trovare lavoro. Tutto ciò avverrà se non supportati da una chiara e attiva volontà sociale, popolare e culturale per preservare questi spazi, queste piazze del sapere, luoghi del tutto e di tutti. Per evitare ciò bisognerà mantenere vigile e attenta l’attenzione su problemi e sui luoghi, favorendo la creazione di reti trasversali a tutti i lavoratori della conoscenza per rivendicare spazi, linguaggi e posizioni nuove. Bisognerà rilanciare in maniera costruttiva analisi e sperimentazioni pensando, sviluppando nuovi metodi e nuove grammatiche per abitare spazi diversi.
Altro problema dirimente emerso è quello della omologazione consumistica e culturale. Nel discorso pubblico e politico al tempo del virus la cultura non viene, quasi mai, considerata in maniera approfondita a fronte del suo utilizzo massivo nel discorso mediatico. Il bene culturale non viene valutato nella sua complessità ma solo nel suo effetto immanente Il virus produce distanziamento e desertificazione, creando un proprio lessico ed un immaginario particolare che riduce nella forma contenuti complessi. Un nuovo vocabolario distorto che impone un linguaggio, una visione propri e segnanti dove è l’aspetto scenico, utilitaristico ed economico, a muovere tutte le analisi. A voler seguire questa sclerotizzazione i rischi sono molteplici. Da un lato vi è la marginalizzazione nel discorso collettivo di istanze complesse e attuali, come l’accesso alla cultura, e dall’altro il rischio di creare molti teatri ma nessuno spettatore. Spinti da un generico imperativo morale molti degli sforzi attuali sono votati alla comunicazione. La qualità e permeanza del lavoro viene misurata in visualizzazioni e like, dimenticandosi sovente cosa e perché e soprattutto a chi si vuole comunicare. Non bisogna mai dimenticare che la maggioranza degli utenti delle biblioteche fatica ad accedere con agilità alle risorse in rete, questo avviene per poca familiarità con gli strumenti, per mancanza di studi e infrastrutture adeguate, o per mancanza di una sana educazione digitale diffusa. Bisogna ripartire dalle basi, dalle persone, dai territori e dalle esigenze degli utenti. Non soltanto la biblioteca si sveglierà differente ma anche l’utente di domani sarà mutato e più diffidente verso gli altri a causa dell’assuefazione al distanziamento sociale. L’approccio agli spazi cambierà, la giusta prevenzione imporrà un nuovo ritmo lavorativo e nuovi bisogni.
A seguito del nuovo DPCM sulla gestione dell’emergenza da coronavirus viene regolamentata la cosiddetta “fase 2” e si iniziano a vedere i primi accenni di ripartenza. Il DPCM che si applica dal 4 al 17 maggio conferma la chiusura al pubblico delle biblioteche, con la sola eccezione per le biblioteche delle università e delle istituzioni di alta formazione artistica musicale e coreutica che potrebbero riaprire a discrezione degli enti intermedi. Per le biblioteche di pubblica lettura, secondo le parole del primo ministro, si dovrà aspettare il 18 maggio. Già da ora le biblioteche iniziano a chiedere allo Stato, e alle regioni, procedure certe con cui ripartire in sicurezza. Quando riaprirà, con un tempo dettato dal virus, la biblioteca sarà diversa. Solo un esempio: secondo l’Istituto centrale per la patologia degli archivi e del libro, dopo ogni prestito, i libri dovranno stazionare per essere disinfettati fino a nove giorni e non si potrà permanere in biblioteca.
Sono tanti gli interrogativi che emergono. Come proseguire il rapporto quotidiano con l’utente, quale sarà il livello d’ingaggio delle attività online? L’Information literacy sarà utile per combattere l’infodemia? Come potranno aprire le centinaia di biblioteche sparse sul territorio gestite da volontari? Quale sicurezza ci sarà per i lavoratori precari? A queste domande e a molte altre ancora non c’è una risposta chiara, tutto cambierà e anche la biblioteca lo farà, rimanendo sempre però un presidio di culture, idee, conoscenza, sapere e democrazia.
Il lavoro del bibliotecario è un lavoro lungo, lento e di cesello. Una crescita continua sia degli utenti che dei lavoratori, una ricerca infinita di vecchie e nuove vie per ordinare il mondo e la rete della conoscenza. Un ruolo che non è una missione ma artigianato, cura, scienza e impegno costante e continuativo. Un lavoro che può contribuire a ricucire quel tessuto sociale liso, stanco e sfibrato che si sveglierà dopo questi giorni obnubilati. Bisognerà rivendicare un concetto di cultura come essenziale per il benessere delle comunità, slegata dall’aspetto utilitaristico, e una biblioteca per tutti, anche per quelli che non la utilizzano, vicina ai cittadini e attenta alle relazioni. Uno spazio coraggioso, plurimo e consapevole attento più alla circolazione del sapere che alle opere. In un mondo pieno di dubbi ci sarà bisogno di più biblioteche.
*Fonte delle fotografie: New York Public Library.