Che cos’è il lavoro culturale?

#lavoroculturale10: il primo articolo di uno speciale sul lavoro culturale, a 10 anni dalla nascita del blog.

Sala Cinema Fieravecchia, Siena, 2011

Dieci anni fa nasceva il lavoro culturale. Avremmo voluto organizzare feste, convegni, riunioni, seminari, e forse li faremo in futuro, ma in questa contingenza abbiamo deciso di non sostituire questi potenziali incontri fisici con collegamenti on line. Per ora abbiamo provato a chiederci non soltanto cos’è questo strumento che ha attraversato la cultura italiana negli anni dieci, ma anche cos’è il lavoro culturale in generale, dove e come lo si fa, chi lo svolge.

Quello che pubblichiamo oggi è il primo articolo di uno speciale sul lavoro culturale oggi. Si tratta di una tavola rotonda collettiva a cui hanno risposto alcune/i dei redattori e delle redattrici del blog (la lista è in fondo).

Ci siamo chiesti quindi cos’è il lavoro culturale, dove e secondo quali modalità si possa farlo. Lavoro culturale “è aprire finestre: non per avere un pensiero unico, ma per avere sempre la possibilità di guardare ad un problema, un tema un fatto da prospettive diverse, per non essere in gabbia” (am). “Fare lavoro culturale significa vivere criticamente il contemporaneo, la capacità di stare dentro e insieme fuori dall’attualità, affrontare cioè le cose che accadono nel presente con uno sguardo obliquo, tenendo insieme l’urgenza dell’ora con il respiro più ampio e più dilatato di quanto non è più” (gt), “vuol dire fissare il presente tramite il pensiero critico, verso il futuro” (gf). “Credo che voglia dire rivolgere un particolare sguardo alla realtà: uno sguardo capace di prestare attenzione alle domande che è necessario porsi, piuttosto che arrendersi al feticismo delle risposte facili. Il lavoro culturale è un lavoro di frontiera” (mtg). “Significa ‘traghettare’ idee e saperi (in senso generale) da una audience all’altra e da una generazione e l’altra. Permette di bilanciare l’ottimismo della volontà (lasciare una testimonianza, ispirare riflessioni critiche in futuro, traghettare la conoscenza e il sapere da una generazione all’altra, contribuire oggi alla costruzione di un’egemonia che sia anti-razzista, femminista, anti-capitalista, ecc.) e il pessimismo della ragione (la consapevolezza che il capitalismo neoliberale assomiglia sempre di più a un inesorabile e inarrestabile death cult e che incapacità l’immaginazione e la creatività politiche, rendendoci incapaci di immaginare una vita che sia dignitosa per tutti)” (pr).

Il nome del nostro blog viene da un libro di Luciano Bianciardi, a cui anche dieci anni dopo proviamo a tornare: “Quantomeno a partire dall’uscita della prima edizione di quel libro, nel 1957, parlando di lavoro culturale non si invoca su di sé l’aura del vate, non ci si incorona intellettuali né qualifica come ‘esperti’. Ad aprirsi è piuttosto una pratica critica e autocritica, ironica e autoironica che costringe a ripensare continuamente i modi di esprimersi, la qualità degli sguardi che portiamo sul mondo, le forme dello stare insieme. Si tratta di una condizione spaziale e temporale nella quale tentare di sottrarsi alle performance settimanali: dileguarsi senza obbligatoriamente ‘evadere’, riflettere sullo stress di un tempo presente modellato secondo criteri di ottimizzazione. Non si tratta di purismo, ma di un tentativo di indipendenza, spesso vissuto in modo conflittuale. Anche negli scritti successivi di Bianciardi, mi pare che si trovi quest’idea della pratica culturale come inalienabile, proprio in quanto non diurna e non feriale: uno spazio-tempo di elaborazione delle sgobbate del traduttore e del lavoratore cognitivo, un modo per spingersi immaginativamente oltre sé stessi, oltre il proprio mondo e le proprie fatiche. Fare lavoro culturale è in tal senso un modo di portare avanti una riflessione obliqua, trasversale ad ambiti sociali e discorsi diversi. C’è insomma qualcosa di ‘libero indiretto’, se non di antifrastico, tanto nell’espressione quanto nella pratica del lavoro culturale” (fz)

Il rapporto – a tratti dialettico, dialogico, conflittuale– con l’accademia rimane fondamentale: “fare lavoro culturale rappresenta per me sostanzialmente due cose: La prima è la possibilità di esprimermi in maniera ancora più libera di quanto non faccia quando scrivo cose ‘accademiche’, soprattutto dal punto di vista dello stile e del registro comunicativo, e in parte anche da quello dell’approccio critico. La seconda è la possibilità di raggiungere un pubblico più ampio e di contribuire a un ragionamento collettivo. Fare lavoro culturale fa sentire anche un po’ utili, insomma, senza troppe illusioni ma con parecchio entusiasmo” (eg). “Dentro e fuori le università. Questo doppio movimento, solo apparentemente contraddittorio, è stato un po’ lo slogan con cui sono nati i primi seminari sul lavoro culturale e poco dopo il blog. Per stare assieme – e non semplicemente convivere – bisogna però imparare a tradursi, a giocare con la lingua dell’altro, senza mai prendersi troppo sul serio. il lavoro culturale, è nato quando non c’erano spazi che in cui potevamo respirare senza soffocare. Oggi come ieri, il lavoro culturale resta un modo per osservare l’interstizio tra le parole e le cose attraverso degli strumenti interpretativi che ci permettono di osservare meglio e diversamente quello che ci sta attorno” (mc). “Nelle aule universitarie si fa certamente lavoro culturale. Che sia la priorità però, non mi è (più?) chiaro. In quelle che ho attraversato io, direi un misto, con una costante burocratizzazione dell’esistente – e soprattutto del potenziale – che prova a strozzare tutto o quasi” (lp).

Il nostro lavoro culturale esiste in connessione e stretta interdipendenza con quello che ci sta attorno, che sia l’accademia, il lavoro cognitivo precario, e la nostra stessa quotidianità: “negli ultimi dieci anni siamo state/i testimoni di una precarizzazione sempre più spinta e rapida del lavoro, e il lavoro culturale purtroppo si è scoperto tutt’altro che immune a tale tendenza. In questo panorama è difficile fare lavoro culturale, eppure è sostanzialmente per queste stesse ragioni che quello presente è il momento più opportuno per farlo, facendo attenzione a svincolarsi da qualsiasi sentimento o atteggiamento di ‘mandato’ o missione, perché non farebbe altro che esacerbare la retorica dello scontro, senza davvero contribuire a nulla. Questa condizione per me tutt’oggi rappresenta la difficoltà maggiore che ci ritroviamo ad affrontare, senza contare gli effetti che questa condizione produce sulle vite emotive e relazionali di chiunque. Ma rappresenta anche una sorta di ‘finto enigma’ dal momento che a fronte del fatto che il lavoro culturale ci consegnerebbe gli strumenti utili a contestare in maniera radicale tale condizione e a immaginare delle alternative, a questa consapevolezza fatichiamo spesso a trovare delle pratiche efficaci di resistenza e soprattutto a spostare tale presa di coscienza a un livello più ampiamente collettivo e transgenerazionale, a un livello cioè, mi verrebbe da dire, più espressamente politico. Sappiamo infatti che comprendere lo status quo e criticarlo non è sufficiente, e allora, entrare a far parte di un progetto culturale collettivo può essere un passo per spostarsi più in là, ampliando le prospettive, trovando uno spazio che interroga continuamente la propria posizione e che vive delle più svariate relazioni – di pensiero e di persone – che lo sfidano e lo attraversano” (cc). “Forse posso provare a mettere l’accento ora sul sostantivo – il lavoro culturale –, ora sull’aggettivo: il lavoro culturale. Nel primo caso, i pensieri sono talvolta malinconici, perché non sempre si riesce a far sì che il lavoro culturale sia un lavoro nel senso proprio del termine, ovvero qualcosa di dignitosamente retribuito, regolato e riconosciuto. Nel secondo caso, invece, mi fa felice pensare che magari questa confusione che ho in testa riguardo una possibile definizione è un buon segno: forse è così perché il lavoro culturale è ormai dissolto nella mia vita quotidiana, impregnando il mio modo di stare al mondo, di pensare tutte le sfere della mia esistenza di tutti i giorni, a volte anche quando non dovrebbe essere così” (la).

Diventa allora fondamentale posizionarsi. Capire da dove parliamo, quali luoghi fisici o meno attraversiamo. Ritorna la frontiera di cui si parlava prima: “L’altro aspetto del fare lavoro culturale sulla frontiera oggi è quello di essere consapevoli del proprio posizionamento (di genere e, possiamo dire, di classe?) e provare a chiarirne i contorni; perseguire – o almeno provarci – un’etica del lavoro che si sottragga alla ‘guerra dei poveri’ che spesso i lavoratori della cultura si trovano a condurre l’uno contro l’altro” (mtg). “Da allora [dopo aver letto lavoro culturale di Bianciardi da adolescente] decisi che quello che volevo fare io era dedicarmi a quello che poteva sembrare un ossimoro. Fare lavoro culturale. E farlo in provincia dove, come scriveva Lucianone, i fenomeni si colgono nella loro integrità. Ieri come adesso, quando la provincia è quella di chi sta fuori dagli epicentri del capitale. Si può vivere in provincia anche a Milano o a Roma. Sei provincia quando non hai capitale culturale, quando la tua vita non assomiglia a quella delle persone che contano. Quando la tua vita sembra indegna di essere vissuta. E invece è proprio lì che è importante fare lavoro culturale” (ap).

Anche il blog dove viviamo settimanalmente esprime implicitamente un posizionamento –“la pervasività dei media ci ‘costringe’ a presenziare la rete” (gf)  – che non è rimasto costante, che si riarticola: “siamo cresciuti anche grazie a questo spazio virtuale, cercando sempre di forzare i limiti delle logiche editoriali legate al web e ai social network: ci destreggiamo, anche fallendo, tra SEO, hashtag, strumenti per la programmazione dei post, regole sui diritti d’autore delle immagini e molto altro. Abbiamo sempre provato a imparare infrangendo alcune delle regole legate alle tecnologie digitali e ai loro dispositivi discorsivi, soprattutto quando questi ci apparivano limitanti per le nostre esigenze e ambizioni” (mc). “Credo sia importante pensare il nostro blog come un archivio aperto e costantemente percorribile, in cui lettori e autori possono attivare connessioni inedite tra passato e presente. La forza del formato web è proprio la connettibilità e di conseguenza la possibilità di individuare legami inaspettati. Il lavoro culturale in epoca digitale è allora anche un strumento che ci aiuta a capire come costruire queste connessioni e allo stesso tempo far emergere  quelle false o discutibili” (mc)

C’è infatti una dimensione importante della comunità, dello stare insieme, di un modo di vivere collettivamente: “fare lavoro culturale significa cercare di generare spazi in cui stare insieme, in cui ricostruire microcosmi polifonici di incontro e di discussione che siano in grado di tenere insieme molteplici sguardi, molteplici sensibilità politiche, molteplici approcci critici a quell’idea tanto sfuggente e complessa quanto attraente e affascinante che chiamiamo ‘il contemporaneo’. Significa sviluppare reti, amicizie, solidarietà, tensioni politiche, e anche un sacco di incazzature dentro spazi liberi dalle logiche dal lavoro culturale pagato e retribuito che svolgiamo nel quotidiano. Fare lavoro culturale significa che chi traduce, chi insegna, chi scrive, chi fotografa, trova e si ritaglia uno spazio in cui respirare, in cui magari si pone gli stessi interrogativi che si pone quando fa il proprio lavoro retribuito, o che con esso si intersecano, o sulle condizioni stesse su cui si regge il proprio lavoro culturale retribuito, ma con uno spirito diverso. Purtroppo, o per fortuna, i modi e i luoghi sono quelli di chi sta insieme a distanza. Il lavoro culturale, a il lavoro culturale e in altri casi, si situa in dei blog tenuti in piedi da fiumi di email, chat, e discussioni online tra persone che spesso faticano a vedersi di persona, che si sentono ma vivono in città e paesi diversi, e che traducono questa distanza in riflessione insieme. Questa condizione di moltitudine sparsa è la debolezza e punto di forza del lavoro culturale di oggi. Da un lato si è più “disincarnati” (per usare l’espressione di un nostro compagno di viaggio che ha deciso di non stare più dentro il lavoro culturale), dall’altro questa condizione spinge a cercare di “sanare la distanza”, a cercarsi e a ritrovarsi in microcosmi di incontro e discussione, che per quanto disincarnati e a distanza, generano un ronzio costante su una miriade di temi e questioni culturali, sociali e politiche, un ronzio come il ronzio de il lavoro culturale” (np).

Di rapporti umani insomma che vivono nelle distanze e nelle vicinanze. “So bene cos’è Il lavoro culturale nel senso di sito: è una faccenda di amicizia, prima di tutto. Il lavoro culturale è per me le piadine mangiate in spiaggia con Nicola e Francesco, quella volta a Pesaro. Il lavoro culturale è per me il cannolo mangiato con Cecilia e Maria Teresa, quella volta a Palermo. E anche i gelati, in entrambi i casi. E così via. Gli esempi sono tanti, i ricordi molti, le emozioni troppe. Insomma, Il lavoro culturale è per me, prima di tutto, una storia di amicizia. È una risposta paracula che aggira le tante problematicità del mondo del vero lavoro culturale? Può darsi, ma oggi è un giorno di festa, e i pensieri seri li lascio per domani. Forse. E poi, francamente, che piadine! Che cannoli! Che gelati! Che amici! Che felicità! Ecco, che felicità. Il lavoro culturale è felicità” (la).

Hanno contribuito a questa serie:

Lorenzo Alunni (la)

Massimiliano Coviello (mc)

Cecilia Cruccolini (cc)

Giuseppe Forino (gf)

Enrico Gargiulo (eg)

Maria Teresa Grillo (mtg)

Angela Maiello (am)

Nicola Perugini (np)

Alberto Prunetti (ap)

Luca Peretti (lp)

Paola Rivetti (pr)

Giacomo Tagliani (gt)

Francesco Zucconi (fz)

Continua. Il secondo articolo della serie #lavoroculturale10 uscirà l’8 febbraio.

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