L’articolo segue la documentazione fornita dal primo capitolo dell’eccellente libro di Silvia Trovato e Tiziano Arrigoni “Una vita per il cinema. L’avventurosa vita di Umberto Lenzi, regista“, La Bancarella Editrice, Piombino 2016, di cui raccomandiamo la lettura.
Gli anni delle Resistenza e del dopoguerra, fino alla Riforma agraria, furono nella provincia maremmana anni di fermento culturale e politico. Anni in cui la logica del galantuomo e del cafone, un rigurgito borbonico altrove ben radicato, sembrava impossibile anche solo a concepirsi. Anni in cui il figliolo di un vinaio di Massa Marittima, nipote del macellaio di Follonica, poteva laurearsi in diritto e con una borsa di studio diplomarsi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma per diventare un regista di successo.
Questa storia è la storia di Umberto Lenzi, oggi un osannato autore del cinema di genere italiano degli anni Settanta. La scrivono Silvia Trovato e Tiziano Arrigoni in una biografia data alle stampe dalla Libreria Bancarella di Piombino. In questa segnalazione su il lavoro culturale, non mi interessa “raccontarvi il libro”. Del resto la figura di Umberto Lenzi ̶ re dei b movie, prima dimenticato poi celebrato da Quentin Tarantino e dalla critica ̶ ormai è nota a tutti. I riflettori vanno puntati adesso, e in parte già l’abbiamo fatto in questo articolo per «la Repubblica», su Umberto Lenzi protagonista del lavoro culturale nella provincia maremmana degli anni del boom e del neocapitalismo. Gli anni dell’apprendistato e della formazione.
Cominciamo da quest’immagine: Umberto Lenzi che cammina con Cassola e Bianciardi e col fotografo Corrado Banchi sulle strade polverose dell’intellettualità di provincia disorganica e libertaria, che allora passava attraverso il coinvolgimento delle masse dei proletari. Di questo parlerò nelle prossime righe, seguendo il primo capitolo della biografia di Trovato e Arrigoni.
Discendente da una famiglia di lavoratori che dalle montagne pistoiesi calavano in Maremma per i lavori stagionali, nipote di un venditore di vino follonichese e figlio di un macellaio di Massa Marittima, Umberto Lenzi era lontano dalla nobiltà iconografica di Visconti o dal sublime linguaggio cinematografico borghese di Michelangelo Antonioni. Umberto guardava al cinema con la sapienza umile del ceto basso che “non butta mai nulla”: girava quasi con gli stessi attori più film e dello stesso film più versioni (con le mutande e senza, a seconda degli standard della censura). Il suo era un mestiere da artigiano del popolo minuto. E l’artigianato ha bisogno di un apprendistato.
L’apprendistato di Umberto Lenzi si realizzò nel lavoro culturale tra i minatori maremmani. Che nel periodo tra due eventi fondamentali, la strage di Niccioleta del ’44 e quella di Ribolla, di là da venire, del ’54, conobbero un decennio di forte consapevolezza politica. Non chiedevano solo il pane, esigevano anche le rose. E le rose erano romanzi, film, dibattiti, cultura. Tutto quello che in altre parti d’Italia era appannaggio dei ricchi e della borghesia, in quegli anni, galvanizzati dalla Resistenza e dal Neorealismo, veniva rivendicato dal sale della terra, dai minatori e dai contadini maremmani.
Così Massa Marittima a cavallo degli anni Cinquanta si trasforma in un fervente cantiere culturale, una provincia senza provincialismo. Si discuteva sotto le logge, sugli scalini del duomo, al caffè, nelle sedi del partito e del sindacato. Si parlava di letteratura e cinema. Non era così strano: un figlio di un minatore di quelle parti, Bruno Travaglini, oggi più che ottantenne, mi racconta di aver nutrito la propria avversione al fascismo già agli inizi degli anni Quaranta grazie alle letture per ragazzi che sfuggivano alla censura, come Il tallone di ferro di Jack London, libro che suo padre minatore, poi ucciso nel tragico eccidio nazifascista di Niccioleta, aveva letto e riletto. Libri che durante il fascismo facevano parte delle biblioteche personali dei minatori assieme alle opere di Salgari e che poi finirono nella biblioteca popolare dell’Ente Culturale Cooperativistico, un’istituzione culturale sorta nel 1947 a Massa Marittima col fine di gestire la vecchia casa del fascio trasformandola in un teatro, il Goldoni. Scopo dell’ente, in anni tumultuosi, era quello di unire le energie dei giovani intellettuali di provincia con le forze proletarie che si radicavano e facevano egemonia nel territorio. A lato di questa iniziativa, la fondazione di un Circolo del Cinema, in sintonia coi cineclub che spuntavano come funghi nelle grandi città, circolo che sarebbe stato ospitato proprio nei locali dell’Ente Culturale Cooperativistico, sopra le Fonti dell’abbondanza. Grazie a questo nuovo attivismo culturale, davanti agli occhi degli operai massetani sfilarono le pellicole di René Clair e di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Miracolo a Milano di De Sica e Le luci delle città di Chaplin. Politica, intrattenimento ed “elevazione culturale”. Il pane e le rose, appunto. Seguendo l’impronta teorica di Béla Balázs, teorico ungherese del cinema d’impronta marxista, arrivarono anche Milione di Clair e Germania anno zero di Rossellini. E ovviamente Ladri di biciclette.
Sembrano scene uscite dalle pagine de Il lavoro culturale di Luciano Bianciardi. Ed è probabile che quell’esperienza massetana servisse da sprone per l’immaginario di Bianciardi, che nelle sue pagine rievocherà la calata degli intellettuali in provincia tra contadini e minatori, costretti a dialogare a notte fonda di cinema alle Quattro strade. E infatti fu proprio lui, Luciano Bianciardi, che nell’inverno del 1950 si presentò a Massa Marittima, appena ventottenne, per conoscere questa realtà di intellettuali e minatori e per replicarla a Grosseto assieme ai fratelli Isaia e Aladino Vitali. Bianciardi descriverà la ricca situazione che si trovò di fronte in un articolo per «Il Contemporaneo»:
Gli operai hanno realizzato concreti e solidi rapporti di alleanza con certi gruppi intellettuali. Il loro circolo ha un’attiva e ben fornita bibliotechina cittadina e gestisce anche il maggior cinema cittadino. Spesso organizzano conferenze, letture e dibattiti culturali. Il responsabile del circolo è un giovane universitario, mi mostra orgoglioso le statistiche” delle letture.
Quel giovane universitario è Umberto Lenzi, futuro autore di Milano odia, la polizia non può sparare, allora studente pendolare che ogni mattina andava a Pisa a seguire i corsi con un autobus della Massa-Follonica e poi con un treno sulla fascia tirrenica. Al ritorno, la sera, la militanza che poneva di fronte minatori e intellettuali.
L’apice di quell’attivismo culturale fu la prima nazionale di un film importante, Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani del 1954, interpretato da Marcello Mastroianni, che il regista decise di proiettare per la prima volta proprio tra i proletari maremmani di Massa Marittima. Luciano Bianciardi faceva da presentatore, il regista assente era sostituito dal produttore e al tavolo degli oratori c’era lo scrittore sardo Giuseppe Dessi, allora provveditore agli studi a Grosseto, in compagnia dell’attore Giuliano Montaldo e dell’attrice Eva Vanicek. Un film attesissimo, un adattamento da Vasco Pratolini, scrittore popolare, figlio lui stesso di operai e acclamatissimo in quegli anni, e a ragione, a Massa Marittima.
Proprio Umberto Lenzi aveva fornito a Bianciardi i dati dei prestiti bibliotecari e il futuro autore di Metello era risultato lo scrittore più amato dai minatori di Massa Marittima. Scrive Bianciardi: «Mi mostra orgoglioso le statistiche delle letture, in testa è Vasco Pratolini, che lo scorso anno venne quassù di persona per parlare del suo lavoro». Pratolini era arrivato a Massa Marittima nel 1953 per incontrare i minatori: seduto accanto a Lenzi in una sala gremita di minatori e studenti, lesse alcune pagine del suo manoscritto inedito che poi sarebbe stato dato alle stampe col nome di Metello (un libro che considero superlativo, detto per inciso, nella produzione italiana di quegli anni) e poi autografò un centinaio di copie di Le ragazze di San Frediano e di Cronache di poveri amanti.
Ancora nel 1953 ci fu un altro avvenimento che unì Lenzi alle sorti di Cassola e Bianciardi: l’inizio della campagna elettorale con la formazione del movimento di Unità Popolare. Aderirono transfughi del Partito d’Azione, repubblicani e socialisti. Cassola e Bianciardi in provincia si muovevano ormai da leoni, uno, l’autore de La ragazza di Bube, era impulsivo, sbraitava; l’altro, Lucianone, disteso, sparava battute e rimaneva ironico e tranquillo. Lenzi si unirà al movimento, come fece a Grosseto l’avvocato Marcello Morante, futuro padre dell’attrice Laura. L’avvocato Morante, figura di spicco della scena intellettuale grossetana, amico di Bianciardi e Cassola, era fratello di Elsa Morante, che Umberto Lenzi descrive in un suo ricordo sulla spiaggia di Follonica. Se avete visto Il vangelo secondo Matteo di Pasolini e ricordate la figura di Giuseppe, il babbo di Gesù Cristo, be’, quello era Marcello Morante.
Unità Popolare ottenne un risultato confortante, anche se destinata a essere compressa da partiti più forti. Ma la storia dei protagonisti di queste vicenda stava per andare a sbattere contro un evento catastrofico. Nel maggio 1954 nel villaggio minerario di Ribolla ̶ dove Bianciardi, bibliotecario grossetano, si avventurava con un bibliobus carico di libri da prestare agli operai ̶ un’esplosione di grisou distrugge la vita di quarantatré minatori e apre una ferita nella memoria storica grossetana non ancora cicatrizzata. Per i vertici della Montecatini sarà l’occasione per chiudere le miniere e spostarsi sul fronte degli stabilimenti chimici, importando le materie prime dall’estero e virando verso gli idrocarburi. Per il trio Cassola, Bianciardi e Lenzi, coadiuvati dal fotografo massetano Corrado Banchi (divenuto famoso in seguito per la celebre rovesciata di Parola, che finirà sulle figurine Panini in tutto il mondo) quella tragedia segnerà l’amaro apice del loro lavoro culturale in provincia: giorni di infuocato e tragico attivismo, tra interviste, articoli, fotografie, reportage, proteste, lacrime, pacche sulle spalle, ore e ore a fianco di minatori e soccorritori fino ai funerali operai, con le donne che quasi menarono il prete in chiesa. Nell’occasione Lenzi, Bianciardi e Cassola scrivono il manifesto di denuncia che poi sarà pubblicato a nome della Cgil. Mentre dalle viscere della terra risalgono i corpi esanimi dei lavoratori, «in paese si è scatenata l’onda del terrore, e le donne son scese in strada, così come si trovano, con quattro stracci addosso: urlano davanti alla saracinesca abbassata del garage, dove trasportano i cadaveri man mano che li trovano». Solo un anno prima quarantacinque operai della Montecatini, che protestavano per le condizioni di sicurezza del lavoro, erano stati arrestati e tenuti ammanettati dalla polizia, «per dare l’esempio».
Quell’evento tragico segnò tutti i protagonisti. L’attivismo culturale dei minatori massetani si arenò di fronte al sacrificio, alla sconfitta. Terminato l’oggetto narrativo I minatori della Maremma, dato alle stampe per Laterza nel 1956, le strade di Cassola e Bianciardi si dividono. Bianciardi abbandonava Kansas City e partiva per Milano, per lavorare al nuovo progetto della Feltrinelli, sognando di far saltare in aria il palazzone della Montecatini, come il protagonista de La vita agra. Quanto al giovane Lenzi, vincerà un posto al Centro Sperimentale di Cinematografia per il corso di regista e si trasferirà a Roma. Tornerà a Massa Marittima nel 1957 con Pietro Germi per la proiezione de Il ferroviere, ma sarà quella l’occasione di un addio al pubblico dei minatori.
Lenzi partiva dalla provincia come Bianciardi, sulla cresta dell’onda degli anni del progresso, dell’impegno politico e culturale. Non divenne un apologeta dello stato di cose esistente. Come Lucianone, si ritrovò a raccontare l’altra faccia del boom: le città metropolitane dove ci si smarrisce o dove si viene sommersi dall’odio e dalla violenza. Ma io mi fermo qui: questa è una storia che Quentin Tarantino conosce meglio di me.